sabato 15 luglio 2017

NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE



L’immagine mariana della Madonna di Guadalupe rappresenta un eccezionale testimonianza catechetica, che permette anche agli indigeni più umili di comprendere l’essenza del mistero cristiano dell’incarnazione. La Madonna infatti vi appare con la pelle leggermente scura e sembianze meticce: indossa una tunica color rosa che porta disegnati dei motivi floreali simili l’un l’altro tranne uno, posto al centro del ventre. Quel simbolico fiore diverso dagli altri è un’immagine che richiama, nella tradizione indigena, la divinità. Inoltre indossa una cinta tipicamente utilizzata dalle donne in gravidanza. Gli indigeni che la guardano capiscono immediatamente che si tratta di una donna che sta portando in grembo Dio.

Secondo il racconto tradizionale, espresso in náhuatl nel testo conosciuto come Nican Mopohua, Juan Diego avrebbe visto per la prima volta la Madonna la mattina del 9 dicembre 1531, sulla collina del Tepeyac vicino a Città del Messico. Ella gli avrebbe chiesto di far erigere un tempio in suo onore ai piedi del colle: Juan Diego corse a riferire il fatto al vescovo Juan de Zumarrága, ma questi non gli credette. La sera, ripassando sul colle, Juan Diego avrebbe visto per la seconda volta Maria, che gli avrebbe ordinato di tornare dal vescovo l'indomani. Il vescovo lo ascoltò di nuovo e gli chiese un segno che provasse la veridicità del suo racconto.

Juan Diego tornò quindi sul Tepeyac dove avrebbe visto per la terza volta Maria, la quale gli avrebbe promesso un segno per l'indomani. Il giorno dopo, però, Juan Diego non poté recarsi sul luogo delle apparizioni in quanto dovette assistere un suo zio, gravemente malato. La mattina dopo, 12 dicembre, lo zio appariva moribondo e Juan Diego uscì in cerca di un sacerdote che lo confessasse. Ma Maria gli sarebbe apparsa ugualmente, per la quarta e ultima volta, lungo la strada: gli avrebbe detto che suo zio era già guarito e lo avrebbe invitato a salire di nuovo sul colle a cogliere dei fiori. Qui Juan Diego trovò il segno promesso: dei bellissimi fiori di Castiglia, sbocciati fuori stagione in una desolata pietraia. Egli ne raccolse un mazzo nel proprio mantello e andò a portarli al vescovo.

Di fronte al vescovo e ad altre sette persone presenti, Juan Diego aprì il mantello per mostrare i fiori: ed ecco, all'istante sulla tilma si sarebbe impressa e resa manifesta alla vista di tutti l'immagine della S. Vergine Maria. Di fronte a tale presunto prodigio, il vescovo cadde in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo Juan Diego accompagnò il presule al Tepeyac, per indicargli il luogo in cui la Madonna avrebbe chiesto Le fosse innalzato un tempio e l'immagine venne subito collocata nella cattedrale.

A causa della sua origine miracolosa, l'immagine della Madonna di Guadalupe è oggetto di devozione paragonabile a quella rivolta alla Sindone. La sua fama si sparse rapidamente anche al di fuori del Messico: nel 1571 l'ammiraglio genovese Gianandrea Doria ne possedeva una copia, dono del re Filippo II di Spagna, che portò con sé sulla propria nave nella battaglia di Lepanto. Negli anni venti del XX secolo i Cristeros, cattolici messicani che si erano ribellati al governo anticlericale, portavano in battaglia l'immagine della Virgen morenita sulle proprie bandiere.



Il mantello è del tipo chiamato tilma: si tratta di due teli di ayate (fibra d'agave) cuciti insieme. L'immagine di Maria è di grandezza lievemente inferiore al naturale, alta 143 cm. Le sue fattezze sono quelle di una giovane meticcia: la carnagione è scura. Maria è circondata dai raggi del sole e ha la luna sotto i piedi; porta sull'addome un nastro di colore viola annodato sul davanti che, tra gli aztechi, indicava lo stato di gravidanza; sotto la luna vi è un angelo dalle ali colorate di bianco, rosso e verde (i colori dell'attuale bandiera messicana), che sorregge la Vergine.

