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venerdì 10 luglio 2015

LA DOLOMIA



Roccia semplice, sedimentaria costituita essenzialmente di dolomite. A questo minerale si associa quasi sempre la calcite in quantità più o meno considerevole. Le rocce che ne contengono una percentuale notevole sono però classificate come calcari dolomitici. Le dolomie hanno molti caratteri esteriori (colore, struttura) in comune con i calcari; i due tipi di rocce si distinguono però facilmente per le proprietà fisiche e chimiche dei minerali che sono i loro rispettivi costituenti principali. Siccome la dolomite, a differenza della calcite è difficilmente attaccata dagli acidi deboli o diluiti, i calcari dolomitici, per effetto delle acque carbonicate circolanti, si dissolvono in sabbia dolomitica. Analoga è la causa della struttura vacuolare e cavernosa, tanto comune nelle dolomie, e dei modelli di conchiglie fossili, frequenti in queste rocce. Le dolomie, come i calcari, si distinguono in varietà saccaroidi, spesso porose e friabili, compatte ed oolitiche. La stratificazione per lo più è poco distinta, frequente invece una divisione in banchi grossolani. Varietà saccaroidi molto note per i bei minerali accessorî in esse racchiusi sono quella di Campolongo nel Canton Ticino e della Valle di Binn nel Vallese.
Le dolomie resistono bene agli agenti atmosferici, ma sono più facili alle fratture per la loro poca plasticità. Perciò esse vanno soggette a una degradazione particolare che dà origine a un paesaggio caratteristico, molto accidentato, tutto guglie e spuntoni, detto paesaggio dolomitico.

Questa roccia prende il suo nome (come il minerale dolomite) dal naturalista e geologo francese Déodat de Dolomieu (1750-1801), il quale nel 1791 osservò tale roccia nei gruppi montuosi delle Dolomiti nel nord Italia.

Quando in un calcare la calcite è parzialmente sostituita da dolomite, esso viene chiamato calcare magnesiaco, calcare dolomitico o dolomia calcarea in funzione della specie mineralogica dominante in percentuale.

Il metodo tradizionalmente usato per distinguere, in maniera speditiva sul terreno, nelle rocce carbonatiche fra calcare e dolomia è la prova dell'acido cloridrico (HCl): una goccia di acido (diluito in acqua al 5% di concentrazione) viene versata su un campione di roccia: il calcare reagisce immediatamente con una schiuma effervescente, mentre la dolomia rimane apparentemente inerte.

La dolomitizzazione si verifica in condizioni ambientali particolari quali possono essere quelle ipersaline come ad esempio in ambienti tidali e lacustri, o in zone del sottosuolo dove si incontrano e mescolano acqua meteorica e acqua marina cioè in condizioni schizoaline. Inoltre, anche l'attività biologica può essere un fattore importante nel processo di dolomitizzazione, visto che la materia organica, in particolare alghe e batteri, sembra ne favorisca lo sviluppo. I criteri per la classificazione delle dolomie possono essere sia composizionali, riguardanti il rapporto calcio/magnesio, tessiturali e genetici.

Le Dolomie di precipitazione diretta, o primarie, sono rarissime e la precipitazione diretta di dolomite nell'acqua marina è fondamentalmente un problema di nucleazione molecolare che è un processo estremamente lento a basse temperature e, inoltre, la struttura della dolomite è altamente ordinata. Tra gli Autori è opinione corrente che tale processo sia stato estremamente raro anche nel passato geologico, tranne però, durante il Precambriano o il Paleozoico in cui la precipitazione diretta sarebbe stata favorita dall'alta pressione di anidride carbonica nell'atmosfera, dovuta alle ancora frequentissime eruzioni vulcaniche che, inoltre, producevano un elevato rapporto Magnesio/Calcio nelle acque.

Le Dolomie di sostituzione, invece, rappresentano la maggior parte delle dolomie antiche e recenti. Si formano a causa della conversione di un precursore minerale costituito da carbonato di calcio (solitamente calcite o aragonite), che sia sedimento sciolto o roccia, in dolomite: questo processo consiste essenzialmente in una parziale sostituzione degli atomi di calcio con quelli di magnesio. A basse temperature, lo smistamento degli ioni in una struttura cristallina è molto lento, anche tenendo in considerazione i tempi geologici: di conseguenza, si ipotizza che la dolomitizzazione non sia una reazione che avvenga allo stato solido ma che si attui mediante dissoluzione del carbonato di calcio e contemporanea precipitazione di dolomite a partire da una soluzione acquosa che attraversi il sedimento. In generale, perché si possa verificare sono necessarie due condizioni fondamentali: a) un rapporto Mg/Ca sufficientemente elevato e b) un meccanismo in grado di far fluire attraverso la roccia un volume sufficiente di soluzione "dolomitizzante", in modo che la reazione possa completarsi e quindi formarsi una vera roccia dolomitica. Naturalmente si necessita anche di un tempo sufficientemente lungo affinché la reazione possa espletarsi.

Sulla base del chimismo del fluido dolomitizzante si possono distinguere modelli ipersalini e modelli salmastri.
Le soluzioni ipersaline necessarie ad aumentare il rapporto Mg/Ca vengono prodotte tramite evaporazione e conseguente movimento ascensionale dei fluidi attraverso il sedimento che può esplicarsi con meccanismi differenti:
concentrazione capillare e pompaggio evaporitico
riflusso
Nel primo meccanismo si presuppone l'esistenza di una piana di marea retrostante una laguna; in condizioni climatiche aride, nei momenti di intensa evaporazione e ridotto rifornimento idrico, nelle aree sopratidali si innesca un movimento di risalita delle acque con sviluppo di evapotraspirazione. La perdita d'acqua è rimpiazzata dalla continua introduzione nel sistema di nuova soluzione di derivazione marina (nei settori più esterni della piana tidale) o continentale: l'evaporazione lascia, come residuo, una salamoia interstiziale che può raggiungere valori di salinità 5 volte superiori all'acqua marina normale e rapporti Mg/Ca pari anche a 40:1. Con queste condizioni esistono le premesse allo sviluppo della dolomitizzazione dei sedimenti attraverso i quali passano (e ristagnano) tali salamoie.

In questo sviluppo ricopre una grande importanza la antecedente precipitazione di gesso, poiché non solo permette di fissare il calcio (essendo un solfato di calcio), elevando ancor di più il rapporto Mg/Ca, ma soprattutto rimuove lo ione solfato che inibisce lo sviluppo della dolomitizzazione.
I sedimenti dolomitizzati di queste aree tidali sono dolomie microcristalline caratterizzate da laminazioni algali, fratture e poligoni da essiccamento e le tipiche fenestrae.

Nel meccanismo del riflusso, si presuppone l'esistenza di una piattaforma carbonatica bordata da barriere (scogliere organogene, barre litorali...) che racchiudono lagune interne, più o meno ristrette. Se il clima è arido, nei settori più interni di tali lagune si vengono a concentrare, per successive evaporazioni, dense salamoie ipersaline che poi, per gravità, tendono a rifluire verso mare; la presenza delle barriere limiterebbe il riflusso libero determinando il ristagno delle salamoie nelle parti più depresse delle lagune. Le salamoie così formatesi, nel tentativo di rifluire verso mare, percolerebbero attraverso i sedimenti dolomitizzandoli.

Nel modello salmastro si spiega come acque salmastre derivate dalla miscela di acque ipersaline e dolci siano in grado di dolomitizzare efficacemente le rocce attraversate. La diluizione di salamoie da parte di acque dolci, provoca una drastica diminuzione della salinità, mantenendo quasi costante il rapporto Mg/Ca, e le soluzioni risultanti rientrano nel campo di stabilità della dolomite.

In condizioni ipersaline bisogna raggiungere valori molto elevati nel rapporto Mg/Ca affinché si verifichi la precipitazione di dolomite invece di aragonite e/o calcite, mentre in condizioni salmastre, al contrario, la dolomite cristallizza con rapporti molto minori: basti pensare che sono sufficienti percentuali di acqua marina comprese tra il 5% e il 50% affinché si abbia sovrasaturazione della dolomite e quindi si verifichi la precipitazione di tale minerale.

Gli ambienti in cui possono aversi queste situazioni sono gli ambienti schizoalini cioè, ad esempio, gli ambienti costieri periodicamente interessati da acque "dolci" meteoriche, in seguito alle quali è possibile l'instaurarsi di acquiferi di acque dolci sotterranee che quindi diventano potenziali aree di dolomitizzazione.

