martedì 26 luglio 2016

I POKEMON



Pokémon è una parola macedone la cui traduzione è “mostri tascabili“. Si tratta di piccoli animaletti che nascono, crescono, si riproducono e muoiono. Esistono specie molto comuni, come Caterpie, Rattata, Paras, Krabby o Meowth. Ci sono poi Pokemon comuni, come Bulbasaur, Charmander, Squirtle, Pikachu o Metapod. La ricerca di queste creature è avvincente anche perchè esistono poi specie rare, che si possono ottenere solo con un allenamento costante e abbastanza lungo in ordine di tempo. E’ il caso di Butterfree, Dratini, Seaking, come pure Jolteon, Flareon o Magmar.

La lista Pokemon conta anche esemplari speciali o epici, come Ivysaur, Charmeleon, Tauros, Blastoise. Oppure ancora personaggi leggendari, come Ditto, Articuno o Mewtwo.

I “mostri tascabili” possono essere ispirati ad animali veri, come topi, volpi o tartarughe, oppure a personaggi leggendari come draghi. Alcuni personaggi sono stati proprio inventati e non ricordano nessun essere vivente che esista nel modo vero.

L’elenco Pokemon conta circa 700 creature. Queste sono curate e allevate dai loro Allenatori, che possono anche decidere di incontrarsi per sfidarsi con i rispettivi animaletti. I Pokemon non muoiono. Possono perdere una sfida perchè esausti e quindi incapaci di proseguire. Per rendere i propri mostriciattoli più forti, bisogna farli allenare. I Pokemon si evolvono quando hanno raggiunto la giusta esperienza, cambiando dimensioni e forma.

L’idea iniziale di Satoshi Tajiri è stata sviluppata fino a diventare due videogiochi per Game Boy. Pokémon Rosso e P. Verde uscirono in Giappone nel 1996. Un paio d’anni dopo i videogame furono commercializzati anche in Occidente ed Europa, e la versione Verde divenne Blu. All’inizio la storia dei Pokemon prevedeva che ciascun giocatore, sul proprio Game Boy, interpretasse un giovane allenatore. Questi girava per le varie città virtuali, cercando di catturare gli animaletti che vivevano in maniera selvatica. L’obiettivo era quello di catturare quanti più Pokemon con la sfera Pokéball, per poi allenarli e farli sfidare con altri esemplari.

I Pokémon potevano sfidare esemplari selvatici oppure allevati da altri allenatori. Inoltre potevano essere scambiati anche con quelli di altri giocatori.

L’obiettivo dei diversi videogiochi era quello di catturare quanti più Pokemon possibili. Al motto di Gotta catch’em ball (acchiappali tutti), i giocatori si sfidavano nelle varie palestre virtuali.

Inizialmente l’elenco ufficiale contava 151 esemplari. I mostri tascabili potevano essere molto piccoli, oppure enormi. Quasi tutti i personaggi, una volta allenati, si evolvono, cambiando forma e dimensione. Dopo i 151 Pokemon della Prima Generazione, si sono aggiunti altri esemplari. Oggi si contano più di 700 esemplari, molti dei quali nati negli ultimi mesi.

All’inizio degli anni 2000 in Italia è stata trasmessa anche la serie televisiva. Si trattava di un cartone animato che raccontava la storia di Ash Ketchum, un ragazzino che sogna di diventare il miglior allenatore di Pokémon al mondo. Inizia ricevendo il Pokedex e il suo primo Pokemon, Pikachu, che si rifiuta di entrare nella sua Pokeball.

La storia dei Pokemon inizia così, e proseguirà per circa 800 episodi. Ash, durante la sua avventura, sarà affiancato inizialmente da Misty, capopalestra di Celestopoli. Si unirà a loro anche Brock, che da capopalestra deciderà di prendersi cura dei simpatici animaletti diventando un medico. Jessie e James, insieme al Meowth, formano il Team Rocket, il cui obiettivo è quello di rapire Picachu per consegnarlo al loro capo. La trama prevede che il protagonista, accompagnato dai fedeli amici, proseguirà il viaggio. Durante gli 800 episodi della serie televisiva Pokemon, viene raccontata l’avventura di Ash, che sarà messo alla prova da continue sfide e tornei da superare.

Alcuni cristiani statunitensi credono che i Pokémon abbiano un'origine satanica. Dopo la pubblicazione della versione inglese di Pokémon Giallo negli Stati Uniti, le accuse fatte ai Pokémon sono state le seguenti:
I Pokémon si evolvono, in maniera analoga alla metamorfosi che porta un bruco a diventare una farfalla. Poiché l'evoluzione nega il creazionismo, i Pokémon negano alcune interpretazioni della Bibbia. Alcuni Pokémon necessitano inoltre di strumenti particolari, tra cui pietre "magiche", per effettuare l'evoluzione.
Molti Pokémon seguono e praticano concetti asiatici spirituali e mistici. Per esempio, alcuni praticano arti marziali, che per alcuni gruppi cristiani statunitensi è un passaggio che porta alle religioni pagane. Inoltre il mondo in cui è ambientato presenta le tradizioni asiatiche verso le forze degli elementi, essendo i creatori di origini giapponesi.
I Pokémon sono simili a demoni: possono essere catturati ed essere invocati per svolgere varie azioni (per esempio tagliare un albero, spingere una roccia o illuminare un luogo buio).
Alcuni Pokémon (per esempio Mismagius, Murkrow e Houndoom, che somiglia a Cerbero) ricordano stregoni o demoni.
Per controllarli (soprattutto quando sono a livelli molto alti) bisogna usare "talismani" magici (le medaglie ottenute nelle palestre).
Alcuni Pokémon possiedono poteri paranormali o psichici. Questi non derivano da Dio e quindi, secondo alcune dottrine cristiane, sono poteri donati da Satana.
Inoltre secondo alcuni nella sigla originale in inglese, se viene ascoltata al contrario (backmasking) la frase "gotta catch 'em all" è possibile udire "I love Satan" (amo Satana) o "oh Satan". Per questo motivo alcune organizzazioni cristiane credono che i Pokémon istighino al satanismo in modo subliminale.

Il Vaticano, attraverso il canale satellitare SAT2000, ha dichiarato che i giochi di carte e i videogiochi dei Pokémon «non hanno alcuna controindicazione morale» e «allenano i bambini alla fantasia e all'inventiva». Inoltre ha sottolineato che le storie «si basano sempre su un legame di amicizia intenso tra l'allenatore e il suo Pokémon».



Altre critiche sono giunte da membri della comunità ebraica, per l'uso della svastica, simbolo del nazismo, in modo inappropriato. La Nintendo ha dichiarato che è stato solo un malinteso, poiché la svastica o "manji", orientata in senso antiorario, in Oriente rappresenta il sole e viene usata come auspicio di buona fortuna dalla religione induista da circa 2000 anni. In Giappone, la svastica non è sempre associata al nazismo (che usava come simbolo una svastica in senso orario), ma può indicare un tempio buddista allo stesso modo dell'obelisco (†) che in occidente indica una chiesa.

Il manji è presente solo nella versione giapponese di una carta del Pokémon Trading Card Game ("Koga's Ninja Trick" appartenente al set Gym Challenge, in cui sono presenti i Pokémon Golbat e Ditto) che non venne pubblicata nel mercato statunitense. Tuttavia, alcuni gruppi ebraici attaccarono le versioni giapponesi arrivate negli USA attraverso importazioni non autorizzate, sebbene il manji abbia i rembi rivolti in direzione opposta alla svastica nazista. Per questo motivo la Nintendo interruppe l'uso del simbolo nella versione giapponese. Questo causò, in Giappone, una violenta reazione pubblica per l'intolleranza dimostrata nei confronti dei simboli della religione buddista.

I Pokémon sono stati anche attaccati nel 2001 dagli islamici. In Arabia Saudita il gioco di carte è stato criticato perché promuoveva il gioco d'azzardo. Tuttavia nei paesi moderati, ad esempio Turchia e Pakistan, non ci fu nessuna minaccia. Invece una fatwa, un editto religioso, indetta da uno sceicco saudita, incitò i musulmani a stare attenti al gioco, poiché venne notato che in molte carte sono presenti «stelle a sei punte, simbolo del sionismo internazionale e dello Stato d'Israele» (in riferimento al simbolo "energia incolore").

