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venerdì 1 gennaio 2016

LA VAL CODERA


La Val Codera è una valle collocata in provincia di Sondrio, nel comune di Novate Mezzola.

La Val Codera confina con la Val Bondasca e la Val Masino. È raggiungibile solo a piedi o in elicottero (non esistono infatti strade per altri mezzi di trasporto). Nella valle è presente il piccolo villaggio di Codera.

La valle è percorsa dal torrente Codera, che sfocia poi nel Lago di Mezzola. Tra i monti che contornano la valle ci sono il Pizzo Badile e il Pizzo Cengalo.

« Su per il lago di Como di ver la Magna è valle di Ciavèna, dove la Mera flumine mette in esso lago; qui si truova montagne sterili et altissime con grandi scogli... qui nasce abeti, larici et pini, daini, stambuche, camozze e terribili orsi, non ci si può montare se non a quattro piedi. »
La terrifica descrizione della zona che Leonardo da Vinci tratteggia nel suo Codice Atlantico trova un popolare quanto coincidente riscontro nella tradizione che vede la Val Codera, per la sua natura così aspra e selvaggia, essere stata creata dal buon Dio per prima, quando, ancora inesperto, non sapeva come sistemare per benino le montagne; oppure per ultima, quando, ormai stanco di tutte le fatiche della creazione, scaraventò a casaccio in questo minuscolo angolo di terra le ultime montagne ed i dirupi più scoscesi che gli erano avanzati. Ma, genesi a parte, da questo angolo aspro e nascosto, proprio per la sua posizione strategica, sono passati i tanti popoli che hanno fatto la storia d’Europa: dai Celti e dai Romani ai vari popoli barbari, dai Francesi agli Svizzeri, dagli Spagnoli agli Austroungarici. I segni del loro passaggio sono visibili ancora oggi, dai massi avello di San Giorgio ai ponti di Codera, alle testimonianze scritte o di tradizione orale ancor ben vive tra chi frequenta il comprensorio.

La Val Codera è un piccolo lembo di Alpi che è sempre stato abitato: nel 1933 risiedevano ancora in tutta la valle circa 500 persone. Nel dopoguerra, però, si ebbe un’accelerazione del fenomeno di spopolamento, comune a tante località alpine, qui accentuato dalla mancanza di un adeguato collegamento con il fondovalle, più volte invano richiesto per evitare l’abbandono totale. Tra le istituzioni tradizionali ancora in uso vanno segnalate le quattro processioni annuali che si svolgono a Codera nei giorni di S. Marco, S. Giovanni Battista, Assunzione di Maria e S. Rocco, quando le sacre effigi vengono trasportate per le vie del paese dai confratelli dalla tunica scarlatta.

La Val Codera ha assunto un'importanza storica significativa durante il periodo del fascismo, quando divenne la meta per i ritrovi delle Aquile randagie, gruppo scout clandestino (le leggi fasciste avevano reso illegale lo scautismo e tutte le associazioni giovanili all'infuori dell'Opera nazionale balilla). La prima Aquila randagia a scoprire la valle, ideale per operare in clandestinità data la sua inaccessibilità, fu Gaetano Fracassi nel 1935.

Da allora la valle è un luogo privilegiato per itinerari di gruppi scout.

Tra le attrazioni turistiche della valle ci sono il Museo Etnografico di Codera e il Museo "I Noss Regoord" di San Giorgio.

Chi traversa i numerosi centri abitati e presta attenzione alla fitta distribuzione di costruzioni che punteggia la vallata, stenta a credere come l’uomo abbia potuto vivere e lavorare in un territorio così aspro ed impervio. Soprattutto ad Avedèe, Cola a Codera, ma anche a Cii e San Giorgio è ancora ben visibile l'accanito lavoro di terrazzamento compiuto per recuperare terreno pianeggiante ove un tempo veniva coltivato un po' di tutto, perché tutto sarebbe stato troppo costoso se procurato da fuori: canapa e lino per i tessuti, orzo, segale, granturco e patate per il vitto, costituivano gli elementi di una economia forzatamente autarchica. Attualmente una parte minima dei campi degli abitati viene coltivata a patate, fagioli ed ortaggi; a San Giorgio, Codera e Cola vigoreggia qualche campo di granoturco, della qualità "quarantìn" che matura entro ottobre.

A Codera una gestione associativa di alcuni coltivi, altrimenti abbandonati, permette di inviare per la distribuzione a Campo e Novate Mezzola un discreto quanto ricercato quantitativo di prodotti non trattati, come patate, di fagioli e di farina di granturco. Lo sfruttamento del legname è ormai pressoché assente, date le difficoltà di trasporto, anche se in passato estese superfici di bosco venivano utilizzate per questa attività, con flottazione al piano attraverso il fiume.

I castagneti costituivano sino a qualche decennio or sono una delle ricchezze della zona: le castagne sono state da sempre uno degli alimenti più utilizzati (ne fanno fede le diverse ricette che le annoverano come gustosi ingredienti). Per non sacrificare le scarse colture (indispensabili al sostentamento dei numerosi abitanti), e soprattutto il foraggio (che consentiva l’allevamento di poche vacche, di numerose capre e pecore), si limitava la coltivazione di altri alberi da frutto a qualche noce e qualche ciliegio.

L'allevamento semibrado delle capre è ancora il più diffuso; si contano in valle più di 300 capi, tenuti in stalla solo al momento della nascita dei capretti (marzo-aprile) che vengono venduti dal periodo pasquale in poi. Il bestiame bovino è ridotto a poche unità monticate durante l’estate all'alpeggio di Brasciàdiga, ove si possono trovare saporiti formaggi d’alpe. Tra i latticini il mascarpìn è sicuramente esclusivo della vallata: formaggio grasso di latte di capra dalla caratteristica forma affusolata, simile ad un dirigibile, che può essere gustato fresco come una ricottina o salato e lievemente affumicato, utilizzato da solo o come condimento di verdure e di primi piatti.

Strettamente correlato alla geologia della valle, un ultimo prodotto ne lega, come una costante sotterranea e profonda anche i più remoti aspetti: la pietra, o, meglio, il granito sanfedelino. Muri, tetti, stipiti, reggigronda, soglie e davanzali, scale e terrazze di edifici sono di granito; di granito le panchine, i tavoli all’aperto e dei crotti, ed il rullo del campo di bocce di Codera, e ancora le vasche, i lavatoi, le mangiatoie per il bestiame. Per secoli l'estrazione, la lavorazione e l'esportazione del granito, sino alle grandi città di pianura sotto forma di pavé e di cordoli da marciapiede, è stata croce e delizia della valle: delizia per la possibilità di integrare con la sua commercializzazione i magri introiti di un’agricoltura e di un allevamento di sussistenza, croce per l'inesorabile silicosi che colpiva gli abilissimi scalpellini (picapreda).

Il rivestimento del palazzo municipale di Novate, completato nel 1991, è l'ultima delle opere pubbliche in cui sia stato utilizzato il sanfedelino: rimangono vecchie cave e numerosi abili artigiani della pietra, che con le raccolte museali di san Giorgio, sono la testimonianza di una presenza che ha reso speciale la Val Codera.