Questo descritto, in letteratura geologica, è noto come "modello Dorag" e spiega l'origine di quelle dolomie che non sono associate a rocce evaporitiche, oppure in quelle in cui non esistono evidenze di alti strutturali o piattaforme carbonatiche.

La dolomia è usata come pietra ornamentale e come materia prima per la fabbricazione di cemento. È inoltre una fonte di ossido di magnesio.
È un'importante roccia serbatoio di petrolio.
A volte è usata al posto della calcite nel processo di produzione di ferro e di acciaio per la rimozione delle impurità durante la riduzione del minerale ferroso.


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IL LAUROSARIO



La leggenda del mostro del Lario nacque nell’immediato Dopoguerra, quando nel 1946 il «Corriere Comasco» scrisse di un misterioso ed enorme animale apparso nelle acque del Pian di Spagna.

Il 18 novembre 1946, due cacciatori dalle parti di Colico, sulla riva settentrionale del Lago di Como, sostengono di aver incontrato una creatura lunga tra i dieci e i dodici metri con squame rossastre e molto rigide a pochi passi dalla riva. I due cacciatori hanno immediatamente imbracciato i fucili e hanno sparato in direzione della "cosa", che si è rapidamente diretta verso il centro del lago, sparendo con un sibilo acuto. Questo strano animale venne chiamato Lariosauro, lo stesso nome usato un secolo prima per definire un rettile preistorico (Lariosaurus balsami) i cui resti fossili vennero trovati nei pressi del lago nel 1830. I fossili di questa e di altre specie ritrovati successivamente sono attualmente esposti nei musei di Lecco e di Monaco di Baviera.

Altri avvistamenti simili non lontani da questa zona diedero vita al leggendario Lariosauro, che fece la sua comparsa regolarmente negli anni a seguire: nel 1954 una coppia, padre e figlio, vide qualcosa con il muso arrotondato e i piedi palmati che nuotava in acqua. Era lungo appena 80 centimetri (forse una rara lontra). Tre anni dopo una batisfera, che si immerse alla profondità di 90 metri al largo della costa di Dervio, si imbatté in un animale con la testa simile a quella di un coccodrillo e lungo circa due metri.

L'ultimo avvistamento avvenne nel 2003: un'anguilla gigante, di circa 10-12 metri di lunghezza, comparve nei pressi di Lecco. Lo scettico ricercatore Giorgio Castiglioni, che studiò questi casi, pensa che in realtà si fosse trattato di un gruppo di pesci che nuotava compatto.

La tradizione popolare, un pizzico di verità e qualche goccia di fantasia sono gli ingredienti perfetti per una leggenda.



In media gli esemplari adulti di Lariosaurus avevano una lunghezza compresa tra 60 centimetri e 1,30 metri; ciò li rende tra i più piccoli notosauri conosciuti. Il collo di Lariosaurus era relativamente corto se rapportato a quello di altri notosauri, e anche le zampe erano piuttosto piccole. Una caratteristica di Lariosaurus era data dalle zampe anteriori, in cui l'omero era arcuato e molto massiccio, mentre l'ulna era allargata e piatta; tra le ossa dell'avambraccio, inoltre, è generalmente presente un largo spazio. Si suppone che le zampe anteriori si fossero trasformate in strutture simili a pinne, mentre quelle posteriori avessero conservato l'originale struttura con cinque dita (forse palmate).

Il cranio era appiattito come quello di tutti i notosauri, anche se non in misura estrema come in Nothosaurus; lunghi denti anteriori si intersecavano fra loro quando le fauci erano chiuse, mentre i denti della parte posteriore di mascella e mandibola erano più piccoli. Le costole presentano alcune parti ispessite, così come alcune vertebre e la clavicola. Le costole ventrali (gastralia) sono strettamente compresse fra loro e formavano una sorta di armatura protettiva.

Il primo esemplare noto di Lariosaurus venne alla luce nel 1830 a Perledo, una località presso il lago di Como, conosciuto anche con il nome di Lario. I reperti vennero studiati e descritti da Giuseppe Balsamo Crivelli sulla rivista Il Politecnico di Milano nel 1839. Balsamo Crivelli, in attesa che fosse confermato che si trattava di un animale mai descritto in precedenza, preferì non attribuirgli un nome. Solo nel 1847, appurato che si trattava di una nuova specie (e di un nuovo genere), Giulio Curioni gli attribuì il nome di Lariosaurus balsami.

Un altro fossile ritrovato appartenente alla stessa specie venne impropriamente chiamato Macromirosaurus plinii. L'esemplare meglio conservato è esposto nel museo botanico di Monaco di Baviera. Altri esemplari sono conservati al servizio geologico di Roma e due sono esposti al Museo di Storia Naturale di Lecco. L'individuo più lungo misura 130 cm.

Lariosaurus era un predatore acquatico che si muoveva nuotando grazie alle "pinne" anteriori potenti, e aiutandosi con la lunga coda. Il cranio, con i lunghi denti anteriori, è conformato per intrappolare piccoli pesci e altre prede scivolose come i cefalopodi, ma alcuni resti fossili di Lariosaurus contengono al loro interno anche piccoli esemplari di rettili placodonti del genere Cyamodus (Tschanz, 1989) e pachipleurosauri. La scoperta di probabili embrioni forse appartenenti a Lariosaurus (Renesto et al., 2003) potrebbe indicare l'ovoviviparità di questi animali, e quindi uno stile di vita completamente acquatico.



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I DINOSAURI

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I dinosauri sono un gruppo di rettili molto diversificati comparsi durante il Triassico superiore (circa 230 milioni di anni fa) che dominarono il pianeta fino alla fine del Cretaceo (circa 65 milioni di anni fa).

I dinosauri sono un gruppo di animali molto diversificato: i soli uccelli attuali contano oltre 9 000 specie. Basandosi sui fossili, i paleontologi hanno identificato oltre 500 generi distinti e più di 1 000 specie di dinosauri non aviani. I dinosauri sono rappresentati su ogni continente sia da specie fossili che da specie attuali (gli uccelli). Alcuni dinosauri erano erbivori, altri carnivori. Molti di essi erano bipedi, mentre altri erano quadrupedi o capaci di muoversi sia a due che a quattro zampe. Molte specie possiedono elaborate strutture “da parata”, come corna e creste, e alcuni gruppi estinti svilupparono anche modificazioni scheletriche come armature d’osso e spine.

I dinosauri aviani sono i vertebrati volanti dominanti fin dall’estinzione degli pterosauri, e le prove suggeriscono che tutti i dinosauri costruissero nidi e depositassero uova, così come fanno gli uccelli odierni. I dinosauri variavano molto in taglia e peso: i più piccoli teropodi adulti erano lunghi meno di un metro, mentre i più grandi dinosauri sauropodi potevano raggiungere lunghezze di quasi cinquanta metri ed erano alti decine di metri.

Nonostante la parola dinosauro significhi “terribile lucertola”, il nome è piuttosto fuorviante: i dinosauri infatti non erano lucertole, ma un gruppo separato di rettili con una particolare postura eretta che non si riscontra nelle vere lucertole. Fino alla prima metà del Novecento, gran parte della comunità scientifica riteneva che i dinosauri fossero lenti, poco intelligenti e a sangue freddo. Numerose ricerche a partire dagli anni settanta, però, hanno indicato che i dinosauri erano animali attivi con un elevato metabolismo e numerosi adattamenti per l’interazione sociale. Molti gruppi (in particolare tra i carnivori) erano tra i più intelligenti organismi del loro periodo.

Fin da quando i primi fossili di dinosauri sono stati riconosciuti come tali all'inizio del XIX secolo, scheletri fossili montati (o repliche) di questi animali sono divenuti grandi attrazioni nei musei di storia naturale in tutto il mondo, e i dinosauri sono divenuti parte della cultura mondiale.