Il 38º episodio della prima serie ha causato 685 casi di epilessia. Dopo questo incidente la Nintendo mise un avviso nei videogiochi riferito ai soggetti affetti da epilessia fotosensitiva.

Alcuni hanno messo a confronto il meccanismo originario delle lotte tra Pokémon e la pratica, fuorilegge, del combattimento tra galli. Da questo punto di vista, il gioco si fonda principalmente sul fatto che gli allenatori di Pokémon devono catturare e far combattere tra loro animali selvatici. Inoltre le pozioni e gli altri oggetti, che servono a curare o a migliorare l'abilità del Pokémon durante le lotte, sono considerate al pari delle droghe e delle sostanze stupefacenti. Alcuni pensano che ciò inciti i bambini alla crudeltà verso gli animali o verso il gioco d'azzardo.

Tuttavia, molti fan della serie vedono gli scontri come una competizione amichevole tra due squadre di Pokémon e tra i loro allenatori. Da questo punto di vista, gli allenatori non costringono i Pokémon a sfidarsi a tutti i costi. Nonostante esistano Pokémon territoriali (ad esempio Pidgeotto), la loro aggressività è completamente differente da quella dei galli da combattimento, che lottano fino a quando uno dei due muore.

In occasione dell'uscita statunitense di Pokémon Nero 2 e Bianco 2 il PETA ha prodotto un minigioco dal titolo Pokémon Black & Blue. Nella parodia sono presenti vari Pokémon, tra cui Pikachu e gli starter Tepig, Snivy ed Oshawott, alcuni personaggi dei videogiochi della quinta generazione (Komor, Professoressa Aralia e Ghecis) oltre all'Infermiera Joy ed Ash Ketchum. Sono state inoltre prodotte alcune carte fittizie del Pokémon Trading Card Game raffiguranti i personaggi del minigioco. Secondo Nintendo e The Pokémon Company il PETA avrebbe effettuato un "uso improprio dei loro prodotti".

Il Pokémon Jynx originariamente aveva una pelle scura, poiché era una parodia di una moda giapponese, il ganguro, o yamanba, in voga nel periodo dell'uscita del videogioco. Molti afroamericani, tra cui la scrittrice Carole Boston Weatherford, accusarono il videogioco di fornire, attraverso il Pokémon, un'immagine stereotipata delle persone di colore. Nel 2002, in risposta a questa controversia, la Nintendo cambiò il colore del Pokémon rendendo viola sia le mani che il viso.

Una controversia simile ha coinvolto la capopalestra Aloé. In uno dei primi disegni, il personaggio indossava un lungo grembiule in seguito rimosso poiché l'elemento richiamava le Mammy afroamericane. Sebbene nel videogioco e nell'anime in cui appare Aloé sia presente il grembiule, tale indumento è stato eliminato in tutte le scene nel corso della trasmissione statunitense dell'episodio.

Nel novembre del 2000 Uri Geller affermò che Kadabra (il cui nome originale giapponese, Yungerer, si ritiene possa derivare da quello di Geller) era "un Pokémon malvagio e occulto" e che la Nintendo aveva rubato la sua identità usando il suo nome. Geller, che inoltre riteneva i segni a forma di S sul corpo del Pokémon un richiamo alle SS naziste, perse la causa.

Nello stesso anno la Morrison Entertainment Group portò la Nintendo in tribunale per via della somiglianza tra "Pokémon" e "Monster in my pocket". L'avvocato di Morrison, commentando la perdita della causa, ha dichiarato «stiamo fallendo poiché tutti pensano che Monster in My Pocket sia un plagio dei Pokémon».

Nel 1999 è stata avviata una class action contro Nintendo, Wizards of the Coast e 4Kids Entertainment, accusate di promuovere il gioco d'azzardo mediante la vendita di carte da gioco collezionabili.

Nelle versioni europee di Pokémon Platino e Pokémon Oro HeartGold e Argento SoulSilver sono state rimosse le slot machine. Negli ultimi due titoli è stato inoltre inserito un minigioco, denominato "Gira Voltorb", a causa della legislazione riguardante il gioco d'azzardo. A partire dai videogiochi della quinta generazione è assente il casinò, eliminato anche da Pokémon Rubino Omega e Zaffiro Alpha, remake di Pokémon Rubino e Zaffiro.


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domenica 24 luglio 2016

POKEMON GO



Pokémon Go è il gioco per smartphone che permette di giocare ai Pokémon sfruttando la realtà aumentata (utilizzando cioè la geolocalizzazione e la propria fotocamera per trovare e catturare i Pokémon nel mondo vero).

Creato con la collaborazione di Game Freak, The Pokémon Company e Nintendo, il gioco utilizza la realtà aumentata e la tecnologia GPS. Pokémon Go è compatibile con una periferica Bluetooth denominata Pokémon Go Plus, dispositivo progettato e realizzato da Nintendo. Pokémon Go Plus ha la forma di segnaposto di Google Maps.

All'inizio del gioco viene consegnato un Pokémon iniziale tra Bulbasaur, Charmander e Squirtle. Il protagonista può incontrare e catturare Pokémon selvatici o affrontarli all'interno di palestre. È possibile ottenere Poké Ball e altri strumenti utilizzando le monete del gioco, che possono essere acquistate all'interno dell'applicazione.

Apple ha dichiarato che Pokémon Go è stata l'applicazione mobile più scaricata dell'App Store nella settimana di lancio, superando i precedenti record di download. Sia Apple che Nintendo hanno tratto vantaggio economico per gli acquisti in-app, incrementando il valore delle loro azioni. Secondo alcune analisi Pokémon Go ha superato come numero di utenti attivi connessi in contemporanea i videogiochi Candy Crush Saga e Draw Something e come tempo di uso le applicazioni relative ai social network come Facebook, Twitter, Snapchat, Instagram e Tinder.
Giocare a Pokémon Go non è molto difficile: basta camminare con l’app aperta sullo smartphone, aspettare che compaia un Pokémon e lanciargli una Pokéball.
Il gioco però ha anche altri obiettivi: una volta raggiunto il livello 5, i giocatori possono cominciare a interagire con le palestre. Il gioco chiede di scegliere una squadra a cui unirsi: ci sono la Squadra Coraggio (rossa), la Squadra Saggezza (blu) e la Squadra Istinto (gialla). Capita anche che la palestra sia occupata dai giocatori di un’altra squadra: in quel caso si può provare a conquistarla, anche se non è una cosa facile, soprattutto se non avete ancora Pokémon forti nella vostra squadra, magari perché avete cominciato a giocare da poco. Qui abbiamo raccolto un po’ di trucchi per prepararvi al meglio alle vostre prime lotte nelle palestre ed ottenere Pokémon più forti da far lottare.

Può sembrare una cosa scontata, ma più è alto il livello che si è raggiunto e più si hanno possibilità di vincere le lotte in palestra. Un livello alto permette anche di catturare i Pokémon più forti in giro (se volete sapere dove si trovano con precisione i Pokémon nella vostra città, questa app vi sarà utile). Il modo più semplice, e più noioso, di crescere di livello è catturare qualsiasi Pokémon, anche quelli già catturati in precedenza o molto deboli. Ogni Pokémon catturato dà almeno 100 PE (Punti Esperienza). Un altro modo per ottenere PE consiste nel fermarsi a ogni Pokéstop che si incontra per strada, dove oltre a varie Pokéball e altri strumenti si ricevono 50 PE.

Guadagnare PE extra può essere molto semplice, se fate attenzione quando catturate un Pokémon. Quando vi appare davanti un Pokémon tenete il dito premuto sulla Pokéball e vedrete un cerchio verso cui mirare che si restringe. Se lo colpirete non solo avrete più possibilità che il Pokémon rimanga chiuso nella Pokéball, ma otterrete anche 10 PE.
Una cosa importante da tenere in considerazione è il colore del cerchio. Se è verde vuol dire che il Pokémon è facile da catturare, se è rosso tenerlo chiuso nella Pokéball potrebbe essere più complicato. In questo caso potreste dover usare una Megaball.
Un altro modo per avere PE in più è lanciare una Pokéball con una traiettoria curva (che dà 10 PE extra). Per fare un lancio curvo tenete il dito premuto sulla Pokéball e fate dei piccoli cerchi. Quando lancerete la sfera verso il Pokémon che volete catturare verrà fuori un lancio curvo.