La Val Codera, una delle più suggestive ed amate in provincia di Sondrio, in quanto ancora preservata dall’accesso degli autoveicoli per la mancanza di una strada carrozzabile, è anche una delle più ricche di leggende legate ad ombre, presenze inquietanti e stregonerie. Del resto, la leggenda stessa che narra della sua origine non è luminosa: si dice che a Dio, dopo che ebbe fatto il mondo, avanzassero mucchio di pietre, che, sparse un po' alla rinfusa, crearono la valle, il cui nome, infatti, deriva da "cotaria" e quindi da "cote", cioè masso. Una variante di questa leggenda racconta che la valle fu la prima ad essere creata da Dio, il quale, ancora inesperto, la fece troppo selvaggia ed aspra. Questa la cornice di una serie di leggende accomunate da un alone di cupo mistero. Molti anziani raccontano ancora di aver udito, o aver vissuto di persona, incontri con uomini ed animali misteriosi, rivelatisi poi manifestazioni di anime malvagie o di streghe.
La figura più celebre è quella del Valfubia, su cui si narrano diverse storie. Costui era un uomo malvagio, che rubava anche a persone povere, fra le quali una povera vedova che aveva molti figli da mantenere, per cui, una volta morto, fu condannato a vagare, come un’anima in pena, di notte, assumendo sembianze sempre diverse, ora di uccello rapace, ora di maiale (con un curioso taschino dal quale usciva tabacco!), ora di ombra inafferabile. Dicono che le sue urla lamentevoli fossero davvero impressionanti. Come spesso accade in questi casi, per risarcirsi della sua condizione infelice prendeva di mira quanti si trovassero a transitare da soli su sentieri della valle, o anche uscissero di casa la sera, nella zona compresa fra Codera e Bresciadega. Faceva, quindi, rotolare contro di loro sassi dalle gande, oppure, più spesso, si materializzava improvvisamente, fra le ombre della sera, terrorizzando i malcapitati con un forte soffio. L’unico modo per tenerlo alla larga era munirsi di un rosario: quel segno di devozione e preghiera, infatti, riusciva insopportabile alla sua anima malvagia.
 
Più inquietante ancora del Valfubia è la figura di un uomo misterioso che terrorizzava, sempre nottetempo, i viandanti sui sentieri nei dintorni di Cola (voce dialettale che significa colle, vetta) e di San Giorgio di Cola. La sua dimora era in una grotta nascosta, da qualche parte nei pressi del sentiero che unisce i due paesi scendendo nel cuore oscuro dell’impressionante vallone di Revelaso (o Revelasco: da "rava", dirupo). Chi lo aveva visto lo descriveva come un individuo vestito in modo bizzarro, ben diverso da quello semplice ed essenziale dei contadini: portava una giacca nera su pantaloni e stivali marroni. Talvolta di lui si udivano solo rumori, il fruscio dei rami degli alberi che scuoteva per far paura alla gente, oppure si intuiva la presenza, dietro qualche anfratto o qualche fronda, quando i lupi, suoi amici, ululavano nelle notti di luna piena, perché, si dice, se ne stava sempre nascosto a spiare le persone che passavano. Ma non si limitava a questo: altre volte scatenava la sua malvagità giungendo ad uccidere i viandanti, tanto che si era creato un terrore tale che la gente, al calar delle prime ombre della sera, non solo non usciva più di casa, ma vi si chiudeva proprio dentro a chiave, sussultando ad ogni rumore nella soffitta o alla porta di casa.
Non si poteva più andare avanti così, ed allora venne decisa una vera e propria battuta di caccia, cui parteciparono tutti gli uomini dei due paesi, ed anche qualche donna coraggiosa. Guidati dal lume della luna e delle lanterne e muniti di robusti bastoni di castagno, costoro setacciarono i boschi della zona. Alla fine la loro tenacia fu premiata, perché apparve, fra gli alberi, l’ombra dell’uomo malvagio, che fu riempito di energiche bastonate e scaraventato nel cuore del vallone, dal quale non riemerse più. Rimasero, di lui, solo i flebili lamenti che, durante i temporali, salivano dalla Caurga. Ma nessuno ebbe più nulla di cui temere, da allora.
Torniamo, ora, verso Codera, e fermiamoci al maggengo di Cii, posto su un bellissimo terrazzo panoramico che guarda al lago di Novate. Qui ci accoglie una delle più classiche storie di stregonerie, quella delle streghe di Cii. Protagonista un giovane di Codera, fidanzato ad una ragazza di Cii. Un giorno, mentre si recava a trovarla, si imbattè in una volpe misteriosa e, seguendola, si accorse che entrava proprio nella casa della fidanzata. Sbirciando, vide che questa e la madre, vestite della festa, ungevano tempie, polsi e caviglie, pronunciando poi la formula “Tre ur andà, tre ur a sta e tre ur a venì” e volando via attraverso la cappa del camino. Preso dalla curiosità, pronunciò anche lui la formula, ma, essendo furbo, apportò qualche modifica e disse “Un ur andà, un ur a sta e un ur a venì”. Si ritrovò, così, in un grande salone, nel quale erano riunite molte persone, anche morte, mentre un misterioso individuo, dalle gambe caprine, scriveva su un librone il nome dei presenti. Lui tracciò sul librone una croce, perché non sapeva scrivere, ed allora accadde qualcosa di ancora più incredibile: forse perché era un segno che con quel posto non si conciliava troppo, forse per qualche altro motivo, il giovane si ritrovò, nudo e con il librone nero in mano, in cima al pizzo d’Arnasca, proprio sul ciglio dell’impressionante parete liscia che precipita nella valle omonima. Siccome conosceva bene quelle montagne, riuscì a scendere a valle, dove incontrò due donne che gli offrirono una camicia ed un paio di calze, purché gli consentisse di cancellare il loro nome dal libro. Allora capì tutto: la sala misteriosa era un ritrovo di streghe e stregoni, presieduto dal diavolo, ed allora corse dal Vescovo di Como per denunciare i malefici della valle. Questi, nella cattedrale, lesse pubblicamente i nomi segnati sul libro. Ogni volta che un nome veniva pronunciato, la persona corrispondente appariva prodigiosamente. Streghe e stregoni vennero così catturati e mandati al rogo.
Questa, però, non è lunica storia di stregoneria ambientata nel piccolo nucleo di Cii; una seconda storia, raccolta dalla Scuola Media di Novate Mezzola, viene così riportata nella citata raccolta "C'era una volta": "A Codera viveva una vedova con sua figlia; allora c'erano molte vedove. Un giovanotto si era innamorato di quella ragazza e voleva sposarla, lo aveva confidato anche al prete, ma egli gli aveva detto che non era la ragazza che faceva per lui. Il giovanotto insisteva dicendo che la ragazza sapeva custodire le capre, raccogliere la legna, lavorare la maglia e che andava sempre in chiesa. Il prete continuava a dirgli di non sposarla. Allora il giovanotto gli chiese come faceva a giustificare quella affermazione e quindi il prete lo aveva invitato a casa di giovedì (il giovedì era il giorno in cui le streghe lavoravano) per dargli delle spiegazioni.
Il prete allora aveva mandato il giovane sulla grande "lobia" di casa sua, gli aveva detto di mettere il piede sopra il suo e di guardare verso Cii. Stavano arrivando la ragazza e sua madre che erano andate a prendere della legna che avevano messo in una fascina infilata sulle corna. Il povero ragazzo stava per svenire e dovette bere dell'acqua. Dovette ricredersi, e il prete gli suggerì di fare finta di niente e di fare fagotto (a quel tempo non esistevano le valigie, neanche di cartone); quindi era sceso a valle per richiedere i documenti ed era partito per l'America senza fare più ritorno."