Per distinguere i dinosauri dagli altri rettili esistono alcuni elementi che permettono di stabilire la differenziazione:
La prima più semplice è quella della datazione del fossile, infatti i dinosauri non aviani sono vissuti in un preciso periodo di tempo (dal Triassico inoltrato alla fine del Cretaceo) e qualsiasi rettile, anche di considerevoli dimensioni (come i pelicosauri, ad esempio Dimetrodon), vissuto prima o dopo questo periodo non è un dinosauro.
Dal punto di vista dell'habitat, i dinosauri erano esclusivamente terrestri e qualsiasi rettile marino (come i plesiosauri, i mosasauri o gli ittiosauri) o volante (pterosauri), nonostante a volte siano comunemente definiti tali, non sono in realtà dinosauri. Va comunque fatta una precisazione riguardo alla possibilità di volare, poiché per i dinosauri-uccelli come l'Archaeopteryx e diversi celurosauri che presentavano un rivestimento piumato, non si esclude la possibilità che compissero delle planate o addirittura brevi voli: dai celurosauri si sono inoltre originati anche gli uccelli, tanto che la stessa classificazione dell'Archaeopteryx (definibile come dinosauro evoluto o, equivalentemente, come uccello primitivo) è controversa. Ad oggi però, ritenendo la classe Aves parte integrante di Dinosauria, possiamo considerare dinosauri teropodi (comprese forme volanti o nuotatrici), tutti gli uccelli. Vi furono inoltre specie come il bizzarro e controverso Yi qi, un piccolo dinosauro piumato con una membrana che forse gli permetteva di volare o di planare.
Più concretamente, i dinosauri presentavano le forme e le dimensioni più svariate, che in genere di primo acchito permettono di distinguerli da molti altri rettili. Saltano subito all'occhio le dimensioni eccezionali di certi colossi, mai raggiunte da qualsiasi altro animale terrestre, o le forme curiose di specie come il triceratopo o il parasaurolofo. Tuttavia esistevano anche dinosauri molto più piccoli.
Vi sono caratteristiche anatomiche più specifiche che permettono di separare più nitidamente i dinosauri da qualsiasi altro rettile. La principale è quella del posizionamento degli arti, che nei dinosauri sono collocati direttamente sotto il corpo (in maniera simile agli uccelli odierni, o anche grossomodo ai mammiferi); ne consegue che quando l'animale è fermo gli arti sono approssimativamente perpendicolari al corpo, in maniera analoga, per esempio, a quanto avviene in una mucca, mentre il ventre e quasi tutta la coda non toccano il terreno. In qualsiasi altro rettile questo non avviene: le articolazioni sporgono all'esterno del corpo (presentando delle sorta di "gomiti") e quando è fermo l'animale tocca il suolo con il ventre e la coda. Fanno eccezione alcuni arcosauri come alcuni Curotersi terricoli e alcuni pterosauri, che però articolavano la caviglia e agganciavano la zampa al bacino in maniera nettamente differente. Va anche notato come tutti questi gruppi di rettili svilupparono prima la verticalità delle zampe posteriori, e poi, in modo differente spesso da clade a clade, delle zampe anteriori, sviluppando spesso forme di bipedismo obbligato.

Le caratteristiche morfologiche dei dinosauri sono estremamente varie. Il superordine Dinosauria comprende infatti animali adattati a quasi tutte le nicchie ecologiche terrestri. Fra i dinosauri vi furono sia erbivori che carnivori, sia bipedi, che quadrupedi; vi furono specie adattate ad ambienti caldo-umidi, di foresta pluviale, quanto specie di ambiente arido o di ambiente temperato. Una ricostruzione precisa del loro aspetto e del loro comportamento è però un'impresa molto difficile e largamente speculativa, che si basa soprattutto su misure morfometriche delle ossa fossili, sulle associazioni faunistiche desunte dalla tanatocenosi, sull'interpretazione sedimentologica dei depositi in cui sono stati rinvenuti i fossili e sui rarissimi ritrovamenti di parti molli fossilizzate.

Occorre osservare, da un punto di vista generale, che solo una minima percentuale degli organismi viventi appartenenti ad una certa popolazione si fossilizzano: la maggior parte va distrutta per fattori di tipo ambientale (fisico, chimico o biologico). Inoltre, degli individui fossilizzati, la maggior parte sono inaccessibili, sepolti in profondità nei sedimenti, oppure perduti a causa dell'erosione. Quindi, il campione di esemplari di cui disponiamo è sicuramente poco rappresentativo. Anche tra quelli che sono stati recuperati, per pochissimi è noto lo scheletro completo e sono molto rare anche le tracce di tessuti molli come la pelle. Le ricostruzioni di scheletri ottenute confrontando la dimensione e la morfologia delle ossa con ossa di specie simili meglio conosciute hanno un notevole margine di imprecisione e di ipotesi, come del resto le ricostruzioni di muscoli e altri organi. In effetti molte specie di dinosauri sono conosciute solo da uno scheletro altamente incompleto, frammenti d'ossa o di denti, e pochissime sono studiabili attraverso collezioni di scheletri più o meno completi giovanili, adulti ed infantili.

Nonostante si ritenga comunemente il contrario, la taglia media dei dinosauri conosciuti non era superiore a quella di una pecora; a questo dato bisogna inoltre aggiungere il fatto che le creature più grandi si fossilizzano più facilmente e sono più facili da scoprire, per cui la reale taglia media potrebbe essere ancora inferiore se si tiene conto delle specie non ancora scoperte. Tuttavia, se confrontati con animali delle epoche sia anteriori che posteriori, i dinosauri del gruppo dei sauropodi avevano dimensioni superiori di circa un ordine di grandezza. I più piccoli sauropodi erano più grandi di qualunque altro essere nel loro habitat e i più grandi erano di un ordine di grandezza maggiore di qualunque altro essere abbia mai camminato sulla Terra.

Il più alto e il più pesante dinosauro di cui sia noto lo scheletro completo è tuttora l'esemplare di brachiosauro (ora attribuito al genere Giraffatitan) che fu scoperto in Tanzania tra il 1907 e il 1912, attualmente esposto nel Museo Humboldt di Berlino. Era alto 12 m, e probabilmente pesava tra le 30 e le 60 t. Il più lungo è uno scheletro di Diplodocus che misura 27 m, scoperto nel Wyoming. Questo esemplare fu montato nel Carnegie Natural History Museum di Pittsburgh nel 1907 e ne furono in seguito eseguiti numerosi calchi che furono donati a numerosi musei nel mondo.

Esistono molti altri dinosauri più grandi, ma ne sono state recuperate solo poche ossa. Gli attuali primatisti sono stati scoperti tutti dopo il 1970 e comprendono il massiccio Argentinosauro, il cui peso potrebbe essere stato di 100 tonnellate; il più lungo, il Supersaurus (40 m); e il più alto, il Sauroposeidon (18 m).

Nessun altro gruppo di animali terrestri si avvicina a queste dimensioni. Il più grande elefante registrato pesava appena 8 tonnellate, mentre la più alta giraffa era alta appena 6 m. Anche i grandi mammiferi preistorici come l'indricoterio, il mammut imperiale e il mammut del fiume Songhua erano nani in confronto ai giganteschi sauropodi. Solo pochi animali acquatici si avvicinano a tali dimensioni; tra questi la balenottera azzurra è la più grande, giungendo fino a 150-180 tonnellate e a 33 m di lunghezza.

Escludendo i moderni uccelli come il colibrì, i più piccoli dinosauri conosciuti possedevano circa le dimensioni di un corvo o di un pollo. Il Microraptor e il Parvicursor erano di lunghezza inferiore ai 60 cm. I fossili di piccoli dinosauri sono quelli più difficili da trovare in molti classici giacimenti (ed in particolare quelli a marne di grana fine, particolarmente indicati per i reperti di grosse dimensioni), tendono ad essere distrutti più facilmente dall'erosione e a passare inosservati, anche per questo fino a poco tempo fa erano poco note forme microscopiche di dinosauro; tuttavia non è affatto escluso esistessero molte specie di piccole e piccolissime dimensioni, anche inferiori a quelle di un pollo o di un corvo.

Il comportamento dei dinosauri non aviani sarà sempre soggetto ad un grande margine di mistero dal momento che non ne è possibile l'osservazione diretta. I paleontologi devono basarsi su indizi indiretti, dedotti da tracce fossili, come scheletri in combattimento (Velociraptor e Protoceratops) e nidi fossilizzati, confrontandoli cautamente con gli studi sul comportamento degli animali viventi.

Tali indizi sono molto vari e suggeriscono diversi tipi di comportamenti, comunque ipotetici. Alcuni potrebbero aver avuto una sorta di comportamento gregario (non necessariamente sociale), forse migrando in grandi branchi analogamente ai mammiferi erbivori moderni (ad esempio le specie africane).