La figura ha caratteristiche particolari che la ricollegano alle divinità della religione azteca. Il mantello verde e blu che indossa la Madonna era anche un simbolo della divinità chiamata Ometeotl. La Luna è un simbolo ricorrente nelle raffigurazioni mariane e pagane, quasi sempre associato alle divinità femminili. Elemento non trascurabile è il luogo dell'apparizione, ovvero la collina di Tepeyac, sulla quale sorgeva un tempio dedicato ad una dea locale, la cui pianta sacra era proprio l'agave associata all'apparizione mariana.

Alcuni autori, che hanno eseguito degli studi scientifici sul mantello, sostengono che effettivamente l'immagine non sarebbe dipinta, ma acheropita (non realizzata da mano umana); essa presenterebbe inoltre caratteristiche particolari difficili da spiegare naturalmente. Altri autori sostengono il contrario.

Il telo (in fibra di agave) è di immagine grossolana: gli spazi vuoti presenti tra l'ordito e la trama sono così numerosi che ci si può guardare attraverso.
Nonostante in Messico il clima (caratterizzato da un'atmosfera ricca di salnitro) causi il rapido deterioramento dei tessuti (specialmente di quelli in fibra vegetale), la tilma invece si è conservata pressoché intatta per circa cinquecento anni.
L'immagine non ha alcun tipo di fondo, tanto che si può guardare da parte a parte del telo (questo è un elemento a sostegno dell'ipotesi che si tratti di un'immagine acheropita). Già nel 1666 la tilma fu esaminata da un gruppo di pittori e di medici per osservarne la composizione: essi asserirono che era impossibile che l'immagine, così nitida, fosse stata dipinta sulla tela senza alcuna preparazione di fondo, e inoltre che nei 135 anni trascorsi dall'apparizione, nell'ambiente caldo e umido in cui era conservata, essa avrebbe dovuto distruggersi. Nel 1788, per provare sperimentalmente questo fatto, venne eseguita una copia sullo stesso tipo di tessuto: esposta sull'altare del santuario, già dopo soli otto anni era rovinata. Al contrario l'immagine originale, a distanza di quasi 500 anni, è ancora sostanzialmente intatta.
La tecnica usata per realizzare l'immagine è un mistero: alcune parti sono affrescate, altre sembrano a guazzo altre ancora (certe zone del cielo) sembrano fatte a olio (elemento a sostegno dell'ipotesi che si tratti di un'immagine acheropita).
Gli Aztechi dipingevano i volti in modo elementare usando la prospettiva frontale o quella di profilo. La figura presente sulla tilma è, invece, rappresentata con la prospettiva di un volto leggermente piegato in avanti e visto di tre quarti. La realizzazione dell'immagine (se fosse stata realizzata da mano umana) richiede capacità superiori a quelle esistenti all'epoca in Messico; parimenti, nessun artista occidentale era attivo nella regione in quegli anni (elemento a sostegno dell'ipotesi dell'origine acheropita dell'immagine).
I caratteri somatici della donna raffigurata sono quelli tipici di una persona di sangue misto, meticcia. L'immagine risale a pochi anni dopo la conquista del Messico, quando il tipo meticcio era assolutamente minoritario. La Madonna del Guadalupe prefigura un tipo di popolazione che diverrà maggioritario sono dopo alcune generazioni. Rimane un mistero come il presunto autore abbia raffigurato in forma così perfetta un soggetto allora così poco diffuso (elemento a sostegno dell'ipotesi dell'origine acheropita dell'immagine).
La disposizione delle stelle sul manto azzurro che copre la Vergine non sembra casuale ma rispecchierebbe l'area del cielo che era possibile vedere da Città del Messico durante il solstizio d'inverno. Se ne accorsero per primi gli astronomi messicani dell'epoca.
Particolarità singolari presenti e riscontrate sugli occhi dell'immagine sono assolutamente inspiegabili se si ritiene che l'immagine sia stata realizzata da mano umana.