Altre storie si raccontano sulle stregonerie della Val Codera. Una di queste parla di un gatto nero che tenta di aggredire un giovane che saliva a Codera per trovare la fidanzata: il giovane gli taglia una zampa, che si trasforma prodigiosamente in una mano con una fede al dito. Appena giunto in paese, si reca poi da una donna che cerca di lui: entrato in casa, ode il suo lamento, vede un moncone al posto della mano sinistra e capisce che il gatto era lei, e che si trattava di una strega. Ed allora se ne esce con una frase lapidaria: “Se eravate voi e non siete morta, morirete”.
Assai simile alla precedente questa seconda storia, che ha sempre come protagonista la metamorfosi di una strega in gatto nero:
"Un uomo stava scendendo a Codera dall'alta valle. Arrivato al lavatoio vecchio, dopo "Prà Mulinat", gli si fece incontro un gatto nero che cominciò a giragli tra le gambe. L'uomo tentò di cacciarlo via, ma il gatto non ne voleva sapere. Al colmo della sopportazione, l'uomo prese la roncola che portava appesa alla cintola e gli tagliò una zampa; immediatamente si fermò impietrito: la zampa appena tagliata si era trasformata in una mano di donna con una fede al dito! Arrivato a Codera gli dissero che una donna lo cercava. Andò a trovarla e questa gli disse che doveva punirlo perché le aveva fatto del male. L'uomo allora capì che quella donna non era altro che una strega e riuscì così a smascherarla.
La gente della valle sapeva che spiriti ed esseri malefici potevano scatenare il loro potere dal suono dell’Ave Maria, alle sei di sera, fino ai primi rintocchi del mattino (è un detto diffuso, in provincia di Sondrio, “suna l’Ave Maria, gira la stria”, cioè al suono dell’Ave Maria la strega si mette a girare). Ma il suono di questa campana, la Bàrbula, poteva anche salvare dagli spiriti, quando riecheggiava alle sei di mattina, termine oltre il quale ad essi non era più concesso girare per insidiare i viandanti. Una volta, infatti, salvò una donna costretta a tornare a notte fonda a Codera dopo avere acquistato una medicina a Novate. Incontrò ad Avedèe, località dalla quale si comincia a vedere la valle, quattro uomini con una lanterna, proprio mentre udiva il rintocco dell’Ave Maria mattutina. Erano spiriti, e le dissero che se non fosse suonata la campana, l’avrebbero portata via con sé.
Ma la leggenda più misteriosa, che ha come protagonisti non più streghe, ma stregoni, è ambientata all'alpe d'Arnasca, che si stende, nella valle omonima, ai piedi dello splendido scenario delle pareti, liscie e verticali, della Singe e del pizzo Ligoncio. Ecco, di nuovo, quanto riporta la raccolta citata (un contributo della Scuola Media di Novate):
"C'era la credenza che prima del Concilio di Trento, quando si scendeva dalle Alpi, il territorio veniva occupato da vari stregoni. Quando si tornava su a primavera questi, nel lasciare quello che era il loro territorio, provocavano un terribile temporale o qualcosa peggio.
Capitò che caricarono l'Alpe d'Arnasca e alla sera lasciarono lì un ragazzotto solo. Tutto intorno c'erano solo le mucche. Lassù le baite sono fatte a secco, si può guardare fuori dalle fessure presenti tra le pietre. Il ragazzo, ad un certo punto, sentì un gran rumore intorno, guardò fuori e vide cinque o sei uomini di statura smisurata. Questi piantarono nel terreno due pali, poi ne misero uno per traverso al qual appesero un gran calderone. In quest'ultimo misero a bollire un mucca intera e quando fu cotta ne presero un pezzo ciascuno. Intanto il ragazzo stava a guardare. Quando ebbero finito di mangiare, misero insieme le ossa e si accorsero che mancava la coscia. Allora uno disse: "Vai sù a Negar Fur a prendere un pezzo di sanbuco". Il sambuco, che ha una specie di midollo dentro, poteva servire per sostituire la coscia. Allora uno si diresse verso Negar Fur per prendere un pezzo di sambuco. Con una scure lo tagliarono a forma di gamba, poi lo misero sotto le altre ossa che ricoprirono con la pelle. Ad un loro cenno saltò in piedi la mucca. Si dice che per diversi anni la mucca è andata in Arnasca con la gamba di legno."
Non si può menzionare la valle d'Arnasca senza accennare allo stupendo e misterioso monolite piantato proprio al suo centro, il Sas Carlasc', sotto cui sta appollaiato il bivacco Valli.


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LA GOLA DEL CARDINELLO



La Gola del Cardinello è un'escursione interessante sotto vari profili: storico, perché segue un percorso presente con minime varianti dall'epoca preistorica; etnografico, per l'attraversamento di nuclei rurali dalle costruzioni secolari; paesaggistico, perché nonostante l'assenza di orizzonti larghi permette l'osservazione di cascate e pozze formate dal fiume Liro. I testi storico-turistici elencano una stratificazione di undici itinerari appartenenti a varie epoche: dalla preistoria a metà del 1800; restano poche tracce o poco riconoscibili, tranne nei passaggi obbligati scavati nella roccia a strapiombo. Il panorama si allarga nel periplo del Lago di Montespluga, che conclude la salita. Percorso totalmente da evitarsi in presenza di neve; effettuabile con molta prudenza - e ramponi - in presenza di ghiaccio. Interessante la discesa in mountain-bike dopo aver risalito la statale fino alla diga di Montespluga.

La Gola del Cardinello è la profonda forra che il Torrente Liro ha scavato nella montagna tra la conca di Montespluga e quella dove si trovano Isola e il suo lago artificiale. Il nome "Cardinello" appartiene propriamente alla barriera rocciosa che costituisce il fianco sinistro idrografico della forra (quello percorso dalla mulattiera), ma viene attribuito all'intera gola (indicata come Valle del Cardinello sulla carta dell'IGM), che con questo nome è universalmente conosciuta.
Lungo questo stretto passaggio transitava una delle vie che anticamente collegavano Campodolcino al Passo dello Spluga e che venivano usate anche contemporaneamente a seconda delle loro condizioni o delle stagioni. Si poteva infatti scegliere tra le "strade di sopra" che percorrevano il dosso erboso degli Andossi oppure la "strada di sotto", cioè la via del Cardinello, che transitava lungo l'omonima gola. Quest'ultima era già percorsa in epoca romana e conobbe fasi alterne nel Medioevo. Riprese interesse commerciale nel Seicento, quando (probabilmente a partire dal 1643) venne intagliata l'ampia mulattiera nella parete rocciosa del Cardenèl. Il passaggio venne ulteriormente migliorato agli inizi del Settecento, per renderlo concorrenziale con le vie che sfruttavano altri passi alpini: il percorso fu reso più agevole e sicuro attrezzandolo con parapetti e tettoie paravalanghe. Caduta in abbandono dopo la costruzione della carrozzabile all'inizio del XIX secolo, la mulattiera è stata resa di nuovo percorribile dopo il 1980, quando è entrata a far parte del percorso della Via Spluga. In questo modo l'escursionista moderno può di nuovo rivivere le emozioni, lo stupore e forse un po' anche le paure dei viaggiatori di un tempo (il Cardinello era considerato il tratto più famigerato dell'itinerario dello Spluga, come testimoniano molte relazioni del XVIII e del XIX secolo). Tra coloro che ne hanno parlato, vi è anche Ludwig Emil Grimm, che così scrisse nel 1816: "Qui c'è tutto ciò che si può vedere di grandioso, orrendo e spaventoso.  Durante il viaggio mi venivano spesso in mente le favole dei miei fratelli (Jacob Ludwig Karl e Wilhelm Karl, gli autori delle celebri Fiabe) e, se avessi avuto un paio di settimane da dedicare a questo viaggio di montagna, forse avrei raccolto cose più interessanti per loro"

Non si può parlare della strada del Cardinello senza dedicare la dovuta attenzione alla storica Locanda del Cardinello, che si trova nell'abitato di Isola, proprio ai piedi della gola. L'origine della locanda risale al 1722 (anche se una parte dell'edifico è più antica, essendo stata edificata nel 1680), quando Antonio Raviscioni decise di aprire un punto di sosta e ristoro all'inizio della strada del Cardinello, allora assai frequentata. Il servizio offerto era completo: stalle e foraggio per gli animali, vitto e alloggio per gli uomini. La costruzione della carrozzabile e soprattutto quella della variante del Sengio (che sale a Pianazzo senza passare da Isola), aperta nel 1838 dopo la disastrosa alluvione del 1834, hanno ridotto i passaggi e messo in difficoltà la gestione della locanda. La realizzazione della strada provinciale di Isola e, più avanti, l'inaugurazione della Via Spluga hanno ridato vita al piccolo albergo che (gestito dal 1980 da Martino Raviscioni, pronipote di Antonio) è tornato a essere un punto di riferimento per turisti ed escursionisti, specialmente per quelli che, ormai a migliaia ogni anno, percorrono la Via Spluga.


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lunedì 10 agosto 2015

CUEL ZANZANU'



Il Cùel de Zanzanù, in val Droanello, è una grotta legata al ricordo del brigante Giovanni Beatrici, realmente vissuto all'inizio del XVII secolo, ma le cui vicende sono sfumate in un alone di leggenda.