Un'ipotesi sostiene che questo comportamento poteva fornire un sistema di allarme contro taluni predatori. È possibile che anche i dinosauri carnivori abbiano avuto comportamenti sociali, come accade oggi per i lupi e i grandi felini. Unità familiari potrebbero avere viaggiato insieme per lunghi periodi in modo da aiutarsi reciprocamente a sopravvivere. Tuttavia ciò è messo in dubbio dal fatto che gli arcosauri odierni più vicini ai dinosauri mesozoici non presentano alcun tipo di organizzazione sociale. Inoltre molti arcosauri odierni che collaborano nella caccia (come i coccodrilli del Nilo) lo fanno senza sviluppare complessi sistemi di interazione sociale, che sono complessivamente rari anche tra gli uccelli, mentre sono molto diffuse forme di tolleranza reciproca, commensalità e di occasionale collaborazione, soprattutto nello smembramento di una carcassa. Numerose "prove" di socialità tra i dinosauri, e soprattutto tra i teropodi, ovvero letti di ossa monospecifici, si sono dimostrate errate o quantomeno interpretabili in differenti maniere in base all'analisi tafonomica del sito. Qualunque interpretazione sul comportamento dei dinosauri si basa su speculazioni e promette di causare controversie in futuro.

I dinosauri sono studiati dai paleontologi. Tra le specializzazioni vi sono la scoperta, la ricostruzione e la conservazione dei fossili di dinosauro e l'interpretazione di quei fossili per capire meglio l'evoluzione, la classificazione e il comportamento dei dinosauri.

Il primo dinosauro conosciuto, l'Eoraptor lunensis apparve approssimativamente 230 milioni di anni fa, tra il Triassico medio e il Triassico superiore, circa 20 milioni di anni dopo l'estinzione di massa del Permiano-Triassico che causò la scomparsa di circa il 75% di tutta la varietà biologica del pianeta. Le datazioni radiometriche dei fossili della primitiva specie di dinosauro Eoraptor lunensis, scoperto in Argentina, stabiliscono la sua presenza nei ritrovamenti fossili di quel periodo. I paleontologi credono che Eoraptor potesse assomigliare all'antenato comune di tutti i dinosauri. Se ciò fosse vero, le sue caratteristiche farebbero pensare che i primi dinosauri fossero piccoli predatori bipedi. Tra i possibili antenati dei dinosauri vi sono Marasuchus, del Triassico medio dell'Argentina, il poco conosciuto Saltopus della Scozia (grande quanto una mano, del Triassico superiore) e Silesaurus, rinvenuto in Polonia e considerato un possibile antenato dei dinosauri ornitischi.

Molte linee di dinosauri primitivi si diversificarono rapidamente dopo il Triassico, espandendosi rapidamente fino a riempire la maggior parte delle nicchie ecologiche disponibili.

L'estinzione di massa del Cretaceo terziario, 65 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, causò la scomparsa di tutti i dinosauri, con l'eccezione del ramo dei teropodi che, evolvendosi, avevano già portato alla comparsa dei primi uccelli.

La conoscenza attuale dei dinosauri deriva da una varietà di ritrovamenti fossili e non fossili, tra cui ossa fossilizzate, coproliti, tracce di deambulazione, gastroliti, piume, impronte della pelle, tessuti molli e organi interni. Molti campi di studio contribuiscono a farci capire il mondo dei dinosauri, tra cui la fisica, la chimica, la biologia e le scienze della terra (delle quali la paleontologia è una branca).

Resti di dinosauri sono stati ritrovati in ogni continente, incluso l'Antartide. Numerosi fossili delle medesime specie di dinosauro sono stati ritrovati su continenti del tutto differenti, dando in questo modo vigore alla teoria secondo la quale tutte le masse continentali erano unite un tempo in un supercontinente denominato Pangea. Questa massa iniziò a frammentarsi nel Triassico, circa 230 milioni di anni fa.

I dinosauri hanno anche denti che crescono da alveoli, anziché essere estensioni dirette delle ossa mascellari, come pure varie altre caratteristiche. Entro questo gruppo, i dinosauri si differenziano principalmente per la loro andatura. Invece di avere zampe che si estendono lateralmente, come le lucertole e i coccodrilli, le loro zampe si protendono direttamente sotto il loro corpo.

Nella stessa epoca dei dinosauri vivevano molti altri tipi di rettili. Alcuni di questi sono comunemente, ma scorrettamente, considerati dinosauri: tra questi i plesiosauri (rettili acquatici che non sono vicini ai dinosauri dal punto di vista evolutivo), e gli pterosauri, rettili volanti che si sono evoluti separatamente da un rettile progenitore nel tardo Triassico.

Gli scienziati hanno alimentato un costante e vigoroso dibattito riguardo alla regolazione della temperatura del sangue dei dinosauri: la discussione, resa popolare da Robert T. Bakker si è incentrata dapprima sulla possibilità che vi fosse una tale regolazione e in seguito sul metodo di regolazione.

Dalla prima scoperta dei dinosauri, i paleontologi ipotizzarono che fossero creature ectotermiche. Questa ipotesi implicava che i dinosauri fossero per lo più organismi lenti e pigri, confrontabili con i moderni rettili, che hanno bisogno del sole per riscaldare i loro corpi. In realtà il paelontologo inglese Owen, quando creò il nome Dinosauria, già si interrogò sul loro metabolismo, ipotizzando se non una completa omotermia, almeno un cuore complesso a quattro cavità. Diverse scoperte successive hanno messo in discussione l'ipotesi dell'ectotermia: il ritrovamento di dinosauri in territori dal clima freddo, di dinosauri polari in Australia e nel nord della Siberia e dell'Alaska, dove sopportavano sei mesi di inverno gelido e scuro, la scoperta di dinosauri piumati le cui piume fornivano una regolazione per isolamento e infine l'analisi, nelle ossa di dinosauro, di strutture dei vasi sanguigni che sono tipiche degli organismi endotermici. Tutte queste scoperte confermarono la possibilità che alcuni dinosauri, se non tutti, regolassero la loro temperatura corporea con metodi biologici interni; in alcuni casi potrebbero essere stati parzialmente aiutati dalla loro ampia massa corporea, che al contrario per altri scienziati è la dimostrazione più lampante della necessità di un metabolismo endotermico, non tanto per riscaldare il corpo quanto per raffreddarlo. Le strutture scheletriche suggeriscono per i teropodi e altre creature stili di vita attivi, più compatibili con un sistema cardiovascolare endotermico. Forse alcuni dinosauri erano endotermici e altri no. La discussione scientifica sui dettagli continua, sebbene molti paleontologi ora concordino sul fatto che i sistemi endotermici sono più probabili.

A complicare questo dibattito, il "sangue caldo" può essere mantenuto con più di un meccanismo (per esempio anche tonni e squali hanno un metabolismo attivo, ma differente da quello di mammiferi e uccelli). La maggior parte delle discussioni sull'endotermia dei dinosauri li confronta con il tipico uccello o mammifero, che consuma energia per alzare la temperatura corporea al di sopra della temperatura ambiente. I piccoli uccelli e i mammiferi possiedono inoltre qualche tipo di isolamento, come grasso, pelliccia o piume, per ridurre la perdita di calore. Tuttavia i grandi mammiferi, come gli elefanti, devono affrontare un problema diverso poiché il rapporto tra la loro superficie corporea e il loro volume è particolarmente piccolo (principio di Haldane). Considerando animali via via più grandi, si nota che l'area della loro superficie cresce più lentamente rispetto al loro volume; a un certo punto, la quantità di calore disperso attraverso la pelle scende al di sotto della quantità di calore prodotta all'interno del corpo, costringendo così gli animali ad usare metodi addizionali per evitare il surriscaldamento. Nel caso degli elefanti, essi non hanno pelliccia, possiedono grandi orecchie che aumentano la loro superficie corporea e mostrano inoltre un adattamento comportamentale, come usare la proboscide per spruzzarsi di acqua e immergersi nel fango. Questi comportamenti aumentano il raffreddamento per evaporazione.

I grandi dinosauri dovettero, presumibilmente, fronteggiare la stessa situazione: la loro dimensione suggerisce che disperdessero calore in modo relativamente lento, e quindi avrebbero potuto essere "grossi endotermi", animali che sono più caldi dell'ambiente circostante a causa della loro dimensione e non grazie ai particolari adattamenti messi in atto da mammiferi e uccelli. L'anatomia dei Dinosauri, per quanto ancora conosciuta in modo imperfetto, permette di ipotizzare che, già a livello basale, i saurischi avessero un sistema di respirazione assai complesso, basato su sacche aeree e polmoni rigidi. Questo sistema avrebbe potuto contribuire in maniera sostanziale a ridurre i problemi di surriscaldamento degli animali, permettendo ai dinosauri di raggiungere dimensioni notevolmente superiori a quelle raggiunte da qualsiasi mammifero terrestre o, nel caso dei sauropodi, marino.