C’è un piccolo trucco per ottenere una gran quantità di PE con poco sforzo, e salire di livello molto rapidamente: tutto quello che vi serve sono dei Pidgey e un Fortunuovo. In Pokémon Go le Fortunuova si possono ricevere gratuitamente quando si raggiungono i livelli 9, 10, 15, 20 e 25, oppure comprandole nel Negozio del gioco (non c’entrano nulla con le uova di Pokémon che si possono far schiudere camminando).
Una volta attivate, queste particolari uova fanno guadagnare al giocatore il doppio dei PE per 30 minuti. Il trucco per sfruttare al meglio le Fortunuova è di attivarle quando si fanno evolvere i propri Pokémon. L’evoluzione di un Pokémon fa guadagnare PE, ma per effettuarla bisogna consumare delle caramelle. Il Pokémon più facile da far evolvere è Pidgey, uno dei Pokémon più comuni, la cui evoluzione ha bisogno solo di 12 caramelle che possono essere accumulate semplicemente catturando tre Pidgey e trasferendoli al professore (si guadagnano 3 caramelle per la cattura e 1 per il trasferimento).
Catturate quindi sempre tutti i Pidgey che trovate, trasferitene alcuni e tenetene altri. Quando avrete un buon numero di Pidgey e di caramelle potrete attivare il Fortunuovo e sfruttare i PE doppi di quei 30 minuti. Poiché ogni Pidgey evoluto dà diritto a 500 PE, e in 30 minuti se ne possono evolvere fino a 60, avrete con poca fatica guadagnato 30.000 PE.




Iscriversi a una palestra può essere molto importante nello svolgimento del gioco. Qui è possibile allenare i propri Pokémon e farli salire di livello. Inoltre per ogni giorno che si passa in una palestra si riceve della polvere di stelle, fondamentale per far evolvere i propri Pokémon.
Se una palestra è stata conquistata da un team diverso dal proprio bisognerà lottare contro i Pokémon che sono stati messi in sua difesa e batterli diverse volte, per fare scendere a 0 il punteggio del prestigio della palestra. La palestra diventa quindi bianca, e il primo giocatore che mette un Pokémon a difenderla la conquista. Quando cliccate su una palestra si può vedere il livello dell’allenatore che la difende e dei Pokémon con cui vi dovrete battere; ma lottare contro dei Pokémon molto più forti dei propri può essere controproducente.
Un Pokémon con dei PL (Punti Lotta) più alti vincerà quasi sicuramente contro un Pokémon con meno PL. Potrebbe succedere anche il contrario, ma sarebbe solo un’eccezione. I Pokémon sconfitti perdono PS (Punti Salute), che è possibile ripristinare solamente attraverso le pozioni e i revitalizzanti. Le pozioni permettono di recuperare il 20 per cento dei PS, mentre i revitalizzanti rianimano i Pokémon esausti e restituiscono il 50 per cento dei PS. Pozioni e revitalizzanti non sono infiniti, ma vanno o conquistati o comprati: non rischiate inutilmente di rimanere con Pokémon esausti andando a lottare contro avversari più forti di voi.

Un’altra cosa da considerare è la scelta dei Pokémon con cui lottare in palestra. Un Pokémon Erba è debole contro un Pokémon Fuoco, un Pokémon Fuoco è debole contro uno Acqua e così via. Conoscere le caratteristiche e le debolezze dei propri Pokémon può essere molto utile durante una lotta.
Quando avete scelto il Pokémon da usare, potete attaccare l’avversario in due modi: se fate un semplice “tap” sull’avversario sferrate un attacco semplice; se fate un “tap” prolungato vi esce un attacco speciale. Per difendersi dagli attacchi avversari si deve fare “swipe”, cioè spostare con il dito il proprio Pokémon a destra o sinistra per evitare di essere colpiti. La velocità con cui fate “tap” o “swipe” farà la differenza in una vostra vittoria o sconfitta. Tra due Pokémon di livello simile vincerà quello che è stato più veloce ad attaccare e difendersi.

Non solo una moda, non solo un gioco, ora Pokémon Go è diventato anche un lavoro. E un mestiere, peraltro, molto ricercato. Lo annuncia il sito ProntoPro.it che ha appena lanciato un servizio per mettere in contatto cacciatori esperti ed appassionati. Il primo "allenatore" iscritto ha 27 anni ed è di Ravenna, ma sono bastate poche ore per raccogliere decine di richieste. E in media chi dà la caccia ai mostriciattoli per conto terzi guadagna 15 euro l'ora.

Cento cinquantuno sono in totale i Pokémon da catturare. La caccia ai mostriciattoli Nintendo ha riempito le strade di tutto il mondo, ed è davvero obiettivamente difficile riuscire a prenderli tutti: bisogna avere tempo a disposizione, voglia di camminare e molta intraprendenza per trovare quelli più rari. Come fare, quindi, a salire di livello quando gli impegni quotidiani riempiono le giornate e non si ha tempo nemmeno per una breve passeggiata? Ecco l'idea del portale, che mette in contatto domanda e offerta di lavoro professionale e artigianale, con il lancio del primo servizio nazionale di gioco Pokémon Go.

In pratica, è possibile pagare qualcuno per giocare per conto terzi, fino a 2 ore alla volta, per catturare nuovi Pokémon, far salire di livello il cliente attraverso le battaglie in palestra, covare le uova Pokémon o conquistare una Poké Gym nemica. Per trovare gli allenatori basterà digitare "Pokémon" nella barra di ricerca del portale e compilare il form.

Per permettere agli allenatori esperti di giocare, il cliente potrà scegliere se prestare il proprio cellulare o condividere i dettagli del proprio accesso a Gmail. In entrambi i casi, ProntoPro.it suggerisce di prendere le dovute precauzioni, come ad esempio quella di farsi consegnare i documenti dell'allenatore che saranno restituiti alla fine della passeggiata.
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sabato 23 luglio 2016

CUPIDO

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Dio dell’amore – chiamato dagli antichi Romani Cupido (dal nome comune cupido -dinis «bramosia») corrispondente al dio greco Eros, rappresentato come un fanciullo alato armato di arco e di frecce con le quali feriva le divinità e gli uomini, suscitando in loro la passione amorosa.

Cupido da sempre ha giocato un ruolo importante nel festeggiare l’Amore e gli innamorati.

Cupido, figlio di Venere (dea della bellezza) e di Marte (Dio della guerra).

Innamorato della giovane Psiche che venne immortalata nell'Olimpo come sua sposa.

Si racconta che Venere fosse gelosa della bellezza di Psiche ed ordinò al figlio di punire la ragazza, ma egli, anzichè eseguire l'assurda pretesa della madre, se ne innamorò.



Cupido la teneva nascosta nel folto di una selva, dove andava a trovarla solo di notte, senza farsi vedere nel suo vero aspetto neppure da lei, che, anzi, aveva ammonito a non voler sapere chi egli fosse, né di vederlo mai, altrimenti il loro amore sarebbe per sempre svanito.
Psiche, una notte, non resisté alla tentazione e, al lume di una lucerna, sostò a lungo ad ammirarlo mentre dormiva, rapita nell’incanto della sua bellezza. Ad un tratto però una goccia d’olio cadde dalla lucerna sulla spalla del dio, che, svegliatosi, sparì all’improvviso.
Invano la giovinetta pianse e si disperò; invano pregò Venere che le rendesse lo sposo. Venere anzi, gelosa della bellezza di Psiche che eguagliava la sua, la fece sua schiava e la tormentò con umiliazione di ogni genere, imponendole incarichi che era impossibile portare a compimento. Ogni volta Psiche si disperava, ma sempre, all’ultimo momento, un essere misterioso l’aiutava, in modo da placare l’incontentabile dea. Alla fine anche lei si impietosì della sventurata fanciulla innamorata e le fece ritrovare Cupido.