Il Cùel Zanzanù, detto anche Cùel o Covolo del Martelletto, è una grotta situata nel territorio del comune di Valvestino in provincia di Brescia.Il sito posto alla base della Corna del Martelletto a circa metri 700 sul livello del mare nella parte meridionale della Valle del Droanello è raggiungibile solo a piedi salendo lungo un tracciato di circa due chilometri che parte dal greto del torrente Droanello.

Il cùel è costituito da una serie di anfratti posti su due livelli lungo una bastionata rocciosa, detta Corna del Martelletto, lunga circa un centinaio di metri. La volta è alta 15 metri e forma un arco di 50 metri, mentre nella base sono stati creati nei secoli passati dei pianori e alcuni muri a secco per evidente protezione del bestiame o delle persone.

Il cùel data la sua posizione strategica che consentiva un agevole controllo sulla sottostante strada del Droanello e vie di fuga a nord e a est, fu un luogo di rifugio di banditi. Oltre al citato Giovanni Beatrice, altri uomini della sua banda, detta degli Zannoni, vi trovarono momentaneo riparo o la morte.

Il nome del sito compare per la prima volta nei documenti nell'inverno del 1606, precisamente il giorno 10 novembre, quando Eliseo Baruffaldi di Turano e Giovan Pietro Sette detto Pelizzaro e il nipote Giacomino Sette di Maderno, tre banditi ricercati dalla magistratura veneta di Salò, vennero qui sorpresi in un agguato notturno teso dai cacciatori di taglie Orazio Balino, Giovan Battista Duse e Agostino de Andreis detto Giacomazzo, tre pericolosi banditi di Desenzano del Garda, Giuseppe Ton, altro sicario della Riviera di Salò, e da alcuni nemici del Beatrice di Toscolano, Gargnano e Tignale che conoscevano molto bene i luoghi ove si nascondevano, che il provveditore generale in Terraferma di Verona, Benedetto Moro, in tutta segretezza, aveva inviato sulle loro tracce fornendoli di salvacondotto, armi e denari.

Il Pellizzaro fu subito ucciso a colpi di archibugio e poi decapitato mentre Eliseo e Giacomino, quest'ultimo ferito, riuscirono invece a fuggire seppure braccati da decine di persone.
Il diciassette agosto 1617 sui monti di Tignale, con un colpo di archibugio, termina la turbolenta esistenza di uno dei più celebri e fuggevoli fuorilegge della Repubblica di Venezia, Giovanni Beatrice, noto a livello popolare come Zanzanù. Pochi personaggi del Seicento hanno catturato l’attenzione come il famoso bandito del lago che, a partire dal 1602  in risposta a un’offesa arrecata alla sua famiglia sul piano dell’onore  diede vita a una lunga serie di rapimenti, di omicidi e di avventure che scossero in profondità la società lacuale e smobilitarono le alte magistrature di Venezia, i cacciatori di taglie, i mercanti e i gentiluomini gardesani, tutti intenzionati a catturare vivo o morto il temibile fuorilegge di Gargnano, protetto dalla popolazione locale.Spesso relegata al ruolo di personaggio leggendario e inevitabilmente romantico, la figura di Zanzanù da vent’anni è al centro di approfondite ricerche, capitanate da Claudio Povolo, docente di Storia delle istituzioni politiche e Antropologia giuridica all’Università Cà Foscari di Venezia: grazie alla collaborazione di studenti, di storici e di varie istituzioni locali (tra cui l’Ateneo di Salò, recentemente vittima della crisi economica) si è riusciti, negli ultimi decenni, a restituire un’immagine realistica del Beatrice, basata sul vaglio scientifico delle fonti documentarie, senza per questo togliere, al mitico bandito, i suoi vividi tratti di umanità. Uno dei meriti principali di quest’attività consiste nella particolare modalità con cui è stata condotta e quindi resa nota al pubblico la ricerca: nel 2008 è nata infatti una net community facente capo al sito websideofhistory.it, nel quale ricercatori, studenti e archivisti hanno raccolto e condiviso tutti i documenti (più di 350) relativi a Zanzanù reperiti negli archivi di Venezia, di Brescia e di varie comunità del Garda. È stata la vita stessa del fuorilegge a permettere agli studiosi di superare i tradizionali metodi di scrittura e d’espressione tipici della letteratura accademica.



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domenica 26 luglio 2015

LA TAMBA DEL GIASS

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Il rifugio Baita Iseo, mt.1335, è un rifugio del CAI, gestito da oltre dieci anni dalla famiglia Zana, è situato sul versante nord-occidentale della Concarena, nel comune di Ono San Pietro in Vallecamonica.
Poco distante dal rifugio si è sviluppato un particolare fenomeno geologico chiamato dei Camini Gelidi. In alcune vallette che raggiunge il percorso botanico proposto si sviluppa un microclima particolarmente freddo che permette di trovare specie botaniche di ambiente nivale a 1300 mt. Il fenomeno si evidenzia in modo particolare alla Tamba del Giass, piccola grotta sotto massi erratici, dove il ghiaccio si mantiene tutto l'anno e al Buss del Vent, dove dal terreno soffia un vento gelido.
I camini gelidi sono fessure da cui filtra aria fredda in anfratti rocciosi, fenomeno tipico del territorio della Concarena: le manifestazioni più significative di esso, grazie al clima gelido, si notano lungo il sentiero che porta al Laghetto di Nuadè e a Tamba del Giass. Fra le teorie proposte dai vari studiosi sulla "flora dei camini gelidi", c'è quella che vedrebbe l'origine del vento gelido in depositi di neve sotterranei.

Non mancano le curiosità naturalistiche: la combinazione tra l’esposizione nord e l’aria fredda che filtra costantemente dalle fessure della roccia, mantiene le temperature al suolo decisamente basse e caratterizza la flora che, proprio per questo condizioni, è simile a quelle che troviamo alle quote più elevate o alle latitudini più settentrionali. Dal rifugio partono, inoltre, sentieri più impegnativi che conducono sino nel cuore del massiccio, al bivacco di Val Baione e oltre il passo Campelli, a visitare il versante scalvino.

Lo spettacolare accatastamento di alcuni massi di grossa dimensione ha creato cavita' più o meno aperte e di varie dimensioni. La piu' profonda di queste e' chiamata in loco "la tamba del giass" perche' tutto l’anno vi si conserva un buono strato di neve ghiacciata. Notiamo che la quota e' di soli 1400 m s/m. L’esposizione a nord, la relativa mancanza di insolazione e il clima gelido, che pare alimentato anche qui da camini soffianti, sembrano piu' che sufficienti per giustificare il fenomeno.
Nel clima gelido della "tamba del giass" troviamo la Veronica Aphylla , un piccolo gioiello alto appena tre-quattro centimetri con uno-due fiori azzurri che cadono a terra appena si urtano, il Salix Reticulata  con le belle foglie ovali striscianti a cuscino sulla pietra, la Primula Glaucescens  qui ancora in fiore a meta' agosto, dai bei fiori rosso-azzurri, detta anche Primula di Lombardia o Longobarda, e l’Arabis Jacqini, la Pìrola Media, la Silene Quadrilobata  e la Viola Biflora..
La Saxifraga Hostii si presenta con ornamentali rosette di foglie punteggiate di calcare e una vistosa pannocchia di fiori bianchi punteggiati da minuscoli segni bruni.


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I LAGHI GEMELLI

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I Laghi Gemelli si trovano in alta valle Brembana, chiusi nella conca delimitata dal Pizzo Farno, dal Monte Corte, dal Passo dei Laghi Gemelli, dal Passo di Mezzeno, dal Monte Spondone, dal Monte del Tonale, dal Pizzo dell'Orto e dal Pizzo del Becco. Nella stessa conca è racchiuso inoltre il Lago Becco, situato ai piedi del pizzo omonimo.

Questi, assieme ai numerosi altri laghi artificiali della zona, sono nati a seguito della costruzione di diverse dighe da parte dell'ENEL

Nonostante il nome, i Laghi Gemelli sono formati da un corpo unico, che si divide solo quando la diga che ne contiene l'acqua viene quasi interamente svuotata, come accaduto nel 2005 in occasione dei lavori per il rafforzamento della diga.