ESono stati identificati residui di materiale organico in alcune ossa di dinosauri risalenti a settantacinque milioni di anni fa: cellule di tessuti e tracce di quelli che sembrano essere globuli rossi. La straordinaria scoperta, effettuata da ricercatori dell’Imperial College di Londra, fornisce preziosissimi indizi per risalire al reale aspetto e alle abitudini dei giganteschi rettili che in un passato molto remoto hanno dominato la Terra: lo studio di eventuali resti di cellule ematiche potrebbe infatti aiutare gli scienziati a capire quando i dinosauri hanno sviluppato un metabolismo simile a quello degli uccelli, in altre parole in che modo si sono evoluti in animali a sangue caldo e quale è stata la loro genealogia.

Il team di ricercatori capitanati da Sergio Bertazzo e Susannah Maidment ha individuato piccole parti di tessuti molli nei reperti ossei di otto esemplari di dinosauri, ritrovati nei primi decenni dello scorso secolo e risalenti al Cretaceo, il periodo che nella cronologia delle ere geologiche segue il Giurassico. Anche se le ossa non erano in perfetto stato di preservazione, anzi, e a prima vista non mostrassero segni evidenti di strutture tissutali, accurate analisi al microscopio elettronico hanno rivelato invece la presenza di cellule quasi del tutto identiche a eritrociti (i globuli rossi), oltre a fibre di collagene e residui di altre proteine di tessuto connettivo. Finora qualche traccia di materia organica era stata osservata solo in rarissimi campioni fossili ottimamente conservati, ma con identificazione controversa: secondo alcuni esperti non sarebbero residui di natura biologica in quanto le molecole che compongono le proteine decadono in tempi relativamente brevi e comunque non possono durare oltre quattro milioni di anni. Ma i risultati delle analisi effettuate dai ricercatori d’oltremanica e riportati su Nature Communications sembrano fugare ogni dubbio. Anche perché hanno esaminato vari campioni provenienti da diverse ossa di differenti fossili, tutti custoditi al Natural History Museum della capitale inglese: un pezzo d’unghia dell’artiglio appartenente a un esemplare non ben definito di teropode (cioè della famiglia del Tirannosauro Rex), frammenti di tibia e costole di cinque adrosauridi (erbivori col becco d’anatra e una lunga protuberanza a mo’ di elmo sul cranio), di un casmosauro (altro erbivoro ma dotato di lunghe corna) e di un ceratopside (famiglia del Triceratopo).
Gli studiosi si sono avvalsi di uno stuolo di apparecchiature all’avanguardia: prima hanno visionato le ossa con dettagli micrometrici tramite un microscopio elettronico a scansione per rilevare e localizzare nei frammenti la presenza di tessuti molli, poi con uno strumento che spara fasci di ioni hanno praticato micro incisioni per osservarne la struttura interna. Hanno così scovato molecole di amminoacidi (le basi delle proteine) e catene proteiche avvolte in filamenti a tripla elica, come nelle fibre di collagene, la principale proteina che costituisce il tessuto connettivo. “Poiché ogni gruppo di animali ha una sua propria struttura di collagene, future analisi ci potranno dire come le varie specie di dinosauri erano imparentate tra loro” spiega Susannah Maidment. Infine i piccoli pezzi di tessuto sono stati sottoposti ad analisi con uno spettrometro di massa, comparandoli con un campione di sangue prelevato da un emù (dato che si ritiene che gli uccelli discendano proprio dai dinosauri). Risultato: i frammenti fossili hanno mostrato similarità con i globuli rossi dell’uccello australiano. Alla fine la domanda sorge quindi spontanea: sono state rinvenute anche tracce di Dna? «Non è possibile trovarlo o estrarlo da questo tipo di campioni», dice Sergio Bertazzo «però la nostra scoperta ha implicazioni allo stesso modo importantissime: ora sappiamo che con adeguate tecniche siamo in grado di rivelare la presenza di cellule vecchie di decine di milioni di anni nei resti fossili degli scheletri di dinosauri; il che non solo ci consente di conoscere meglio la fisiologia di queste creature, ma anche il loro comportamento e permette di tracciare una precisa linea di discendenza tra le varie specie». Proprio per il fatto che il team è riuscito a osservare strutture organiche in ossa che giacevano da quasi cento anni nelle teche di un museo, si suppone ora che anche in altri reperti sparsi per il mondo si possa trovare qualcosa di simile o addirittura di più dettagliato. E che potrebbe riservare altre eclatanti sorprese.


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I MAMMUT



Resti di mammut sono stati rinvenuti in Europa, Africa, Asia e Nordamerica. Si pensa che questi animali si fossero sviluppati in Africa del Nord circa 4,8 milioni di anni fa, nel Pliocene; i resti della specie primitiva Mammuthus africanavus sono stati rinvenuti in Ciad, Libia, Marocco e Tunisia. Mammuthus subplanifrons, del Sudafrica e del Kenya, è anch'esso considerato una delle specie più antiche e primitive (età: circa 4 milioni di anni). Nonostante la loro origine africana, i mammut sono più strettamente imparentati con gli odierni elefanti asiatici che con le due specie di elefanti africani. L'antenato comune di mammut ed elefanti asiatici si separò dalla linea degli elefanti africani tra i 7 e i 6 milioni di anni fa. Gli elefanti asiatici e i mammut si differenziarono in seguito, circa mezzo milione di anni dopo.

I mammut africani, in poco tempo, migrarono a nord verso l'Europa e diedero origine a una nuova specie, il mammut meridionale (Mammuthus meridionalis), che si diffuse attraverso l'Europa e l'Asia e attraversò il ponte di Bering, ora sommerso, fino ad arrivare in Nordamerica. Circa 700.000 anni fa, il clima peggiorò sensibilmente e le pianure e le savane di Europa, Asia e Nordamerica divennero steppe freddissime e decisamente meno fertili. Il mammut meridionale, di conseguenza, scomparve, sostituito in gran parte del suo areale dal mammut delle steppe (Mammuthus trogontherii). Questa specie, poi, diede origine al mammut lanoso, Mammuthus primigenius, circa 300.000 anni fa. I mammut lanosi erano eccezionalmente adatti a fronteggiare il freddo estremo dell'Era glaciale.

Questa specie di mammut ebbe un successo davvero notevole: visse dalla Spagna fino al Nordamerica, e si pensa sia esistita in grandi quantità di individui. Il ricercatore russo Sergei Zimov ha stimato che durante l'ultima Era Glaciale, parti della Siberia potrebbero aver avuto una densità media di popolazione di sessanta animali per cento chilometri quadrati - l'equivalente degli elefanti africani al giorno d'oggi. In Nordamerica, invece, si svilupparono due specie di mammut, Mammuthus jeffersonii e Mammuthus columbi.

La sopravvivenza dei mammut nani (Mammuthus primigenius vrangeliensis) nell'isola di Wrangel in Russia è dovuta al fatto che l'isola era molto remota, e completamente disabitata fino all'Olocene inoltrato. L'isola non fu scoperta dalla civiltà odierna fino al 1820, da una nave baleniera americana. I mammut di Wrangel non erano però di piccolissima taglia, con un'altezza al garrese di circa 2-2,5 metri, paragonabile a quella di alcune varietà di elefanti asiatici, e infatti non sono considerati una specie a sé stante del genere Mammuthus, ma una semplice variazione geografica del mammut lanoso. Un molto più marcato nanismo insulare è stato riconosciuto nei mammut delle isole Channel della California (Mammuthus exilis), che sono considerate una specie distinta ed originatesi in un periodo precedente. Là, gli animali sono stati probabilmente sterminati quando i nativi americani iniziarono a navigare fino alle isole Channel, che sono prospicienti alla costa, e/o dalla perdita dell'habitat. Un'altra specie nana (Mammuthus lamarmorae) è vissuta in Sardegna e presumibilmente in Corsica (le due isole erano all'epoca collegate), estinguendosi circa 500.000 anni fa, grossomodo in concomitanza con le più antiche tracce di occupazione umana in Sardegna e Corsica.