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venerdì 22 luglio 2016

COLPO DI FULMINE

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Ci si incontra con gli occhi, ma la freccia di Cupido scocca col sorriso, emblema di fiducia ed affidabilità. Il colpo di fulmine esiste e, se ci si crede, può durare per sempre. Senza scomodare i moltissimi casi letterali classici, uno fra tutti quello fra Romeo e Giulietta di William Shakespeare.

Sarebbero 3 i fattori che danno credito all’amore istantaneo: sentirsi attratti fisicamente, reputare desiderabile la personalità dell’altro e essere empatici, cioè sentirsi simili. Punto centrale del colpo di fulmine, però, non sono gli occhi come vorrebbe il detto ‘amore a prima vista’ ma il sorriso. Se lo sguardo analizza per primo chi si ha di fronte, il sorriso è una dichiarazione d’amore. “Il sorriso indica una totale apertura verso l’altro e chi lo fa viene interpretato come più affidabile, rassicurante, accogliente”.

Il colpo di fulmine, infine, non ha niente a che vedere con una scappatella. Gli esperti spiegano che l’amore a prima vista è profondamente romantico e differisce dal flirt o dal rapporto sessuale fine a se stesso tanto che gli antropologi lo definiscono tale se dura almeno 18 mesi.

Secondo Stephanie Ortigue, docente della Syracuse University (USA), sentimenti di amore possono verificarsi già 0,2 secondi dopo il primo contatto visivo con qualcuno. Secondo Ortigue, questo sentimento di amore si sviluppa in dodici aree del cervello (individuate con risonanza magnetica funzionale) che lavorano insieme per rilasciare sostanze chimiche che inducono euforia - come dopamina, ossitocina, adrenalina e vasopressine - e può avvenire così velocemente da meritarsi la definizione di amore a prima vista.

Un altro studio di Helen E. Fisher, ricercatrice presso l'Istituto Kinsey, pubblicato sul Journal of Physiology, afferma che l'innamoramento a prima vista non solo esiste, ma ha uno scopo ben preciso: potrebbe essere una scorciatoia per assicurarsi la prosecuzione della specie. Secondo Fisher: «Anche l'amore a prima vista è una risposta dei mammiferi che si sviluppa in altri animali e che i nostri padri ereditarono per accelerare il processo di accoppiamento». Che le commedie romantiche, dunque, non siano poi così campate in aria?

Gli psicologi Mylene Bolmont, John T. Cacioppo e Stephanie Cacioppo, pionieri delle ricerche sulla fisiologia e i meccanismi dei sentimenti, hanno condotto uno studio presso l'Università di Ginevra per capire se lo sguardo che rivolgiamo a un potenziale partner è diverso se quella persona ci attrae dal punto di vista romantico o da quello sessuale. Il risultato è che se ci fermiamo con lo sguardo sul volto di uno sconosciuto, vediamo quella persona come un potenziale partner in amore. Ma se guardiamo di più il suo corpo, nei suoi confronti è più forte il desiderio sessuale.
 Ma è sbagliato pensare che l'amore sia solo questione di chimica. Dal punto di vista scientifico, secondo Stephanie Cacioppo: «l'amore non solo un istinto primordiale e un'emozione, ma un complesso stato mentale emotivo che coinvolge quattro dimensioni: chimica, conoscenza, preferenza e intenzione di stare con quella persona».
Ayala Malack-Pines, psicologa della Ben-Gurion University in Israele, nel suo libro Falling in Love (Innamorarsi) scrive che solo una piccola frazione (11%) delle persone coinvolte in relazioni a lungo termine dichiara che il loro è stato un amore a prima vista. In pratica solo in una coppia su 10 le impressioni favorevoli iniziali innescherebbero un legame che può durare a lungo.

I più sensibili al colpo di fulmine sono i maschi: 1 uomo su 4 crede nell'amore a prima vista e dice di capire in pochi secondi se la ragazza che lo ha stregato sarà la donna della sua vita.

Dal punto di vista scientifico, l’innamoramento è un insieme di stati emotivi, di affetto e attrazione sessuale che portano ad un attaccamento nei confronti di una persona, destinataria di tali sentimenti. Alcuni evoluzionisti definiscono l’innamoramento come nato dalla necessità di mantenere uniti dei gruppi familiari affinché ci si potesse occupare in due (e meglio) della prole, cui trasmettere cultura e usi attraverso la parola. Ne scaturisce una maggiore selezione del partner, scelto in base a caratteristiche non solo fisiche ma anche caratteriali e relazionali all’interno della società. Generalmente, ad essere scelto è l’individuo migliore da molteplici (e soggettivi) punti di vista: torace ampio e muscolatura importante per gli uomini, capacità fecondative per le donne. A questi fattori si aggiungono il successo sociale ed economico o la capacità di allevare dei figli a completare i requisiti secondo i quali al partner scelto si affideranno i propri geni. Secondo gli scienziati, tutte queste valutazioni avvengono a livello inconscio e in un tempo ben determinato: un quinto di secondo.
Negli USA, l’équipe di studiosi dell’università di Syracuse, nello stato di New York, ha condotto una ricerca finalizzata a cronometrare in quanto tempo ci si innamora di qualcuno. Nei 20 centesimi di secondo a partire dal momento in cui osserviamo l’altro/a scattano nel cervello dei processi chimici che rilasciano nel corpo delle sostanze – ossitocina, adrenalina e dopamina – in grado di provocare una sensazione di benessere ed eccitazione simile all’effetto di droghe, afferma la coordinatrice la Dottoressa Stephanie Ortigue. Dodici sono le aree del cervello coinvolte in tale processo, a dimostrazione del fatto che l’innamoramento (e l’eventuale sentimento d’amore) nascono proprio dalla mente e non dal cuore, come i romantici vorrebbero pensare. inoltre, quando si soffre per amore, la condizione psicofisica che viene a crearsi è simile a quella degli stati depressivi: attenzione quindi a non sottovalutare gli effetti negativi di una delusione d’amore e le conseguenze emotive che porta con sé.



Prima di questo studio, la celebre rivista americana Archives of sexual behavior aveva pubblicato una ricerca per stabilire in quanto tempo ci si rende conto di essere attratti da qualcuno/a. I risultati sono diversi per uomini e donne: i signori che si incantano a guardare una “preda” per più di 8 secondi manifestano un interesse chiaro e finalizzato al “rimorchio”; se lo sguardo dura circa 4 secondi, vuol dire che l’interesse non c’è. Al contrario, una donna che osserva un uomo per una manciata di secondi non indica proprio niente: infatti, a causa dei giudizi morali attribuiti alle signore che sostengono sguardi languidi con l’altro sesso, farsi sorprendere a guardare un uomo che suscita interesse è sconveniente, quindi accuratamente evitato. Di conseguenza, la regola degli 8 secondi non vale per il gentil sesso, che mostra interesse sì dagli occhi, ma in una maniera poco chiara ai più (donne escluse, ovviamente).

In molti commettono l’errore di pensare che, conseguentemente ad un colpo di fulmine e un innamoramento, l’amore sia dietro l’angolo. Sebbene il colpo di fulmine sia d’aiuto nella nascita di un sentimento intenso e profondo, non è la condizione necessaria senza la quale non si può dire di aver trovato l’anima gemella. Nel corso della vita, tutti possono dire di essere “stati fulminati” almeno una volta ma non altrettanti possono affermare di aver trovato la persona con la quale condividere la quotidianità. Questa corrisponde a dei criteri di selezione che vanno oltre l’aspetto fisico: le sostanze prodotte dal cervello in quel quinto di secondo di cui abbiamo descritto le gesta possono essere prodotte anche in seguito ad una conoscenza approfondita del partner nel corso di molto più tempo trascorso insieme. Quindi, sebbene il colpo di fulmine esista – e ne sono convinti 8 italiani su 10 – bisogna essere in grado di dissociarsi dalla convinzione che sia necessariamente sintomo di amore, quello vero, che dura per tutta la vita.

Non fatevi ingannare dalla leggenda dell’anima gemella e dal conseguente mito del colpo di fulmine come garanzia del vero amore. Se le due cose coincidono, tanto meglio, altrimenti non insistete nel cercare la persona giusta in base a un colpo di fulmine, perché non è detto che la relazione duri più di una semplice passione passeggera.