Il nome infatti è stato loro attribuito precedentemente alla costruzione della diga, avvenuta nel 1932, quando i due laghetti, di dimensioni molto più contenute, erano due specchi d'acqua che, visti dall'alto, sembravano specchiarsi.

I laghi sono raggiungibili da diverse vie d'accesso, che partono dagli adiacenti comuni di Carona, Branzi e Capovalle di Roncobello in Val Brembana e da Valcanale di Ardesio e Valgoglio in val Seriana.

L'adiacente Rifugio Laghi Gemelli serve gli escursionisti in visita.

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d'acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.

Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell'alta Valle Brembana.

La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l'infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l'infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l'amore impossibile per il suo bel pastorello.

Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.

Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all'apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all'altezza di un uomo di scienza.

Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell'incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le sue gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell'improbabile medico e si sarà fatta un'idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell'equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell'inganno.

D'altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d'amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.

Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.

Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l'orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.

Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d'acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d'amore...



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sabato 25 luglio 2015

SANT'ANNA

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Il detto popolare della zona recita "Par sant'Ana l'àcua dal laag l'ingàna", cioè: per Sant' Anna l'acqua del lago inganna.
Gli abitanti dell'area della zona dei laghi lombardi, soprattutto quelli che abitano sulle riviere, il 26 luglio - giorno di Sant' Anna - non vanno a nuotare nei Laghi perchè nel corso dei secoli sempre nella medesima data sono state molte le persone annegate.

La vivana più famosa della letteratura fantastica è proprio Viviana, la dama del lago che sporgendo un braccio dalle acque consegnava la spada Excalibur a Re Artù.

Il cattolicesimo convertì la sensualità delle vivane nella figura materna di Sant’Anna, la mamma di Maria Vergine. Sant’Anna è la protettrice delle donne in gravidanza e, come vuole il culto, ogni 26 di luglio avrebbe preso nelle acque del lago tre bambini come sacrificio per proteggere tutti gli altri. Da qui il detto “Sant’Ana, tri ne la tana”.

Tutte le figure femminili citate agiscono per proteggere, per donarsi, per dare. Non per sottrarre o togliere.

Una ragazza del lago di Varese vide un piccolo che si immergeva da solo nelle acque. Capì il pericolo che correva: le caviglie erano bloccate dalle alghe. Corse a soccorrerlo prelevando il corpo e vegliandolo sul fondo, fino all’arrivo del barcaiolo.

A volte lasciarsi cullare da una spiegazione di fantasia è molto meglio. In attesa di scoprire chi o cosa sia la ragazza del lago di Varese.

Il vecchio proverbio che ti raccontano in questo periodo gli anziani che vivono sul lago Maggiore dice che a Sant’Anna, il 26 di luglio, il lago si prenda sette vite.



Anna e Gioacchino sono i genitori della Vergine Maria. Gioacchino è un pastore e abita a Gerusalemme, anziano sacerdote è sposato con Anna. I due non avevano figli ed erano una coppia avanti con gli anni. Un giorno mentre Gioacchino è al lavoro nei campi, gli appare un angelo, per annunciargli la nascita di un figlio ed anche Anna ha la stessa visione. Chiamano la loro bambina Maria, che vuol dire «amata da Dio». Gioacchino porta di nuovo al tempio i suoi doni: insieme con la bimba dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia. Più tardi Maria è condotta al tempio per essere educata secondo la legge di Mosè. Sant'Anna è invocata come protettrice delle donne incinte, che a lei si rivolgono per ottenere da Dio tre grandi favori: un parto felice, un figlio sano e latte sufficiente per poterlo allevare. È patrona di molti mestieri legati alle sue funzioni di madre, tra cui i lavandai e le ricamatrici.

Nonostante che di s. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente.
Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata, Caserta la considera sua celeste Patrona, il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome.
La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori.
Perché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria.
È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale
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Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo.
Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche delle eresie, hanno in definitiva influito sulla devozione e nella liturgia, perché alcune notizie riportate sono ritenute autentiche e in sintonia con la tradizione, come la Presentazione di Maria al tempio e l’Assunzione al cielo, come il nome del centurione Longino che colpì Gesù con la lancia, la storia della Veronica, ecc.
Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”.
Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili.
L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni.
Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio.
Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”.
Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”.
Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele.
Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia.
L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche.
I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio.
Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù.
Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna.
L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494).
Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio.
Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti.
Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo.
Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino.




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GLI ARAZZI



Sono stati prodotti fin dai tempi più remoti, anche se la difficoltà di conservazione dei materiali che li compongono, fibre tessili naturali come lana, cotone o lino, ha fortemente condizionato la quantità e qualità dei reperti ritrovati.

I più antichi arazzi giunti a noi risalgono all'antico Egitto e alla Grecia tardo ellenica, ma erano diffusi ovunque nel mondo, dal Giappone all'America precolombiana.

Gli arazzi copti, provenienti dall'Egitto nei primi secoli dell'era cristiana, mostravano già una grande abilità tecnica unita a disegni molto complessi.

Su di un vaso scoperto a Chiusi e databile IV secolo a.C. è rappresentata Penelope e il suo telaio; la differenza con un odierno telaio usato per la produzione di arazzi, quello ad alto liccio, è il metodo di tensione dell'ordito e la posizione in cui si viene a costruire il tessuto, battuto e arrotolato verso l'alto. Nel telaio di Penelope i fili d'ordito erano tenuti tesi dai pesi da telaio, nei telai moderni la tensione è mantenuta da un subbio fermato da un ingranaggio.

Lo sviluppo dell'arazzo in Europa risale all'inizio del XIV secolo, prima in Germania e Svizzera poi in Francia e in Olanda. L'apice della produzione venne raggiunto nel Rinascimento, in particolare nelle Fiandre e in Francia, ad Arras, Parigi, Aubusson, Tournai, Bruxelles, Audenarde, Grammont, Enghien, Beauvais. La reale manifattura dei Gobelins, fondata a Parigi nel 1662 continua a produrre tutt'oggi.

Un esempio assai noto di arazzeria fiamminga è il ciclo di sei arazzi dedicato a la dama e l'unicorno (XV secolo), conservato al Museo di Cluny, a Parigi. Importanti sono anche gli arazzi fiamminghi del primo quarto del Cinquecento, conservati presso la Pinacoteca Civica di Forlì: Crocifissione con figure e Crocifissione con scene della Passione, per cui è stata sostenuta l'attribuzione alla manifattura di Pieter van Aelst.

I più grandi pittori non hanno disdegnato di fornire i cartoni: tra gli altri Raffaello, Pieter Paul Rubens, Simon Vouet, Charles Le Brun, François Boucher, Francisco Goya, William Morris, fino a Pablo Picasso, Joan Mirò. Papa Leone X commissionò a Raffaello un ciclo su gli "Atti degli apostoli", realizzato nelle Fiandre e più volte replicato: esistono due serie complete, una in Vaticano, l'altra a Mantova, e una serie incompleta, ad Urbino. I disegni preparatori degli arazzi si trovano al Victoria and Albert Museum di Londra.

Altro celebre ciclo cinquecentesco di arazzi è quello commissionato dal Granduca Cosimo de Medici a Pontormo e Bronzino, tra i massimi maestri del manierismo fiorentino. Il ciclo è dedicato alle storie del patriarca Giuseppe, ma ha come sottotesto allegorico il buon governo di Cosimo e l’inscindibilità delle sorti di Firenze da quelle della casata medicea. Per la sua realizzazione, il governo mediceo procedette ad istituire un’apposita manifattura, inizialmente affidata a maestri arazzieri d’oltralpe. Il ciclo, composto da venti arazzi, ci è pervenuto integro e dopo un recente e lungo restauro in ottimo stato di conservazione. Esso è suddiviso tra Firenze, nel Palazzo Vecchio, sua collocazione originaria, dove sono conservati dieci arazzi, e Roma, nel palazzo del Quirinale, dove nel 1882 giunsero gli altri dieci.