Come gli odierni elefanti, i loro parenti più vicini, anche i mammut potevano raggiungere dimensioni ragguardevoli. La specie più grande conosciuta, il Mammuthus sungari che viveva tra la Cina e la Mongolia, raggiungeva l'altezza di 5 metri al garrese. Probabilmente i mammut pesavano circa 6 - 8 tonnellate, ma eccezionalmente i grandi maschi potrebbero aver superato le 12 tonnellate. La maggior parte delle specie, in ogni caso, erano grandi solo quanto un elefante asiatico attuale, e si conoscono fossili di forme nane.

I mammut possedevano alcuni adattamenti per resistere al freddo, il più noto dei quali è lo spesso strato di pelo, lungo fino a 50 centimetri, per il quale è stata data anche la denominazione di "mammut lanoso". Questi animali, inoltre, avevano orecchie più piccole rispetto a quelle degli elefanti attuali; il più grande orecchio di mammut mai trovato era lungo solo 30 centimetri, una minuzia in confronto al metro e ottanta di un grosso elefante africano. I mammut possedevano anche una membrana di pelle ricoperta di pelo che copriva l'ano, proteggendolo dal freddo.

Anche i denti di questi proboscidati erano adattati per la dieta di erbe di tundra, con più placche e corone più alte dei loro parenti meridionali. La loro pelle non era più spessa di quella degli odierni elefanti, ma a differenza di questi ultimi possedevano numerose ghiandole sebacee nella loro pelle, che secernevano grasso oleoso all'interno della loro pelliccia, migliorando le sue qualità di isolante. I mammut avevano uno strato di grasso spesso fino a otto centimetri sotto la pelle, simile a quello delle balene, che aiutava a tenere il loro corpo al caldo.

Infine, i mammut possedevano zanne estremamente allungate (fino a 5 metri), molto ritorte in alcune specie, la cui taglia era ben maggiore di quelle degli elefanti attuali. Non è chiaro se le zanne fossero un adattamento specifico al loro ambiente, ma è stato suggerito che i mammut potrebbero aver usato le loro zanne per rimuovere la neve dal terreno e raggiungere la vegetazione sottostante.

Dal 1999, alcuni scienziati russi e giapponesi lavorano ad un ambizioso progetto che ha come scopo la clonazione del mammut, in particolare l'equipe guidata dal professor Akira Intani, della School of Biology-Oriented Science and Technology della Kinki University di Osaka, spera di riuscire a clonare il mammut lanoso prelevando del DNA intatto dagli esemplari rinvenuti congelati nel permafrost nel corso degli ultimi anni.

Per riuscire nel loro intento, gli scienziati devono tuttavia risolvere delle difficilissime problematiche, prima di tutto è necessario disporre di tessuti muscolari o sperma di questi animali in buono stato di conservazione, solo in questo modo si può sperare di estrarre delle cellule intatte. Perciò, questo è possibile esclusivamente su mammut che una volta morti sono rimasti ricoperti e congelati immediatamente, senza poi aver subito processi di scongelamento nel corso dei millenni. I tentativi svolti finora sui tessuti muscolari di alcuni esemplari di mammut ritrovati nel permafrost in Siberia, come la cucciola di mammut di pochi mesi di vita soprannominata Ljuba (amore in russo) scoperta nel 2007, non hanno dato i risultati sperati, le cellule risultano troppo danneggiate per cui il DNA non è completo, gli scienziati hanno estratto circa il 70/80 % del DNA di mammut. L'eventuale estrazione di una cellula sana permetterebbe il suo inserimento nell'ovocita di elefante indiano, la specie vivente più simile al mammut, dal quale si svilupperebbe poi un embrione che, posto nell'utero di una elefantessa attraverso un'inseminazione artificiale, porterebbe alla nascita, salvo complicazioni e dopo una gestazione di 22 mesi, di un piccolo mammut.

Tuttavia, l'individuo generato sarebbe comunque geneticamente un ibrido fra due specie, poiché, nonostante la differenza genetica fra mammut ed elefante indiano sia solo del 5%, l'animale clonato con questa tecnica avrebbe un patrimonio genetico costituito dal DNA nucleare degli antichi Mammut, e il DNA mitocondriale dell'elefante indiano. Questo tuttavia non comporterà alcuna differenza fenotipica con i Mammut antichi, in quanto il DNA mitocondriale codifica esclusivamente per geni coinvolti nel metabolismo.

Alcuni scienziati si spingono persino ad individuare l'habitat ideale per "mammut rinati" ipotizzando zone della Siberia e del Canada i luoghi con il clima più adatto, creando parchi tematici o rendendoli attrazioni da zoo.

La ricerca, condotta dal Museo di storia Naturale di Stoccolma e pubblicata su Proceedings of the Royal Society B, dimostra infatti definitivamente, attraverso l’analisi del Dna, che a uccidere i mammut fu la fine della glaciazione e il riscaldamento globale e non i nostri antenati, anche se come fanno notare molti esperti la deglaciazione comportò a sua volta ondate di popolazioni migratorie dedite alla caccia e dunque le due cause con ogni probabilità si intrecciarono.
In realtà è dal 1806, epoca in cui furono ritrovati in Russia i primi resti fossilizzati di mammut, che si discute sulla reale causa di estinzione di questi cugini dei moderni elefanti che centinaia di migliaia di anni fa popolarono le steppe ghiacciate ed è ormai quasi assodato che le condizioni climatiche giocarono il ruolo cruciale. I mammut si sono estinti a causa della trasformazione del loro habitat, che riscaldandosi ha modificato gradatamente la flora. Ma la vera novità di questo studio, alle cui conclusioni erano già approdati gran parte degli scienziati, sta nel fatto che i mammut avrebbero iniziato un primo processo di estinzione già a partire da 120 mila anni fa (nel periodo interglaciale Eemiano, tra le glaciazioni che nelle Alpi prendono il nome di Riss e Würm).
L’analisi genetica condotta dal gruppo di ricerca del Museo di storia naturale di Stoccolma mostra come già nel Pleistocene superiore i grandi erbivori avessero iniziato a decimarsi e che addirittura 120 mila anni fa la popolazione di mammut avesse dato i primissimi segni di contrazione. La prima grande moria risale dunque a quando si verificò un periodo interglaciale (Eemiano) che generò temperature definite dagli esperti «più o meno come quelle attuali». In quell’occasione la popolazione di mammut passò probabilmente da alcuni milioni ad alcune decine di migliaia di esemplari. Con la ripresa dell’espansione dei ghiacci sulle terre emerse i mammut tornarono a prosperare. Ma quando anche l’ultima glaciazione (Würm) terminò circa 20 mila anni fa, i mammut scomparvero di scena. Non tutti però, alcuni (forse una sottospecie) restarono isolati nell’ultima nicchia ecologica a loro congeniale: nelle remote lande e nelle isole a nord della Siberia.

I ricercatori hanno sequenziato il Dna di 300 campioni fossili di mammut lanoso scoperti in Eurasia e in America del Nord e risalenti a differenti epoche e hanno messo poi in relazione la documentazione fossile e genetica con la simulazione del clima delle varie regioni abitate dai mammut durante i vari intervalli di tempo.

Attualmente intorno al climate change e ai mammut sono stati fatti notevoli passi in avanti. Recentemente per esempio è stata trovata in un’isola dell’arcipelago Ljachov, nel mar di Laptev, la carcassa di un mammut dalla quale è stato possibile estrarre una discreta quantità di sangue. È avvenuto in una remota isola a nord della Siberia aprendo nuovi spiragli per riportare in vita i mammut tramite clonazione.




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LEONARDO DA VINCI E LECCO

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L’interesse di Leonardo da Vinci per le montagne e per il paesaggio alpino è evidente e ben noto agli storici dell’arte.
La corrispondenza estetica fra le montagne, luogo espressivo delle grandi forze naturali, e l’animo umano, teso alla conoscenza dell’ignoto, è percepibile in varie celebri tele leonardesche.
Il pittore non guarda più agli elementi naturali secondo una logica di pura oggettività inerte, ma osserva la realtà cercando di trascenderla alla ricerca delle sue origini e della connotazione delle forze che la animano. Le montagne, le rocce, le caverne, sono ora il simbolo perfetto di quell’energia vitale che fluisce nell’universo, determinando le condizioni della vita e scatenando l’immane e spesso arcana dialettica degli elementi, che nei mari, nelle montagne e nei cieli, come nell’animo umano, provocano inspiegabili, irrazionali disordini.
Per Leonardo, nelle montagne è racchiuso il segreto dell’antichità del mondo, ed in esse si realizza, in modo oscuro ed immane, una parte essenziale del grande ciclo cosmico che lega insieme roccia, acqua, cielo e ventre della terra.