Nel 1791 si rovescia accidentalmente acido muriatico sul lato superiore destro della tela. In un lasso di 30 giorni, senza nessun trattamento, si sarebbe ricostituito miracolosamente il tessuto danneggiato.
Nel 1936 il chimico Richard Kuhn esaminò due fibre di colore diverso prelevate dal mantello: analizzate, non mostrarono la presenza di alcun pigmento.
Nel 1979 Philip Serna Callahan scattò una serie di fotografie all'infrarosso. L'esame di queste foto rivelò che, mentre alcune parti dell'immagine erano dipinte (potrebbero essere state aggiunte in un secondo momento), la figura di Maria era impressa direttamente sulle fibre del tessuto; solo le dita delle mani apparivano ritoccate per ridurne la lunghezza.
Nel 1951 il fotografo José Carlos Salinas Chávez dichiarò che in entrambe le pupille di Maria, fortemente ingrandite, si vedeva riflessa la testa di Juan Diego. Nel 1977 l'ingegnere peruviano José Aste Tonsmann analizzò al computer le fotografie ingrandite 2500 volte e affermò che si vedono ben cinque figure: Juan Diego nell'atto di aprire il proprio mantello, il vescovo Juan de Zumárraga, due altri uomini (uno dei quali sarebbe quello originariamente identificato come Juan Diego) e una donna. Al centro delle pupille si vedrebbe inoltre un'altra scena, più piccola, anche questa con diversi personaggi. Nella puntata di Voyager del 12 ottobre 2009, viene detto che i personaggi fino a quel momento trovati sono 13.

Elaborazioni fotografiche ottenute con tecnica di ripresa ai raggi infrarossi evidenziano alcuni ritocchi successivi e rendono lecita l'ipotesi che l'autore abbia realizzato il contorno della figura a mo' di schizzo, per poi colorarla.
Nel 1556, nel corso di un esame del mantello, fu affermato che l'effigie fosse stata dipinta dal “pittore indiano Marcos” (che alcuni studi riconducono a Marcos Cipac d'Aquino, un artista azteco dell'epoca) l'anno prima.
Nel 1982 José Sol Rosales esaminò il tessuto al microscopio e affermò che la colorazione dell'immagine è dovuta ad alcuni pigmenti già disponibili e utilizzati nel XVI secolo.
Le caratteristiche dell'immagine rispecchiano gli schemi dell'arte figurativa spagnola del XVI secolo, avente come oggetto le rappresentazioni mariane; la tradizione su Juan Diego invece, secondo alcuni studi, risalirebbe al secolo successivo.
L'esistenza stessa di Juan Diego è stata decisamente messa in dubbio, anche da importanti esponenti cattolici, nel periodo del processo di canonizzazione di Juan Diego, come ad esempio da Guillermo Schulemburg Prado, membro della Pontificia Accademia Mariana e primo amministratore (per trent'anni) della basilica di Guadalupe; dall'ex nunzio apostolico messicano, Girolamo Prigione; dall'arcivescovo polacco Edward Nowak, segretario della Congregazione per le Cause dei Santi ("sull'esistenza di questo Santo si sono sempre avuti forti dubbi. Non abbiamo documenti probatori ma solo indizi. Nessuna prova presa singolarmente dimostra che Juan Diego sia esistito", in un'intervista al quotidiano Il Tempo).
L'immagine che si vede nelle pupille ha una risoluzione troppo bassa per poter affermare con certezza che vi si vedano i personaggi che alcuni affermano di riconoscere. Gli scettici liquidano questa affermazione come un caso di pareidolia, la tipica tendenza umana a ricondurre a forme note degli oggetti o dei profili dalla forma casuale.