Al contrario di quanto vuole il senso comune, ambiscono all’amore romantico che nasce al primo incontro soprattutto gli uomini: secondo il rapporto annuale ‘Singles in America’ svolto su 5.000 singles dai 21 ai 70 anni, il 59% degli uomini e il 49% delle donne nel 2014 ha dichiarato di crederci , il 41% degli uomini e il 29% delle donne lo ha sperimentato. A sorpresa le singles sono più scettiche e gli uomini più sognatori.



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martedì 19 luglio 2016

IL TESORO DI ALARICO



Cupi a notte canti suonano Da Cosenza su 'l Busento, Cupo il fiume gli rimormora Dal suo gorgo sonnolento. Su e giù pe 'l fiume passano E ripassano ombre lente: Alarico i Goti piangono Il gran morto di lor gente. Ah sì presto e da la patria Così lungi avrà riposo, Mentre ancor bionda per gli omeri Va la chioma al poderoso! Dal Busento ecco si schierano Su le sponde i Goti a pruova, E dal corso usato il piegano Dischiudendo una via nuova. Dove l'onde pria muggivano, Cavan, cavano la terra; E profondo il corpo calano, A cavallo, armato in guerra. Lui di terra anche ricoprono E gli arnesi d'or lucenti; De l'eroe crescan su l'umida Fossa l'erbe dei torrenti! Poi, ridotto ai noti tramiti, Il Busento lasciò l'onde Per l'antico letto valide Spumeggiar tra le due sponde. Cantò allora un coro d'uomini: Dormi, o re, nella tua gloria! Man romano mai non violi La tua tomba e la memoria! Cantò, e lungo il canto udivasi Per le schiere gote errare: Recal tu, Busento rapido, Recal tu da mare a mare.
(August Graf von Platen, 1820)
(tradotta in italiano da Giosuè Carducci)


Alarico compare per la prima volta nelle cronache a vent'anni nel 390 quando, giovane principe della dinastia dei Balti, guidò i Visigoti, gli Unni ed altre tribù provenienti dalla sponda sinistra del Danubio nell'invasione della Tracia, culminata con il saccheggio di quella provincia. L'imperatore romano Teodosio I nel 391 intervenne personalmente, ma cadde in un'imboscata sul fiume Maritza, dove rischiò la vita. Nel 392 i Visigoti di Alarico vennero circondati sulla Maritza dal generale Stilicone, ma l'imperatore Teodosio li perdonò e li lasciò tornare nella loro provincia (la Mesia) rinnovando con loro il trattato già stipulato nel 382.

Alla Battaglia del Frigido (tributario del fiume Isonzo), combattuta il 5 settembre del 394, tra Teodosio e Flavio Eugenio, mentre le truppe di foederati erano comandate dal goto Gaina, Alarico servì fedelmente l'imperatore a capo dell'avanguardia costituita da truppe visigote che subì gravissime perdite. Dopo la vittoria, però, Alarico non ottenne il grado di magister militum dell'esercito romano che gli era stato promesso. Anzi, alla morte dell'imperatore, il 17 gennaio 395, il generale Stilicone inviò i Goti nella loro provincia e non pagò loro il tributo annuale che Roma gli versava. Questi fatti contribuirono a compromettere la pace che era stata raggiunta tra Goti e Romani e a fare ricominciare le ostilità.

Alarico, nel 395, fu proclamato re dei Visigoti e dichiarandosi indignato per la mancata nomina a magister militum, li guidò nell'invasione della Tracia, poi si ritirò verso la Macedonia, dove fu sconfitto al Peneo, quindi invase la Tessaglia, dove fu fermato dal generale Stilicone, reggente dell'Impero romano d'Occidente, per conto dell'imperatore Onorio, coadiuvato dal goto Gaina, comandante dell'esercito dell'Impero romano d'Oriente. Ma l'imperatore Arcadio chiese a Stilicone di rientrare in Occidente e a Gaina di rientrare a Costantinopoli, lasciando un contingente alle Termopili per difendere la Grecia.

Alarico, forse per merito del tradimento, si impossessò del famoso passo e attraversò la Beozia e l'Attica, occupò Il Pireo e costrinse Atene alla resa e lì soggiornò pacificamente senza saccheggiarla. Poi si diresse a Eleusi, dove distrusse il tempio di Demetra, determinando la definitiva interruzione delle celebrazioni dei Misteri eleusini. Nel corso del 396, tutto il Peloponneso fu occupato, Corinto, Argo, Sparta e molti altri siti subirono la violenza e le devastazioni dei Visigoti.

Nel 397, Stilicone sbarcò a Corinto con un esercito e cacciò i Visigoti dall'Arcadia e li accerchiò ad Elice. Ma, ancora una volta, richiamato per una rivolta in Africa, risparmiò Alarico, anzi si accordò con lui, per averlo alleato contro l'impero d'oriente. Alarico allora si ritirò sulle montagne verso il nord dell'Epiro, dove Arcadio, nel 399, gli offrì del denaro e lo nominò magister militum dell'Illyricum, in pratica Governatore dell'Epiro già occupato, concludendo così la pace. Alarico approfittò della collaborazione con l'impero d'oriente per rafforzarsi, soprattutto riarmò i Visigoti negli arsenali romani.

Nel corso del 400, Alarico lasciò l'Epiro e passando da Aemona, nel 401 arrivò in Italia, e da Aquileia si diresse su Mediolanum, dove si trovava l'imperatore Onorio, ma fu fermato a Pollenzo (402), dove la moglie e i figli di Alarico furono fatti prigionieri da Stilicone, che nominò Alarico magister militum purché lasciasse l'Italia. Dopo essere uscito dall'Italia, Alarico non si allontanò dai confini, e nel 403 rientrò, assediando Verona, dove venne sconfitto da Stilicone, e mentre tentava di crearsi un varco per uscire dall'Italia venne abbandonato dal principe Saro, che passò agli ordini di Stilicone. Alarico nel 404 dovette venire a patti con Stilicone, con cui rinnovò il patto di alleanza contro l'impero d'oriente, e dovette rientrare in Epiro. Ma presto abbandono l'Illiria per stabilirsi tra il Norico e la Pannonia. Comunque il magister militum dell'Impero romano d'Occidente, Stilicone, acconsentì di pagare un tributo ad Alarico per non avere problemi ai confini orientali, volendo recarsi a Costantinopoli dove l'imperatore d'oriente Arcadio era morto il primo maggio del 408.

In seguito alla condanna a morte di Stilicone (23 agosto 408), accusato di tradimento, Alarico dapprima chiese un tributo all'imperatore di Occidente Onorio per lasciare il Norico e trasferirsi in Pannonia. Al rifiuto di Onorio, Alarico (alla fine del 408), senza attendere il cognato Ataulfo, che era in Pannonia con truppe gote e unne, invase nuovamente l'Italia e - per la prima volta dai tempi di Brenno - pose sotto assedio Roma, che fu portata sull'orlo della carestia. Una volta obbligato il Senato romano a consegnargli un forte tributo, levò l'assedio e si trasferì in Toscana dove liberò un gran numero di schiavi germanici. Nel frattempo il cognato Ataulfo era giunto in Italia con i rinforzi, nel 409, senza subire eccessive perdite. Dopo un mancato accordo con l'imperatore Onorio, trincerato a Ravenna, Alarico fece ritorno nel Lazio, occupando Ostia e chiedendo al Senato di deporre Onorio e proclamare imperatore il prefetto della città, Prisco Attalo. Il Senato romano accettò e Prisco nominò Alarico magister militum. Nel 410 entrò ad Eboli saccheggiandola e si presume che nascose un tesoro. A causa delle sue razzie Eboli fu distrutta e rimasero solo pochi reperti archeologici.