Dalla fine del Settecento, con il passaggio alla produzione industriale e il crescere del costo della manodopera (i tempi di lavorazione lunghissimi determinano costi proibitivi), la moda degli arazzi incominciò a declinare come manifestazione esteriore del prestigio dell'aristocrazia e risentì dei forti cambiamenti sociali del momento: durante la rivoluzione francese la folla li bruciò non solo per recuperare i filamenti d'oro tessuti negli arazzi, ma anche per distruggere i vessilli della classe abbattuta.

A seguito della crisi, che coinvolse tutta l'Europa, le arazzerie italiane chiusero i battenti: quella di Napoli nel 1798, quella di Torino nel 1813, la Fabbrica pontificia di San Michele a Ripa resistette per volontà del governo fino al 1910 continuando solo per la caparbietà di singoli, come l'arazzeria e scuola di arazzi romana fondata da Erulo Eroli sul finire del XIX secolo. L'arte dell'arazzo sopravvive oggi in piccole nicchie di produzione e per il restauro dell'antico. Tra gli ultimi laboratori che producono arazzi in Italia ci sono l'arazzeria Scassa di Asti, situata nella certosa di Valmanera e sede di un museo, di un laboratorio di produzione di arazzi moderni e uno di restauro di quelli antichi, e l'arazzeria Pennese di Penne, Pescara. A quest'ultima realtà si deve, negli anni '60, su impulso dell'artista e cartonnier Enrico Accatino, innovatore e promotore dell'arte tessile in Italia, il rilancio di questa tecnica. Ispiratori di questi laboratori sono le opere di maestri contemporanei come Afro, Capogrossi, Accatino, Casorati, Guttuso, Klee, Kandinskij, De Chirico e Cagli.



I primi esemplari di arazzi sono eseguiti in Italia per opera di specialisti fiamminghi. Presto si diffondono importanti manifatture, come quelle fiorentine, fondate da Cosimo I nel 1546, l'arazzeria Barberini di Roma, creata dal cardinale Barberini nel 1627, e anche centri di produzione minori come Mantova, Milano, Vigevano.

Durante il medio evo e il rinascimento, gli arazzi costituiscono una parte non trascurabile del patrimonio delle famiglie nobili, come è testimoniato da numerosi documenti storici. Giuseppe Giacosa, nella sua opera "La vita privata nei castelli" del 1892, scrive: "Alle pareti arazzi istoriati o vaghe stoffe sottili a ghirlande di fiori… compito della castellana e delle figliuole è la cura delle tappezzerie e degli arazzi che si tengono piegati su appositi scaffali nella stanza chiamata per l'appunto la guardaroba dei tappeti… Le fanti vi passano intere giornate a spiegare, battere, rammendare e ripiegare i preziosi paramenti, ma tale è il loro valore ed in tal pregio sono tenuti, che per lo più vi attende direttamente la padrona".

Pietro Momenti, nell'opera "L'arte Veneziana del Rinascimento", scrive: "Nel 1521 il principe di San Severino fu festeggiato in casa patrizia dai Compagni della Calza. L'atrio, le stanze, il portico del palazzo tappezzati di quadri e d'arazzi; un prezioso panno d'oro era steso nel luogo dove il principe sedeva…".

La tradizione artigiana continua e si sviluppa anche in altre regioni d'Italia, come Toscana e Veneto.
Con l'avvento della tessitura Jacquard, inizia una produzione di qualità meccanizzata anche in altri territori, come la Brianza e il Lecchese.

L'arazzo è un panno istoriato con motivi araldici, ornamentali o narrativi, eseguito con tecnica particolare su un telaio verticale (alto liccio) od orizzontale (basso liccio): sui fili (in genere di lino, canapa o stame) che costituiscono l’ordito (catena), divisi alternativamente in modo da formare due piani di lavoro, si avvolgono i fili colorati (di lana, seta, lamina d’oro o argento) che formano la trama del lavoro. Si procede dal basso verso l’alto, seguendo il modello (cartone) per zone di colore; il soggetto è eseguito ruotato lateralmente di 90° rispetto al suo assetto naturale, sicché i fili della catena, terminata l’opera, appaiono come coste orizzontali.

Il disegno preparatorio, o cartone, di un arazzo veniva realizzato da un pittore, anche di una certa fama: il risultato finale dipendeva dall'abilità dell'artigiano incaricato dell'esecuzione. Il termine italiano "arazzo" deriva dal nome della città francese di Arras, dove, nel Medioevo, venivano prodotti i migliori arazzi. Oggi viene impropriamente usato per indicare vari manufatti che si appendono ai muri realizzati con tecniche differenti come: il mezzo punto, il telaio Jacquard, il ricamo.

Appesi alle pareti di pietra dei castelli, in grandi sale difficilmente riscaldabili, univano alla funzione decorativa quella di isolamento termico durante l'inverno. Il grande successo degli arazzi nei secoli è probabilmente legato alla loro trasportabilità. Re e nobili potevano arrotolarli e portarli con loro negli spostamenti tra una residenza e l'altra, e, a differenza degli affreschi, erano salvabili in caso di incendio o saccheggio. Nelle chiese potevano essere srotolati in occasione di una particolare ricorrenza.

I soggetti raffigurati sono i più disparati: sacri, se destinati alle chiese; storico-celebrativi o piacevolmente naturalistici se destinati ai palazzi pubblici e privati.

La tessitura di un arazzo utilizza lo stesso sistema di quella di un normale tessuto: i fili d'ordito sono divisi in due serie (pari e dispari) che si possono dividere; quando le serie si aprono si crea un varco detto passo o bocca d'ordito, dove si introduce la trama. Alternando l'apertura del passo il filo di trama rimane bloccato tra i fili d'ordito (quelli che erano davanti passano dietro e viceversa creando un incrocio). A differenza della tessitura di un tessuto dove il filo di trama corre da un lato all'altro portato da una navetta e facendo una riga per volta, nell'arazzo si lavora, con delle passate su una porzione ristretta della superficie della sezione e, forniti di molte navettine coi colori necessari, si costruisce una piccola porzione di tessuto (avanzamento) seguendo con precisione la forma del disegno. Così può succedere che nell'arazzo in lavorazione ci siano parti più avanzate perché si continua la costruzione di una zona dello stesso colore (esempio un fiore, una foglia), e parti che vengono riprese in seguito, creando un profilo spezzato. Il filo di trama viene schiacciato con un pettine fino a coprire completamente l'ordito, che non è più visibile a lavoro ultimato. Molto frequentemente gli arazzi vengono tessuti di lato, per caratteristiche tecniche della resa, in modo che la verticale, l'ordito, diventa orizzontale (ad esempio un personaggio tessuto sdraiato, apparirà in piedi quando l'arazzo verrà appeso).

Elemento primo per la realizzazione di un arazzo è un modello in misura reale chiamato cartone. Viene preparato da un artista, pittore o cartonnier, con tecnica a guazzo o più raramente con colori ad olio; se cifrato riporta i contorni del disegno con le indicazioni dei colori segnate da un numero. Nella preparazione del cartone l'artista non è completamente libero di esprimersi, ma deve tenere conto di vari fattori: del contesto, del materiale, delle caratteristiche tecniche della tessitura, dell'imborso (il ritiro quando il pezzo viene tolto dal telaio). Le moderne tecniche di riproduzione fotografica hanno permesso cambiamenti radicali nella preparazione dei cartoni, con l'ingrandimento di bozzetti e con la proiezione del disegno tramite diapositiva sull'ordito.