Alfonso Marcué, fotografo ufficiale dell'antica Basilica di Guadalupe di Città del Messico, ha scoperto nel 1929 quella che sembrava l'immagine di un uomo barbuto riflessa nell'occhio destro della Madonna. Nel 1951 il disegnatore José Carlos Salinas Chávez ha scoperto la stessa immagine mentre osservava con una lente d'ingrandimento una fotografia della Madonna di Guadalupe. L'ha vista riflessa anche nell'occhio sinistro, nello stesso posto in cui si sarebbe proiettato un occhio vivo.

Nel 1956 il medico messicano Javier Torroella Bueno ha redatto il primo rapporto medico sugli occhi della cosiddetta Virgen Morena. Il risultato: come in qualsiasi occhio vivo si compivano le leggi Purkinje-Samson, ovvero c'è un triplice riflesso degli oggetti localizzati davanti agli occhi della Madonna e le immagini si distorcono per la forma curva delle sue cornee.

Nello stesso anno, l'oftalmologo Rafael Torija Lavoignet ha esaminato gli occhi della Santa Immagine e ha confermato l'esistenza nei due occhi della Vergine della figura descritta dal disegnatore Salinas Chávez.

Dal 1979, il dottore in sistemi computazionali e laureato in Ingegneria Civile José Aste Tönsmann ha scoperto il mistero racchiuso dagli occhi della Guadalupana. Mediante il processo di digitalizzazione di immagini per computer, ha descritto il riflesso di 13 personaggi negli occhi della Virgen Morena, in base alle leggi di Purkinje-Samson.

Il piccolissimo diametro delle cornee (di 7 e 8 millimetri) fa escludere la possibilità di disegnare le figure negli occhi, se si tiene conto del materiale grezzo sul quale è immortalata l'immagine.

Il risultato di 20 anni di attento studio degli occhi della Madonna di Guadalupe è stata la scoperta di 13 figure minuscole, afferma il dottor José Aste Tönsmann.
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domenica 9 luglio 2017

LA C TOSCANA



La gorgia è uno dei fenomeni di variazione allofonica più indagati dell’italiano e, nel corso degli anni, non ha mancato di suscitare anche l’interesse di stranieri. Le prime attestazioni tra le fonti documentarie risalgono al periodo rinascimentale. Molti hanno nel tempo cercato di spiegare, con argomentazioni spesso molto distanti, l’origine di questo processo.

Le ricerche mostrano eterogeneità teorica e metodologica; è tuttavia possibile identificare un trattamento classico (sostratista o antisostratista), un trattamento sincronico e sociolinguistico, e infine un trattamento fonetico a orientamento acustico. I vari studi, in cui è ravvisabile una certa sequenzialità cronologica, differiscono non solo per impostazione metodologica ma soprattutto per le conclusioni interpretative cui pervengono. Un primo filone di studi, definito sostratista, a partire dal XIX secolo ha intravisto nella gorgia toscana l’azione determinante, o comunque tendenziale, del sostrato etrusco, lingua prelatina in cui vigeva l’opposizione grafica, e probabilmente fonologica, tra occlusive sorde non aspirate /p/, /t/ e /k/ e, rispettivamente, occlusive sorde aspirate /ph/, /th/ e /kh/ (cfr., tra tutti, Merlo 1927). La presenza in etrusco di suoni aspirati, insieme a una certa coincidenza geografica tra l’odierna Toscana e l’antica Etruria, sono soltanto alcuni degli argomenti considerati dai sostenitori dell’azione etrusca.