Assieme ad Attalo Alarico pose l'assedio a Ravenna, che stava per cedere, quando ricevette l'aiuto di un contingente di circa 4.000 soldati bizantini, mentre la provincia africana si era ribellata e Roma era nuovamente minacciata dalla carestia. Mentre Alarico attaccava tutte le città cispadane per poi passare in Liguria, Attalo rientrò a Roma dove si oppose ad inviare un esercito in Africa. Per questo Alarico, tra maggio e giugno del 410, lo depose e lo tenne in sua custodia assieme a Galla Placidia, la sorella di Onorio. Dopo aver inviato a Onorio il diadema e la porpora imperiale di Attalo si ripresero le trattative che però fallirono perché Saro ancora una volta passato dalla parte dell'imperatore attaccò le truppe di Ataulfo, violando la tregua. Alarico, spazientito, marciò per la terza volta su Roma e, il 24 agosto 410, dopo che la porta Salaria era stata aperta a tradimento, la prese e la saccheggiò (Sacco di Roma), per tre giorni.

I Visigoti lasciarono Roma carichi di bottino e Alarico, passando da Capua e da Nola, si diresse a Reggio, dove preparò una flotta, con l'intenzione di conquistare l'Africa, il granaio dell'impero, per poi impadronirsi dell'Italia. Ma una tempesta disperse e affondò le navi quando erano già in parte cariche e pronte a partire. Allora Alarico lasciò la città diretto a nord; ma quando era ancora in Calabria, nei pressi di Cosenza, si ammalò improvvisamente e morì. Secondo la leggenda venne seppellito con i suoi tesori nel letto del fiume Busento a Cosenza. Gli schiavi, che avevano lavorato alla temporanea deviazione del corso del fiume, furono uccisi perché fosse mantenuto il segreto sul luogo della sepoltura.



Secondo lo storico Giordane, che afferma di averlo letto su un libro dello storico ufficiale dei Goti Cassiodoro di Squillace, venne deviato il corso del fiume Busento per scavarvi una tomba nella quale venne sepolto il re insieme al suo cavallo. Poi il fiume venne fatto rifluire nel suo letto. Questi imponenti lavori sarebbero stati eseguiti da prigionieri rastrellati nei dintorni, che alla fine sarebbero stati uccisi perchè non rivelassero il segreto. Questo è ciò che risulta dalle fonti storiche.

Ci sono dei motivi più specifici che fanno pensare che il racconto degli storici corrisponda alla realtà. C'è un'intera categoria di oggetti importanti che sono scomparsi dalla storia, e il motivo potrebbe proprio essere che sono finiti nella tomba di Alarico. Non cose di poco conto: stiamo parlando dei grandi cammei, cioè degli oggetti in assoluto più raffinati e preziosi che l'antichità abbia prodotto. Per le gemme più importanti venivano usate agate con stratificazioni di diversi colori, colori che venivano sfruttati abilmente per far risaltare le figure sullo sfondo e per colorare le vesti o i capelli. Le agate sono pietre molto dure, compatte e resistenti – le più usate erano la sardonica indiana e la sardonica araba -, e sono quindi adatte per sculture in miniatura e di grande precisione come i cammei e i sigilli.

I Goti di Alarico impiegarono tre giorni per saccheggiare la città di Roma, e in un tempo così breve possono solo avere assaltato i templi e le residenze principali. Possono quindi avere trafugato solo gli oggetti più preziosi e trasportabili. Tra questi non potevano mancare i grandi cammei. Pochi mesi dopo Alarico morì, e sicuramente nella sua tomba non si troveranno 70 tonnellate d'oro e 150 d'argento, perché questo bottino era proprio lo scopo dei ripetuti assalti alla città eterna.

Ma un re che aveva compiuto una così gloriosa impresa doveva avere una tomba all'altezza della sua fama. E cosa poteva esserci di meglio, per arricchirla, di tutti quegli oggetti di grande valore simbolico? Trofei di guerra innumerevoli, scettri e corone, armature di capi sconfitti, simboli dell'identità, della religione e del potere della città di Roma. Tutte cose che i Goti avevano trafugato per aggiungere la gloria al ricco bottino. Però adesso questi cimeli non aveva più senso trascinarseli dietro. La loro destinazione migliore era proprio quella di affidarli per l'eternità al loro eroico condottiero. Anche i cammei più grandi, insieme ad innumerevoli altri esemplari più piccoli, devono avere avuto questa destinazione, anche perché, per quanto preziosi e importanti, non si trovava più nessuno in quell'epoca che fosse disposto a scambiarli con un mucchietto d'oro. Questa quindi è la spiegazione migliore che si possa trovare per la scomparsa di questa importante categoria di oggetti, e nello stesso tempo questa stessa scomparsa è anche la migliore prova che questa tomba deve esistere davvero, e che non è mai stata scoperta. Infatti, se fosse stata trovata, alla fine, in un modo o nell'altro, i grandi cammei sarebbero ricomparsi. E l'ipotesi obbligata è che la tomba sia nascosta alla vista dalla corrente di un fiume. Per fare un'ipotesi diversa, bisognerebbe riuscire ad immaginare in quale altro modo si potrebbe nascondere una tomba che dovrebbe anche avere proporzioni grandiose. Inoltre sembra poco probabile che uno storico abbia potuto “inventarsi” una simile soluzione, che non ha alcun precedente. Ma se le cose stanno così, questa tomba non è destinata a rimanere per sempre nascosta, così come è avvenuto finora? Fino a pochi anni fa questa sarebbe stata solo una domanda retorica, con una inevitabile risposta affermativa. Oggi però, con l'aiuto di alcune sofisticate tecnologie, si possono eseguire indagini strumentali atte a verificare il racconto tramandato dagli storici.

Usando sia l'ecoscandaglio che un radar a penetrazione del sottosuolo, è stata indagata la struttura dei sedimenti, che per una profondità di più di dieci metri erano costituiti da depositi caotici con resti di rami e tronchi. E alcuni metri al di sotto del punto più profondo, è stato individuato un oggetto compatto del diametro di un metro. Nello stesso punto una piccola anomalia magnetica rilevata con il magnetometro ha dimostrato che esso contiene dei metalli. In sostanza con queste indagini gli scienziati hanno scoperto che il lago si era formato in seguito alla caduta di un frammento del meteorite esploso a qualche chilometro d'altezza, frammento che è stato individuato con notevole sicurezza al di sotto del punto più profondo.

Tutto questo per dare un'idea del tipo di indagini che si potrebbero fare oggi. Si potrebbe esplorare il letto del fiume con un magnetometro.

Se venisse segnalata la presenza di metalli con un ecoscandaglio e con un radar a penetrazione si potrebbero indagare gli strati di roccia sottostanti per evidenziare discontinuità che possano far pensare ad un ambiente sotterraneo.

Se venisse individuata una struttura di questo tipo, si potrebbero fare ulteriori indagini per arrivare alla certezza di avere individuato questa famosa tomba. E se così non fosse, si sarà almeno ottenuto il risultato di restringere il campo delle possibilità; potrebbe allora trattarsi di un altro corso d'acqua (probabilmente alla fine si scoprirà che la tomba è stata costruita in un punto dove l'alveo del fiume si restringe, per far sì che, quando nella stagione estiva la portata diminuisce e si formano delle secche, l'acqua continui a ricoprire l'intero letto da una riva all'altra). Una volta individuata la tomba, si porrebbe il problema, molto più impegnativo, di riportarla alla luce. Ma certamente ne varrebbe la pena. L'importanza storica e artistica dei tesori che vi potrebbero essere custoditi è tale, che ne trarrebbero vantaggio sia l'immagine del nostro paese, che il turismo e l'economia. Tra i tanti cimeli storici che si potrebbero trovare nella tomba di Alarico, ce n'è uno più importante degli altri. Questo trofeo è il simbolo di una guerra condotta dai Romani in maniera particolarmente spietata, per far sapere a tutti qual'era la punizione per chi si ribellava al loro potere. Un trofeo prelevato a Gerusalemme nel tempio di Salomone prima che fosse distrutto. Il candelabro a sette bracci d'oro massiccio divenne il simbolo di questa campagna militare, ed è stato per questo rappresentato nell'arco di Tito. Quasi certamente, a causa del suo particolare valore simbolico, era ancora conservato a Roma nell'anno 410. E se è così, è probabile che sia stato trafugato dai Goti insieme agli altri tesori. E forse anche per questi barbari, già ampiamente romanizzati, il suo valore superava quello pur notevole dell'oro di cui era fatto, e potrebbe quindi essere finito anch'esso nella tomba. Naturalmente questa è solo un'ipotesi, della quale non si può nemmeno stimare la probabilità. Ma se c'è una pur lontana possibilità di trovare il grande candelabro a sette bracci, questa è legata al nome di Alarico.