Emerge dunque una montagna intesa ancora come luogo completamente appartenente alla dimensione dell’irrazionale, del magico e del simbolismo di marca comunque religiosa. Prima che quest’immagine della montagna scompaia dall’immaginazione popolare dovranno passare quasi altri trecento anni.
Del tutto distante, per propria natura, dalle convinzioni dei più, Leonardo da Vinci non mostra solo un interesse teorico per le montagne, ma le va ad esplorare di persona, facendosi a suo modo alpinista, forse memore delle esperienze del suo predecessore Petrarca. In un brano famoso egli descrive la sua principale ascensione, compiuta, si ritiene oggi, nella zona del Monte Rosa, talora anticamente chiamato Momboso:

Dico, l’azzurro in che si mostra l’aria, non essere suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili atomi, la quale piglia dopo sé la percussion de’raggi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio. E questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi, che rigan per quattro aspetti contrari tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la sua base in simile altezza. Questa si leva in tanta altura, che quasi passa tutti li nuvoli, e rare volte vi cade neve, ma sol grandine di state, quando li nuvoli sono nella maggiore altezza; e questa grandine vi si conserva in modo, che,  se non fosse la rarità  del cadervi e del montarvi nuvoli, che non accade due volte in una età, egli vi sarebbe altissima quantità di diaccio, innalzato dalli gradi della grandine. Il quale di mezzo Luglio vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa; e’l sole, che percotea la montagna, essere più luminoso quivi assai, che nelle basse pianure, perché minor grossezza d’aria s’interponea in fra la cima d’esso monte e’l sole.

Ma questa non fu certo l’unica esperienza fatta da Leonardo in ambiente alpino, dato che proprio a questo periodo della sua vita risalgono alcuni brevi viaggi compiuti da Milano, ove era tornato per la seconda volta, verso la Brianza e le montagne prealpine.
Del resto già in età giovanile, nell’epoca del soggiorno a Firenze (1452-1482), Leonardo aveva avuto modo di entrare in contatto con gli squarci di natura montana dell’Appennino e ne era rimasto affascinato, cosicchè le rocce, le cime, i boschi, sono già presenti in alcuni dipinti famosi.
La più significativa rappresentazione alpina leonardesca risale comunque al secondo periodo milanese: dobbiamo attendere una tranquilla e soleggiata giornata dei primi anni del sedicesimo secolo, presumibilmente il 1511. Leonardo, che ha ormai cinquantanove anni, e che è ritornato a Milano nel 1506, raffigura un gruppo montuoso dai contorni precisi, in un piccolo disegno a sanguigna, oggi conservato presso la collezione di Windsor.

Le montagne che circondano Lecco sono di una bellezza tale da aver addirittura impressionato Leonardo Da Vinci che, nelle vesti di scienziato le studiò attentamente e le descrisse ne Il Codice Atlantico, e nelle vesti di artista le dipinse nei suoi quadri. Le montagne delle due Vergini delle Rocce (al Louvre e alla National Gallery) sono, o sono largamente ispirate da, le belle montagne lecchesi.

“Nessuna cosa si può amare, né odiare, se non si ha piena cognizione di quella. Così Leonardo scriveva nel suo trattato di pittura , quindi non si può amare, né si può dire di conoscere a fondo l’opera del genio fiorentino, senza conoscerne in maniera approfondita quel che ci riguarda direttamente ovvero l’uso che egli faceva dei paesaggi che fanno da sfondo ai suoi dipinti, per nulla casuale, del meraviglioso territorio. Molti dei paesaggi ritratti da Leonardo sono legati al corso dell’Adda e alle Grigne, montagne uniche nel loro genere che egli ebbe modo di studiare con attenzione durante il suo soggiorno milanese presso la corte degli Sforza. Senza comprendere l’uso dei paesaggi da parte di Leonardo e i contenuti di carattere esoterico inseriti nelle sue opere, è impossibile cogliere il senso profondo sotteso alla sua arte pittorica."

Leonardo ben conosceva le qualità della natura del territorio lecchese, dai picchi fantastici e dai serpeggianti specchi di acque, ora calme ed ora improvvisamente sconvolte dalle forze della natura. Il disegno 12409 (codice Windsor) non è altro che una veduta di Lecco medioevale sulla quale irrompe uno di quegli acquazzoni primaverili che noi tutti abitanti della zona conosciamo.
Di assoluta stupefazione deve essere stato l’impatto che l’Artista, nato e cresciuto fra i colli toscani, ebbe con la Lecco medioevale, in parte arroccata ai piedi del vertiginoso monte San Martino, in parte immersa nella conca compresa fra il Resegone, il Barro, il Moregallo ed i Corni di Canzo e lambita dalle acque lacustri.
Nei codici di Windsor, si rintracciano disegni di creste nevose che appartengono al paesaggio lecchese: il massiccio centrale delle Grigne, visto dai Monti di Brianza da lui percorsi, oppure dall'Altopiano di Limonta; il profilo frastagliato del Due Mani e del Resegone ritratti dal Lago di Oggiono e da Garlate; e l'uragano in una valle fra i monti, che in una flottiglia di nuvole basse, radunate fra il Moregallo e il S.Martino, squassa di venti la conca di Lecco, secondo l'interpretazione di Castelfranco.
Altre montagne colpiscono Leonardo nelle loro macchie diverse, con "li sassi (che) tengono naturalmente di colore declinante in azzurro e l'aria che si interpone li fà ancora più azzurri e massime nell'ombre loro"; sembra questo l'emergere dei rilievi lariani dalle nebbie della dolce primavera lombarda.
Leonardo fu più volte in queste zone tra 1483 e 1498, vide la Brianza, si recò a Bellagio per l'ospitalità del marchesino Stanga, passò ad osservare il fenomeno del Fiumelatte, per la via di Lecco entrò nella Valsassina a vedere miniere ed officine del ferro e del rame, la mastodontica groppa della Grigna "pelata" ed altre "cose fantastiche", tra i quali forse la cavità di tipo carsico di cui è ricca la zona delle Grigne la grotta di Moncòdeno è certamente la più curiosa: il calcare, tradizionale protagonista delle sculture sotterranee - stalattiti, stalagmiti, panneggiamenti - viene infatti sostituito dal ghiaccio che dà vita a un mondo incantato in rapido e perenne mutamento. E' una ghiacciaia naturale, un gioiello dimenticato la cui suggestione ha per secoli attirato scienziati, esploratori e visitatori occasionali.
   
Sono le stesse rocce che compaiono tante volte sullo sfondo dei suoi dipinti, la Gioconda, la Madonna e S.Anna, la Vergine delle Rocce, da intendere forse solo come simboli sintetici del rapporto con la vita.
E’ bene, dunque, sottolineare ancora una volta come il fascino dei monti e dei fiumi lombardi abbia suggestionato a tal punto Leonardo da indurlo a riportare questi profili in alcune sue tavole più famose, a partire dalla “Vergine delle rocce” sino ad arrivare alla più nota “Gioconda”, con alle spalle un paesaggio che ha destato, anch’esso, controverse interpretazioni. Vi si notano il Resegone, le Grigne, i laghi. Perfino il curioso ponticello dalle tipiche arcate di misura variabile è identificabile nel ponte Azione Visconti, di architettura assai diversa dai ponti toscani.
Le osservazioni che si possono fare nella Vergine delle rocce  sono i roccioni  riconducibili alle guglie della Grigna settentrionale e in particolare al Sasso Cavallo e al Sasso dei Carbonari. Raffigurata a lato della spalla sinistra si può notare una piantina di Mapello (Aconicum napellus), specie prettamente endemica della Grigna Settentrionale.



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IL CONTE ATTILIO



Il conte Attilio è il cugino di don Rodrigo nel romanzo di Alessandro Manzoni I Promessi Sposi, e lo aiuta nel suo infame obiettivo, ovvero quello di catturare Lucia Mondella.
Con quest'ultimo scommette sul fatto che non sarebbe riuscito ad impossessarsi di Lucia, ed è proprio a causa di questa scommessa che inizia tutta la vicenda che si svilupperà nel corso del libro.