La tesi sostratista è stata in seguito fortemente ridimensionata (posizione antisostratista) e dagli anni Settanta del XX secolo definitivamente rigettata come non scientifica. Gli antisostratisti, tra i quali è opportuno citare almeno Rohlfs (1966: § 196) e Izzo (1972), confutano tutte le prove sostratiche, poiché fondate su presupposizioni non dimostrabili e non sostenute da considerazioni linguistiche di portata generale.

Successive sono le ricerche condotte in ambito dialettologico e sociolinguistico, le quali, in prospettiva sincronica, sostengono l’ipotesi, oggi la più accreditata, che la gorgia sia un fenomeno romanzo originatosi all’interno del volgare toscano nel basso medioevo. Secondo questo filone di studi (cfr. Giannelli 1983; Cravens 1983), la ricostruzione del toscano antico può essere avviata solo a partire dalle attuali condizioni fonetiche rilevabili sul territorio. L’interpretazione della gorgia, più che ancorata all’interferenza sostratica, si colloca così nel dominio dei fenomeni di variabilità linguistica e di bilinguismo.

Più precisamente, la gorgia riguarda le consonanti occlusive sorde (scempie) /k/ /t/ e /p/, che passano a fricative (o, più precisamente, approssimanti) in posizione postvocalica (e in assenza di raddoppiamento sintagmatico). Molti usano ancora il termine spirantizzazione.

La gorgia è un fenomeno fonetico diffuso nei dialetti toscani (noto anche come spirantizzazione o aspirazione toscana). È un processo di indebolimento che coinvolge le consonanti occlusive scempie determinando la perdita della fase di occlusione, motivo per cui le consonanti interessate sono pronunciate fricative o spesso approssimanti.



La gorgia è soggetta a varie restrizioni. La prima è di natura sillabica: l’occlusiva che subisce spirantizzazione deve obbligatoriamente occupare la posizione di attacco sillabico. Il processo infatti si attiva solo in posizione postvocalica: è questo il motivo per cui non si ha spirantizzazione in posizione iniziale assoluta, dopo pausa né in posizione post-consonantica. L’occlusiva può essere invece seguita da una vocale, da una consonante liquida  o da un legamento. In tali situazioni contestuali, la gorgia si manifesta tanto in corpo di parola quanto al confine di parola.

L’incidenza del fenomeno è proporzionale al grado di posteriorità dell’occlusiva; in termini percentuali la gorgia è più presente nelle occlusive velari /k/ e /g/ e progressivamente minore in quelle dentali /t/ e /d/ e infine in quelle bilabiali /p/ e /b/. Nei segmenti velari, in primis /k/, l’indebolimento può raggiungere il suo stadio più estremo, causando la cancellazione del suono, ad es., amico = a'mio.

La realizzazione della gorgia è regolare tra le occlusive sorde, mentre è variabile tra le sonore. Anche per /b/, /d/ e /g/ vige, comunque, il condizionamento operato dal luogo di articolazione: in contesto postvocalico, la presenza di una fricativa sonora o di un’approssimante è molto più frequente per /g/, meno per /d/ e /b/, le quali mostrano un comportamento oscillante. In modo parallelo, la spirantizzazione coinvolge anche le affricate /?/ e /?/ che per questo sono realizzate /?/ e /?/: ad es., facile='fa?ile, fragile =fra?ile.

A dispetto della sua denominazione, la gorgia non è presente in pari misura su tutto il territorio toscano, ma ha una distribuzione variabile. Il centro di irradiazione del fenomeno si identifica con il toscano centrale, corrispondente alle province di Firenze, Pistoia e Siena; in quest’area il processo è anche denominato spirantizzazione fiorentina.