I luoghi su cui si è concentrata l'attenzione dei cacciatori di tesori nel corso dei secoli sono una collina chiamata Rigardi, che in gotico significa rispetto, sulla collina è incisa un'enorme croce e in un grotta c'è quello che sembra un altare in pietra. Si è poi cercato lungo la confluenza tra il Crati e il Busento, sotto i tumuli di Bisignano  e nei ninfei di Corlei.

Nel corso della storia, in molti hanno scavato nella zona senza trovare nulla. Nella seconda metà degli anni trenta Heinrich Himmler visita la zona, con lui ci sono gli uomini della Ahnenerbe, cacciatori nazisti delle radici ariane. Il mito di Alarico nell'ideologia nazista era di grande importanza, Goebbels elencava il tesoro del re barbaro come simbolo irrinunciabile del Reich. L'invasione dell'Italia fu chiamata Operazione Alarico. Il capo dell'SS era sceso in Calabria per controllare una archeologa francese, Amélie Crevolin che voleva dragare fino a otto metri sotto il ponte di Laurignano.

Oggi a essere convinto dell'esistenza della tomba di Alarico è un noto falco vicino alle amministrazioni Usa, Edward Luttwak. Il politologo rimprovera all'Italia di non incentivare la ricerca di tesori con la concessione di una percentuale, come fanno altri paesi. Questo favorirebbe l'arrivo di esperti cacciatori. "Questa faccenda del sacro fiume deviato sembrava solo un tòpos, invece no: l'alveo fu spostato davvero. Al massimo di un chilometro. L'area da indagare non è enorme. Bisogna cercare sul serio", ha dichiarato Luttwak.

L'americano ha anche suggerito di coinvolgere le autorità di Israele, che dispongono di una tecnologia in grado di individuare masse metalliche nel sottosuolo anche da un elicottero. Le forze armate israeliane hanno confermato, ma hanno chiarito che quegli strumenti sono top secret, vengono usati per individuare armi nei tunnel di Hamas. Inoltre le autorità israeliane chiudono dicendo che si muovono solo su prove certe, è per il momento non ce ne sono. Mito, leggenda o suggestione? Una cosa è certa: il tesoro c'è, perché il mito di Alarico e la suggestione del suo bottino, se ben usati possono davvero fare la fortuna di questo territorio.
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LA LINEA DELL'ARCANGELO MICHELE



Il culto dell’Arcangelo Michele in luoghi sacri posizionati su un’unica linea retta. Un allineamento perfetto, insipegabile.

Skellig Michael (Repubblica Irlandese), St Michael’s Mount (Cornovaglia – Inghilterra sud-occidentale), Mont Saint Michel (Normandia – Francia), la Sacra di San Michele (Val di Susa – Piemonte), San Michele (Monte Sant’Angelo – Puglia), Monastero di San Michele (Isola di Simi – Grecia, Dodecaneso meridionale). A vederli su di una cartina geografica, questi santuari risultano posizionati su una unica linea retta, la Leyline di San Michele.
Forse ancora più sorprendente è il fatto che tre luoghi importanti ovvero Mont Saint Michel in Francia, la Sacra di San Michele in val di Susa e il santuario di Monte Sant’Angelo nel Gargano si trovano alla medesima distanza. Qualcuno interpreta questo fatto come un ammonimento dell’Arcangelo ai fedeli di Cristo a mantenersi nella rettitudine e a non abbandonare mai il rispetto rigoroso delle leggi imposte da Dio. Potrebbe anche essere che quei luoghi di culto siano stati costruiti in punti della terra a forte concentrazione energetica, disposti sulle famose Lay Lines. Un’altra caratteristica di questa linea è il suo perfetto allineamento con il tramonto del Sole nel giorno del Solstizio d’Estate, giorno che è sempre stato ritenuto importante per riti e connessioni energetiche con la Natura.

L’origine del culto di San Michele è antichissima. Fin nella religione dell’antico Iran che riconosceva come Dio supremo Ahura Mazda si credeva nell’esistenza di Yazata o “Venerabili”: Dei – Angeli che fungevano da tramite tra Dio e gli uomini. Nel Paganesimo (termine che in questo contesto indica tutte le religioni diverse dal cristianesimo) la parola “Angelo” assumeva principalmente il significato di “Messaggero”. Nel Vecchio Testamento, “Mal’ak” è l’angelo-messaggero che prende parte nell’esercito di Jahvè. Nelle Sacre Scritture Michele, in ebraico Mika’el che significa “chi come Dio”, è a difesa dei diritti dell’Eterno e uno dei capi della Schiera Celeste. E’ definito per la prima volta “Arcangelo” nell’epistola di Giuda dove viene descritto in lotta contro il Diavolo per difendere il corpo di Mosè. Nel Vangelo di Giovanni guarisce gli infermi per mezzo dell’acqua. Agli inizi della diffusione del culto in Oriente, Michele è identificato come patrono di acque curative, medico e psicopompo.
Il suo culto si impianta in aree devozionali pagane dedicate ad Asclepio, Calcante e Podalirio. Inizialmente il culto si diffonde in Frigia ed è interessante sottolineare come esso soppianti il culto di Attis, antica divinità della vegetazione dalle sembianze di giovane pastore legata al culto della Grande Madre. Le qualità e l’iconografia dell’Arcangelo Michele lo avvicinano a Thot, Hermes, Mercurio, Asclepio. In occidente il suo culto si diffonde tramite la cultura bizantina responsabile del primo grande sito devozionale italiano intitolato a San Michele: Monte Sant Angelo in Puglia, sorto nel V sec. d.C.
Il suo nome significa”Chi come Dio”: davanti alla rivolta dell’angelo ribelle Satana, pugnò senza paura per sconfiggere lui e tutti quelli che credevano di essere all’altezza del Signore. In perenne lotta con il “fratello decaduto”, secondo la Chiesa la vera battaglia decisiva si avrà alla fine dei tempi, nei giorni dell’Apocalisse.

Nella Bibbia, è ricordato nel Libro di Daniele (12,1) “Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.” Nel libro dell’Apocalisse, Michele è il principe degli angeli fedeli a Dio, combatte e scaccia il drago (Satana) e gli angeli ribelli.

San Michele, il grande Arcangelo, racchiude in sé quelli che erano nel mondo antico i poteri di varie divinità, ovvero appare come l’insieme di diverse funzioni simboliche che sono evidenziate nelle sue rappresentazioni, diffuse dal medioevo fino al diciannovesimo secolo. Viene chiamato nell’offertorio della messa dei defunti; è individuato come il combattente del Dragone, ovvero del demonio, rappresentando la vittoria contro le tenebrose forze del male; e ancora il Signore della giustizia divina che separa il bene dal male (gli attributi della spada e della bilancia); ed è Asse del Mondo (il simbolo della lancia).

San Michele è venerato dalla tradizione cristiana come difensore del popolo cristiano, e, rappresentato come guerriero, è chiamato in difesa contro i nemici della Chiesa. Dall’oriente il culto dell’Arcangelo si diffuse e si sviluppò nelle regioni mediterranee in particolare in Italia, dove giunse assieme all’espansione del cristianesimo. L’imperatore Costantino I, a partire dal 313, gli tributò una particolare devozione, fino a dedicargli il Micheleion, un imponente santuario fatto costruire a Costantinopoli. La prima basilica dedicata all’Arcangelo in Occidente è quella che sorgeva su di un’altura al VII miglio della via Salaria, ritrovata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma nel 1996; il giorno della sua dedica, officiata con ogni probabilità da un Papa prima del 450, ovvero il 29 Settembre, è rimasto fino a oggi quello in cui tutto il mondo cattolico lo festeggia unitamente all’8 di Maggio.