Il conte Attilio è assai più preoccupante e cinico di don Rodrigo, e se alle prime battute si attira un po' di simpatia per un certo piglio giovanile, allegro e scanzonato, poi si rivela maligno, crudele e perverso. Benché sembri avere una parte secondaria del romanzo, agisce tuttavia su don Rodrigo rinfocolandone le passioni con malignità perversa e astuzia diabolica; non ha esitazioni e da ignorante grossolano trincia giudizi, né si stanca di incoraggiare il cugino con minacce di gran canzonature e con promesse di aiuto. Spensierato e burlone, spinge don Rodrigo a soddisfare il suo capriccio, determinandolo ad impegnarsi per portare a termine la sua turpe impresa. Per servire il frate con arte sopraffina lusinga la vanità del conte zio, presuntuoso e fatuo, sì da ottenere l'allontanamento di padre Cristoforo da Pescarenico. La cosa è fatta. Il personaggio compare sulla scena venti mesi dopo, morto di peste; gli è ancora vicino don Rodrigo che tra i fumi della vernaccia gli fa l'elogio funebre, movendo le risa di tutta la compagnia.



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FRA CRISTOFORO



« Il padre Cristoforo era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un'astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d'espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d'un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne' suoi ultim'anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell'unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore.  Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa.  Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. »

Figlio di un commerciante, prima di ricevere la vocazione e diventare frate cappuccino, si chiamava Lodovico; Manzoni non fornisce alcun cognome a questo personaggio. Grazie alla fortuna paterna cercava di introdursi negli ambienti della nobiltà ma rifiutato da questa come irrimediabilmente inferiore per nascita (il suo ultimo avversario lo definisce sprezzantemente vile meccanico), si immedesima nel ruolo di paladino dei più poveri.

Lodovico dopo essersi scontrato con un nobile e averlo ucciso in un duello, provocato da cause banali, in cui perde la vita anche Cristoforo, servitore cinquantenne da lui molto amato, si rifugia in un convento di Cappuccini. Le due tragiche morti (il nobile arrogante con cui aveva duellato si pente e perdona Lodovico tramite il cappuccino accorso ad assisterlo) avviano alla fine un processo già iniziato di conversione e decidono il giovane al cambiamento di vita cui aveva già altre volte pensato.

Chiede quindi di essere accolto come postulante al convento stesso dove si è rifugiato. La sua decisione permette ai Cappuccini di evitare il prevedibile imbarazzo di difendere il diritto di asilo di un nemico di una potente famiglia, e alla famiglia dell'ucciso, che lo scrittore mantiene anonima, l'imbarazzo di scontrarsi con la Chiesa per ottenere vendetta. Nella soddisfazione generale Lodovico viene quindi rivestito del saio.

Memore del suo vecchio e amato servitore, come nome religioso Lodovico sceglierà il nome di Cristoforo, nome peraltro con una forte valenza religiosa significante "portatore di Cristo". La scena del duello, provocato dalla discussione su chi avesse dovuto cedere il passo fra i due contendenti (cap. IV), ripropone una situazione tipica della tradizione cavalleresca, passata poi ai popolari romanzi di avventura, i romanzi di cappa e spada, tra i quali il celeberrimo I tre moschettieri di Alexandre Dumas.
Tuttavia la conversazione non crea in lui un nuovo carattere; indole, sentimento e volontà restano intatto, ma dopo la tragedia egli consacra tutte le sue forze ad espiare il suo fallo, e diventa, quindi, l'amico dei buoni, il sostegno dei deboli, la provvidenza dei perseguitati. Infatti dovunque compare è per far del bene; il suo dinamismo gli dà la consapevolezza della superiorità della propria anima, aperta alla luce della giustizia e della bontà, della comprensione umana e cristiana verso i deboli. Il suo mirabile ardore di carità è l'essenza, la caratteristica fondamentale della sua nuova vita. Egli diventa virtù operante profondamente umana, e tanto più attiva quanto più viene a contatto con le passioni che agitano questa nostra varia umanità, buona o malvagia, trista o sofferente, supina al male o eroica nel bene. In questa sua missione di bene, accettata con spirito altamente francescano, l'animo del frate si innalza sublime a toccare le vette dell'amore, fatto di pazienza e di carità, di forza e di sensibilità; quanto più aderisce al multiforme realismo della nostra vita, tanto più acquista una sua potenza interiore, che in ogni momento ei esprime in umiltà. Padre Cristoforo è la figurazione del Bene; benedetto sempre dalla folla che lo crede un santo; temuto dai malvagi a cui parla schietto e fiero il linguaggio dell'accusa e della minaccia in nome di Dio. tuttavia sempre memore dei suoi trascorsi giovanili, sa comprendere e compatire le miserie umane; capisce Renzo innamorato e vittima di un infame sopruso, le sue furie e cerca di soffocarne l'ira con gli argomenti della fede e con le verità del Vangelo. Allontanato da Pescarenico, comandato di recarsi a Rimini, affida alla Provvidenza i suoi protetti, che più tardi rivede nel lazzaretto a Milano con sua grande consolazione, e li benedice, confortato di vederli prossimi alle nozze. Nell'ultimo addio stringe la mano di Renzo, che è sempre il suo figliolo dopoché ha perdonato a don Rodrigo, colpito dalla peste e agonizzante su di un misero giaciglio. Consapevole di essere vicino alla grande ora del trapasso, questo eroe della carità, che tra gli appestati sta per chiudere gli occhi sulle miserie del mondo, spera di aprirli nella luce della beatitudine eterna. Di tutti i grandi personaggi del romanzo, nessuno può rappresentare con maggiore spirito e con più sublimità la rinunzia e il sacrificio, nessuno è così trasfigurato dalla carità. Solo padre Cristoforo poteva capire la bellezza dell'anima di Lucia; e il Manzoni accosta queste due creature nella visione di Renzo in fuga da Milano: una treccia nera e una barba bianca.

Le cronache di Pio la Croce del 1630 narrano del frate cappuccino padre Cristoforo Picenardi da Cremona morto di peste nel lazzaretto in quell'anno.







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PERPETUA



« sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie»

Perpetua ha raggiunto "l'età sinodale dei quaranta", ha rifiutato due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna), motivando la scelta dicendo di "averli rifiutati", mentre le sue amiche dicevano che "non aveva trovato nessun cane che la volesse".
La sua fortuna dipende dagli attributi di spontaneo popolarismo che la informano. La sua indiscrezione è quella affettuosa della "serva padrona"; è donna poco docile, facile al brontolìo e alle fantasticaggini. È una colorita appendice di don Abbondio del quale rivela maggior saggezza. Il dialogo di Perpetua, ricco di proprietà "comaresche", è veloce, incisivo, istintivo. Perpetua muore durante la peste di Milano.

È la domestica di don Abbondio, ovvero una donna di mezza età che, avendo passati i quarant'anni (età stabilita dai Sinodi come quella minima per vivere in casa di un sacerdote) ed essendo rimasta nubile, accudisce il curato alloggiando nella sua abitazione: il suo nome proprio è poi diventato, per antonomasia, il nome comune che sino agli anni Cinquanta del XX secolo ha designato la domestica del sacerdote. Compare nel cap. I, quando il curato torna a casa in seguito all'incontro coi bravi, ed è descritta come una donna decisa ed energica, alquanto incline al pettegolezzo (è il motivo per cui don Abbondio è inizialmente restio a rivelarle il ricatto subìto) e dalla battuta salace, per cui rimprovera spesso al curato la sua debolezza e viltà. Ha un carattere spigoloso e sfoga di frequente il suo malumore con il padrone, del quale subisce peraltro "il brontolìo e le fantasticaggini" e con cui ha comunque un rapporto basato su una sorta di ruvido affetto ricambiato (sicuramente è il personaggio che meglio conosce il carattere e l'indole di don Abbondio). È un personaggio di secondaria importanza, protagonista soprattutto di duetti comici con il curato, anche se ha un ruolo decisivo nella vicenda in quanto è lei a far capire a Renzo la verità sul matrimonio rimandato (II); la sua indole ciarliera verrà poi sfruttata da Agnese, che la distrarrà la notte del "matrimonio a sorpresa" (VIII) con chiacchiere riguardanti il fatto che è rimasta zitella.  Curiosamente, nel Fermo e Lucia era inizialmente chiamata Vittoria (I, 1), per poi diventare Perpetua (I, 6) come nella versione definitiva.

A causa sia della mansione da lei svolta (come domestica di Don Abbondio), sia anche per il fatto di non essere riuscita a mantenere un segreto, il nome Perpetua è entrato nel linguaggio comune per indicare, a seconda del contesto, sia le donne che lavorano appunto nelle case dei parroci sia le donne particolarmente pettegole.






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