Nei territori marginali, rappresentati dal toscano meridionale e orientale, dalla Garfagnana e dall’isola d’Elba, la gorgia ha distribuzione instabile, sebbene in progressiva espansione, come provano le indagini condotte nei centri di Bibbiena e di Cortona. Precisamente, nella Toscana meridionale (provincia di Grosseto) la spirantizzazione coinvolge prevalentemente /k/ e /t/, mentre al confine con il Lazio si ha per lo più la lenizione, un processo che riduce la forza articolatoria dell’occlusiva, determinando segmenti variamente sonorizzati. Nel lucchese e nel pisano-livornese (toscano nord-occidentale), l’occlusiva più coinvolta è /k/. Infine, nella fascia orientale (provincia di Arezzo), zona di transizione, le occlusive risultano caratterizzate da processi di lenizione e di sonorizzazione, sul modello umbro-laziale.

Sebbene il toscano centrale possa legittimamente considerarsi l’area in cui la gorgia trova la sua manifestazione massima, il processo non può essere postulato come regola obbligatoria, poiché è socialmente molto oscillante.

La realizzazione della gorgia varia secondo lo stile e il ritmo di elocuzione; il processo è più marcato negli stili meno controllati e veloci, anche tra parlanti della stessa area geografica. Non a caso la produzione di allofoni deboli, ovvero segmenti aperti e rilassati, come le approssimanti, è favorita da un contesto verbale poco sorvegliato. Il processo è comunque presente anche nei registri formali o tra le classi sociali più elevate. La pronuncia spirantizzata non è associata a giudizi negativi e non dà luogo a forme di stigmatizzazione sociale.

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domenica 2 luglio 2017

BERE DALLE LATTINE



Le lattine possono trasmettere malattie dal momento che dei germi si sviluppano sulla superficie esterna delle lattine, che non è sterile. E questa è un’eventualità che può riguardare qualsiasi contenitore alimentare, dalle bottiglie, al tetrapak, fino alle posate e ai bicchieri. Perché virus e batteri patogeni diventino un pericolo per la salute è però necessario che i “contenitori” siano conservati male. Solo in condizioni igieniche precarie (ad esempio lattine esposte alle intemperie o magazzini sporchi), infatti, si può correre il rischio che si contaminino”.

La contaminazione può fondamentalmente avvenire al momento della vendita delle lattine in negozi, bar e supermercati. Nelle prime fasi di trasporto e conservazione, infatti, le lattine sono avvolte nel cellophane e quindi è molto difficile che vengano a contatto con germi pericolosi. Il rischio cresce invece se prima della vendita le lattine sono conservate in luoghi polverosi o troppo umidi, e se vengono maneggiate con le mani sporche.

In genere virus e batteri non sopravvivono nell’ambiente per più di 24-48 ore.



Per evitare brutte sorprese vale la pena prendere qualche semplice precauzione. Innanzitutto è utile lavare con acqua e detersivo la superficie della lattina (e in particolare la linguetta che va a diretto contatto con il contenuto) prima di consumarne il contenuto, sia che si beva direttamente dalla lattina, sia che si versi la bibita in un bicchiere. Inoltre, sciacquare bene il detersivo prima di bere, e se si è fuori casa non bisogna utilizzare le salviettine detergenti per pulire la lattina, altrimenti si rischia di bere il detersivo: vale piuttosto la pena chiedere aiuto al barista. Attenzione anche a come si conservano le lattine a casa: bisogna riporle al fresco e all’asciutto senza mai lasciarle al caldo o esposte alla polvere e alle intemperie. Se sono state conservate in condizioni non ideali  è meglio buttarle indipendentemente dalla data di scadenza riportata sulla confezione.

Se ci si accorge di aver acquistato una confezione sporca, è legittimo chiedere al gestore del punto vendita la sostituzione della merce. Quanto ai produttori, in diversi casi adottano un coperchietto di plastica sul tappo delle lattine; altre ditte ricoprono il set di 6 lattine con un film plastico per proteggerle da polvere e altri materiali. Questi sistemi, che incidono in misura minima sui costi, sono graditi dai clienti e rappresentano un metodo intelligente per venire incontro alle esigenze del consumatore. In altri Paesi, c’è chi propone un sistema per cui, aprendo la linguetta, sbuca una cannuccia telescopica.
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