Un'operazione basilare che precorre la tessitura è la tintura dei filati, dall'esatta corrispondenza dei colori delle lane con quelli presenti sul cartone dipende il buon esito della traduzione di un'opera pittorica, il cartone appunto, in un'opera tessuta. Dato l'alto numero di sfumature di colori necessarie, combinato con la quantità di un singolo colore, che può essere esigua, le grandi arazzerie preferiscono tingere in proprio o affidarsi a piccoli artigiani piuttosto che usare filati industriali già pronti. I coloranti utilizzati devono avere alti coefficienti di resistenza a: luce, strofinamento e acqua; il coefficiente, che è indicato da un numero, deve essere maggiore di 6. I coloranti acidi sono quelli più comunemente utilizzati. La tintura si effettua in vasche in acciaio inox o rame dette barche riscaldate tramite vapore. Le matasse vengono infilate sui bastoni di lisaggio, le cui estremità sporgono oltre i bordi delle vasche, e immerse nel bagno di tintura in cui si diluisce il colorante; con successive aggiunte si monta il colore fino ad arrivare al tono preciso. In ultimo risciacquate e appese, dopo una strizzatura, vengono fatte asciugare all'aria.

I telai per produrre arazzi sono di due tipi: quelli verticali detti ad alto liccio e quelli orizzontali detti a basso liccio.

Il telaio ad alto liccio è verticale costituito da due piantane che reggono due curli (subbi), uno superiore che porta l'ordito o catena vergine e uno inferiore dove si arrotola la parte già tessuta, posti circa a 150 cm. I due curli mettono in tensione l'ordito allontanandosi grazie ad un meccanismo dotato di una vite senza fine. Le due serie dei fili d'ordito sono tenute separate da un sottile legno chiamato bastone d'incrocio, con la serie pari davanti e quella dispari dietro. La serie pari è libera mentre ogni filo della serie dispari, passando attraverso il fascio anteriore nello spazio d'intervallo tra uno e l'altro dei fili pari, è collegato con un liccio di corda al paletto dei licci, posto davanti al telaio su due supporti retti dalle piantane. Tirando in fuori il paletto, i fili posteriori (dispari) avanzano incrociandosi con quelli davanti (pari) e aprendo il passo per inserire i fili di trama. Il cartone viene ricalcato e i contorni riportati sull'ordito.

La struttura del telaio a basso liccio è simile a quella del telaio ad alto liccio con la differenza di essere posto orizzontalmente, leggermente inclinato, più basso davanti dove lavora il tessitore. I fili d'ordito sono tutti infilati in licci, con settori di 40 cm, e opportunamente collegati a pedali con corde. Schiacciando i pedali si abbassano i fili di una serie (pari o dispari) aprendo così il passo. I pedali sono solamente due, il tessitore aggancia ai pedali i due licci della sezione (40 cm) su cui deve lavorare e cambia gli attacchi quando cambia sezione. Il cartone è appoggiato al banco da disegno posto sotto l'ordito nella parte anteriore dove il tessitore lavora. Una particolarità della tessitura con questo telaio è che il tessitore lavora sul rovescio, per controllare il risultato della sua opera deve usare uno specchio; il cartone verrà quindi riprodotto in modo simmetrico, ribaltato a specchio. Il procedere del lavoro su questo telaio è più veloce di quello su un telaio a alto liccio, poiché il tessitore tiene aperti i fili d'ordito con i pedali e ha entrambe le mani libere per inserire la trama e batterla, mentre con l'altro telaio l'apertura viene mantenuta con la mano sinistra e si può usare solo la destra per inserimento e battitura.

Oltre il telaio il tessitore di arazzi utilizza:
il cartone, che riporta il disegno da eseguire.
le navettine, piccole spolette (un corto bastoncino) con il filo di trama; sono molte, una per ogni colore locale.
i brocci, sono le navette del telaio ad alto liccio, consistono in una spoletta in legno, appuntita ad una estremità e con un ingrossamento a pallina dall'altra per trattenere il filo, molto simili alle fuselle di un tombolo.
il pettinino, per avvicinare ogni passata solo nel telaio a basso liccio.
il pettine, consiste in un blocchetto di legno duro o avorio, oggi plastica, di una dimensione che può stare comodamente in mano, appiattito ad una o ad entrambe le estremità dove sono tagliati i denti che servono per compattare le trame.
lo specchio, normale specchio con manico per controllare il lavoro.
le forbici, per tagliare il filo delle navettine o dei brocci quando è terminata la zona da tessere.
un arcolaio o bobinatrice, per preparare prima le bobine (grossi rocchetti) e poi le spolettine.
Per la preparazione dell'ordito si usavano il lino e la lana, oggi si utilizza il cotone ritorto, più elastico del lino e meno instabile della lana. Per la trama si usa principalmente la lana e la seta, molto usata in passato,quest'ultima viene utilizzata meno frequentemente, in alcuni casi alternata alla lana per ottenere particolari effetti di contrasto. Il filato di lana, deve essere pettinato ed avere titolazione finissima, viene accoppiato, raddoppiato o triplicato e più, per raggiungere la dimensione occorrente alla trama; questo accoppiamento permette, unendo fili di colori diversi, di ottenere ogni minima sfumatura di colore (se i colori sono simili) o effetti picchè (se i colori sono contrastanti).

Il contesto è dato dalla dimensione del filo d'ordito, che deve essere comunque in rapporto con la dimensione del filo di trama. La scelta del contesto è una decisione che va ponderata tenendo in considerazione diversi fattori. Un contesto grosso ha il pregio, avendo una grana grossa, di essere luminoso, di essere adatto a grandi dimensioni, di essere relativamente veloce nell'esecuzione, ma altresì non permette di rendere con finezza i dettagli; di contro un contesto fine permette la riproduzione minuziosa di ogni particolare del cartone, risultando però più fragile e di esecuzione lunghissima (quindi di costi proporzionali). I tempi di lavorazione di un arazzo, che se di buone dimensioni richiede il lavoro di una squadra di tessitori, sono comunque biblici. La catena d'ordito è suddivisa in sezioni che misurano 40 cm, la sezione è divisa in portate composte invariabilmente da 12 fili. La misura del contesto viene espressa in portate, la gamma è estesa e va da 8 portate a 33. Un contesto grosso avrà, per esempio, 10 portate ossia 120 fili d'ordito per sezione, cioè 3 fili al centimetro. Un contesto fine avrà 30 portate, ossia 360 fili per sezione, cioè 9 fili ogni centimetro d'ordito.



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LEGGENDE DI ESINO LARIO



La paura dell’ignoto, le credenze religiose, la natura difficile dei luoghi hanno prodotto, nei tempi passati, storie e leggende da raccontare nelle lunghe sere d’inverno: lo scopo educativo e morale risulta evidente e le presenze demoniache sollecitano il buon comportamento.

La cavra sbàgiola è il personaggio di una leggenda, tipica dell'immaginario popolare della zona orientale del Lario.
Come racconta Pietro Pensa, si tratta di un'animale notturno, mezzo uccello e mezza capra, che usciva di notte dalle caverne emettendo un cupo belato misto a voce umana e cercava di entrare nelle camere dove dormiva la gente non in regola con la coscienza. Tanta ne era la paura che le finestre delle case erano costruite molto piccole e per di più sbarrate da una croce di ferro immurata.
Lo stesso personaggio compare nelle storie della zona occidentale del Lario con il nome di cavra del Cincinrubel. Viveva pur questa nelle caverne e negli anfratti. Appariva di notte e i ragazzi ripetevano con spavento la cantilena:
Mi sunt la cavra d'ol Cincìrunbel, senza corna e senza pell cunt la corda tirada al coo: chi ven dent i mangiaròo! (Trad. Sono la capra del Cincìrunbel, senza corna e senza pelle, con la corda tirata al capo: chi vien dentro lo mangerò!)

Pésegh adòss... è la storia di un pastorello salvato dal diavolo con panni filati in tempo benedetto. La storia racconta che un pastorello portava ogni mattina le capre nella valle grande, non era un ragazzo cattivo ma aveva il difetto di non ascoltare i consigli dei genitori: il padre gli raccomandava di non abbandonare mai il branco perché era facile smarrire qualche animale nelle forre del monte; la madre, poveretta, nel dargli un indumento benedetto per guardarlo dal malanno, gli raccomandava di non disubbidire e a pregare la Madonna perché lo proteggesse. Il ragazzo. però, appena poteva, lasciava in custodia al cane il piccolo gregge e correva a giocare con i compagni nell’alpe più vicina. Un giorno di settembre, ritornando verso sera a radunar le capre, ebbe la sorpresa di trovar mancante la più bella. Atterrito al pensiero della punizione, il poveretto riportò il branco nella stalla del paese e tornò di corsa sulla montagna; era già buio e lui vagava per i burroni lanciando il suo richiamo. Finalmente dal fondo di un dirupo gli giunse il belato della capretta. Aggrappandosi alle rocce, la raggiunse e se la mise sulle spalle. Mentre risaliva con gran fatica, una voce profonda e cavernosa giunse dall’altro versante della valle "Pésegh adòss!" (pesagli addosso). Al che la capretta belò lamentosa: "No poss, no poss! Al gh’a la vestè filadè nel Tempur adòss!" (non posso, non posso! ha una mantella benedetta addosso!). Il pastorello comprese di avere sulle spalle il diavolo incarnato e che lo salvavano i panni filati dalla madre in tempo benedetto. Gettò il capretto, e a gran corsa, piangendo di paura, scese al paese. Prima di giungervi, incontrò i genitori che, in grande apprensione, erano usciti a cercarlo; con loro era la capretta smarrita, trovata mentre da sola tornava all’ovile. Raccontavano che da allora il pastorello seguì i consigli del padre e della madre; e il suo caso era additato a tutti come esempio ammonitore.

La caccia selvatica era fantasia, forse di remotissima origine pagana, accolta dai sacerdoti i quali affermavano trattarsi dei cacciatori che nei giorni di domenica avevano trasgredito agli obblighi religiosi e dopo morti erano stati condannati a vagare senza pace nei luoghi del loro peccato, una cavalcata orrenda di spiriti dannati che si levava improvvisa nelle notti senza luna, percorrendo in fulminea corsa i sentieri, scavalcando d’un balzo torrenti e valloni sino a perdersi lontano, nelle forre dei monti più alti; uno scalpitar di destrieri, guaire di cani, urla di mostri, grida d’angoscia rompevano allora il silenzio delle valli.

A questa leggenda, che si raccontava sottovoce per non evocarla, erano legati lugubri racconti minori. Si favoleggiava che la caccia selvatica si avvicinasse sovente alle cascine montane dove qualcuno teneva la mandria: chi vi stava si chiudeva allora al riparo e dicono che udisse voci umane con lugubri accenti sfidare Iddio, profetando sventure agli uomini, mentre terribili segni rimanevano di quella sinistra presenza.

Una volta, udendo passare la famosa “caccia”, una donna per la curiosità, nonostante che gli altri la dissuadessero, si era affacciata alla porta gridando: “Casciadòr da la bonè cascè demm un po’ da la vosè fugascè!” (Cacciatori della buona caccia datemi un po’ della vostra focaccia!). Apparvero allora, appese alla porta, membra umane sanguinanti; fu necessario chiamare il sacerdote che, benedicendole, le fece scomparire. La donna, tuttavia, morì di spavento e tutti i capelli le erano diventati bianchi.

Tanti anni fa, in una baita situata dalle parti del Pizzo Tre Signori, viveva un pastore fatto un po’ a modo suo. Secondo lui gli unici essere viventi con i quali ci si poteva intendere erano le capre; tutti gli altri, bipedi o quadrupedi che fossero, li considerava uno sbaglio del Creatore.
Quale fosse il suo vero nome non si sa. Lo chiamavano Ransciga, vocabolo ormai scomparso dal dialetto che serviva ai vecchi per indicare un falcetto a serramanico, molto in uso nei tempi andati, che tutti portavano in tasca per gli usi più svariati.
Un giorno d’estate, mentre Ransciga se ne stava sdraiato sul pascolo a pancia in su cercando di seguire con lo sguardo le sue capre sparpagliate per i canaloni della montagna in cerca di qualche ciuffo d’erba, avvenne una cosa fuori dall’ordinario: tutto a un tratto vide svolazzare, proprio lassù sopra la cima del Pizzo, un uccello mai visto prima.
Lui gli uccelli della montagna li conosceva bene, e gli bastava sentirli cantare per distinguerli, senza bisogno di vederli; ma un essere così grosso, nero, con un collo lungo cinque spanne e che stava per aria girando intorno senza il minimo battito d’ali proprio non gli era mai capitato sotto gli occhi.
Ransciga si alzò a sedere e rimase lì per un bel po’ a rimirare quello strano animale volante arrivato da chissà dove, cercando di indovinare con quale altra razza di uccello potesse essere imparentato.
Ad un tratto l’uccellaccio sembrò fermarsi in mezzo al cielo poi, come se all’improvviso gli fosse mancato il sostegno dell’aria, venne giù come un sasso puntando dritto verso il pastore il quale, spiccando un balzo, fece appena in tempo a ripararsi dietro un grosso sasso prima che la brutta bestia gli piombasse addosso. Mancata la mira l’uccello riprese quota e il Ransciga, che se l’era vista brutta, corse verso la baita, per uscirne subito imbracciando il suo fucilone caricato a pallettoni.
Il grande uccello era ancora lassù che girava. Ransciga si sedette bene in vista con il suo archibugio stretto tra le ginocchia e gli occhi fissi su quel diavolo volante, sicuro che avrebbe ripetuto lo scherzetto di poco prima. Infatti non passò molto tempo. L’uccello nero si fermò in aria per poi precipitarsi giù a valanga in direzione dell’uomo seduto sul prato.
Fu un attimo. Il pastore balzò in piedi, puntò il fucile quasi senza mirare, come faceva quando fulminava le pernici al volo, lasciò partire il colpo e… a questo punto incominciarono a succedere le «cose» che sarebbero state tramandate ai posteri. Lo strano uccello, colpito in pieno dalla scarica, anziché precipitare morto come avrebbe fatto un qualsiasi volatile, si trasformò in una palla di fuoco, lanciò una specie di urlo lacerante, andando a schiantarsi giù in fondo, ai piedi del Pizzo.
Il povero Ransciga, alla vista di un simile spettacolo, per poco non rimase secco dallo spavento ma, siccome era un uomo coraggioso, si riprese in fretta, ricaricò il fucile per scendere a balzelloni verso il punto in cui la sua strana preda era andata a cadere. Ben presto però dovette fermarsi perché, dal fondo della valle, saliva una gran puzza di carne bruciata che gli toglieva il respiro. Giacché il nostro uomo oltre che coraggioso era anche prudente, prima di riprendere la discesa volle rendersi conto di cosa stava succedendo e, affacciatosi ad uno spuntone di roccia, guardò giù.
Il Ransciga rimase di stucco. Un cento passi sotto, dove l’uccello infuocato era andato a sbattere, vide una enorme buca, scavata ove prima c’era una spianata erbosa. Tutto intorno erano disseminati sassi di ogni dimensione mentre dal fondo saliva una nebbiolina giallastra e quella grande puzza che lo aveva costrutte a fermarsi. Tanto per assicurarsi ch non stava sognando lasciò andare un’altra schioppettata, indirizzando il colpo verso il centro della buca da dove gli pareva uscisse il fumo giallo e puzzolente. Si rese subito conto di aver combinata un altro guaio e per la terza volta, in quella giornata balorda, il poveraccio sudò freddo.
Dal punto in cui i pallettoni erano andati a conficcarsi uscì una voce cavernosa che sentenziò: «Io torno all’inferno ma tu resterai per sempre dove ti trovi adesso e non potrai più parlare nemmeno con le tue capre». Il Ransciga, che a quanto pare aveva impallinato Belzebù, si guardò attorno smarrito: ma non fece in tempo a dire amen che il suo corpo, alto e robusto, s’irrigidì trasformandosi in un sasso grigio e informe, simile a quelli che il gran botto provocato dalla caduta dell’uccello di fuoco aveva scaraventato tutto intorno.
È passato tanto tempo. Il Ransciga non lo ricorda più nessuno e il grande buco, col passare degli anni, si è riempito d’acqua limpida trasformandosi in quel pittoresco e bellissimo laghetto alpino che tutti ancora oggi chiamano Lago di Sasso.



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