Un luogo misterioso dedicato all’Arcangelo Michele, posto ell’estremo nord di questa linea, si chiama Skellig Michael «Un incredibile, impossibile, folle posto, che ancora induce devoti a fare “stazioni” ad ogni gradino, a strisciare in antri bui ad altitudini impensabili, e a baciare “pietre di panico” che si gettano a 700 piedi d’altezza sull’Atlantico» (George Bernard Shaw, 18 settembre 1910). Skellig Michael è un’isola dell’Irlanda, raggiungibile soltanto con il mare calmo, vi sorge uno straordinario quanto poco accessibile monastero di origine cristiana costruito nel 588 e vi si respira un clima di forte mistero.
Skellig Michael  (dal gaelico irlandese: Sceilig Mhichíl, che significa “roccia di Michele”), è l’isolotto più grande delle due isole Skellig e deve il suo nome all’Arcangelo Michele. La leggenda vuole che l’Arcangelo, sia apparso su quest’isola a San Patrizio patrono del Paese per aiutarlo a liberare l’Irlanda da demoniache presenze. I primi abitanti dell’isola, in cerca di serenità, spiritualità e silenzio, realizzarono il monastero, un grandioso complesso che svetta sulla sommità del luogo.  Senza decorazioni gli elementi che lo costituiscono: una cinta muraria, sei celle per i monaci, gli oratori, la cappella di S. Michael, due pozzi e il cimitero con le grandi croci di pietra.

Proseguendo a sud, per questa straordinaria direttrice, c’è un Monte San Michele, anche a poca distanza da Stonehenge, nel Sud dell’Inghilterra e precisamente in Cornovaglia: St. Michael’s Mount. Nel Cinquecento, dopo la rottura con la Chiesa cattolica, il re Enrico VIII confiscò i monasteri del paese. Ciò accadde anche per l’abbazia benedettina sull’isola di St. Michael’s Mount trasformata in postazione militare. Anche per St. Michael’s Mount, quasi sull’estrema punta della Cornovaglia, si tramanda la leggenda, ripetuta per il celebre isolotto francese di Mont Saint Michel, che l’arcangelo Michele sia apparso (nel 495 pare) a un gruppo di pescatori, chiedendo loro di innalzare una chiesa, a onore del Salvatore e suo. Cosa che venne puntualmente fatta.

Con il tempo diventò una delle mete di pellegrinaggi più importanti del medioevo anche in Gran Bretagna. St. Michael’s Mont era una tappa fondamentale lungo il cammino di pellegrinaggio che dall’Irlanda e dalla Scozia portava in Spagna a Santiago di Compostela, dove nel IX secolo sarebbe stata trovata la tomba dell’apostolo Giacomo. Nel XVI secolo Enrico VIII confiscò tra gli altri anche questo monastero cattolico e, cacciati i monaci benedettini, ne fece una fortezza. Durante il regno di sua figlia Elisabetta I la casa regnante inglese, ridotta in serie difficoltà finanziarie dalle guerre con la Spagna, dovette vendere molti ex conventi incamerati, e anche St. Michael’s Mont subì questa sorte.
La famosa abbazia benedettina entrò così, nel 1659, in possesso di Jonh St. Aubuyn, e da quel momento venne usata come residenza della famiglia, il cui capo porta il titolo di Lord Saint Levan. Gli Aubuyn fecero del monastero, già trasformato in fortificazione, una dimora signorile, sede della famiglia. Gli ultimi lavori di un certo rilievo ebbero luogo verso la fine dell’Ottocento. Nel 1954 Lord Aubuyn trasferì l’isola a un ente statale, il National Trust, a condizione che alla sua famiglia fosse garantito diritto d’alloggio nell’edificio per mille anni.

Il Mont Saint-Michel è uno dei tre maggiori luoghi di culto europei intitolati a San Michele Arcangelo, insieme alla Sacra di San Michele in val di Susa, e al Santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano. La cittadina è un luogo storico della Francia che sfida il tempo. E’ un isolotto sul quale venne costruito un santuario in onore di San Michele Arcangelo, il cui nome originario era Mons Sancti Michaeli in periculo mari (in latino) o Mont Saint-Michel au péril de la mer (in francese: in italiano, letteralmente, “Monte San Michele al pericolo del mare”).
Secondo la leggenda l’Arcangelo Michele apparve tre volte nel 709 al vescovo di Avranches, Sant’Auberto, chiedendo che gli fosse costruita una chiesa sulla roccia. Il vescovo ignorò tuttavia per due volte la richiesta finché San Michele non gli bruciò il cranio con un foro rotondo provocato dal tocco del suo dito, lasciandolo tuttavia in vita. Il cranio di Sant’Auberto con il foro è conservato nella cattedrale di Avranches. Aubert, vescovo di Avranches costruì e consacrò una prima chiesa il 16 ottobre 709.
Questa datazione però non è certa. Secondo il catalogo dei vescovi di Avranches, Auberto avrebbe occupato quella sede prima di Rahentrannus, vissuto verso la fine del sec. VII.  Molti hanno pensato durante il regno di un Childeberto e più precisamente, Childeberto III (695-711). Il Duchesne, invece, per accordare la notizia col posto occupato da Auberto nel catalogo, propende per Childeberto II (m. 595). In tal caso, Auberto sarebbe vissuto nel sec. VI e non VII e a questo secolo sarebbe anche da retrocedere la costruzione della prima chiesa in onore dell’arcangelo sul monte Tomba, detto poi Monte San Michele, che fonti più recenti fissano invece al 16 ottobre 709.
Ulteriori incertezze vi sono per quel che concerne le vicende della vita del santo.
Auberto, notissimo per la sua carità, sarebbe stato eletto vescovo di Avranches per acclamazione. Amante della solitudine, egli si recava spesso a pregare sul monte Tomba e qui appunto un giorno, addormentatosi durante la preghiera, si sentì chiamare per tre volte dall’arcangelo Michele che gli chiese l’erezione di una cappella in suo onore lì sulla cima del monte. Venne quindi sistemato un primo oratorio in una grotta e la precedente denominazione di Mont-Tombe fu sostituita con quella di Mont Saint Michel au péril de la Mer.
Auberto inviò messaggeri in Puglia affinché portassero dal Monte Gargano (allora il più celebre santuario dell’arcangelo, sito però in un contesto bizantino per quanto non estraneo ai longobardi italomeridionali) una reliquia micaelica (giunse, in effetti, un frammento del manto dell’arcangelo). È stata notata l’analogia molto stretta fra il testo dell’Apparitio sancti Michaelis e quello della leggenda di fondazione di Mont-Saint-Michel detto «au péril de la mer»: ancora alla fine del Medioevo il luogo veniva denominato «Mont Gargan». Nell’870 abbiamo la prima voce di testimonianza sicura d’un pellegrinaggio a Mont-Saint-Michel e alla tomba di sant’Auberto: ce l’ha procurato il monaco Bernardo, celebre autore d’un Itinerarium. All’epoca, il monte era rifugio delle genti circostanti contro le incursioni dei pirati nordeuropei che avrebbero più tardi insediato la regione e le avrebbero conferito il suo nome moderno. Infatti nel 911 il norvegese Rollone, capo d’una banda d’incursori danesi, decise d’insediarsi in quell’area e divenne – per concessione del re di Francia – dux Normannorum e anche protettore del santuario. Da allora Michele divenne santo nazionale dei normanni.
A Mont-Saint-Michel il duca Guglielmo il Conquistatore volle che fosse affiliato il monastero di Saint Michael in Cornovaglia. Nell’XI secolo gli avventurieri normanni che scendevano in Italia per cercarvi la fortuna non avrebbero dimenticato né la Val di Susa (la ‘Sacra’ o ‘Sagra’ di San Michele fu fondata secondo un’incerta tradizione nel 966 o nel 999-1002, mentre oggi si propende piuttosto per il periodo 983-987 collegandola alla volontà di un nobile pellegrino alverniate, Ugo di Motboissier, e di suo figlio Maurizio) né il Monte Gargano: sarebbe nata così una forte tradizione di «pellegrinaggio micaelico», una Via sancti Michaelis tra Normandia e Puglia attraverso le Alpi occidentali. Sulla linea dei tre grandi santuari del Monte Gargano, di San Michele «della Chiusa» (la Sacra) e di Mont-Saint-Michel si costituì l’asse portante del pellegrinaggio micaelico di età medievale. Incrociato con i pellegrinaggi romano (e gerosolimitano) e compostelano, e quindi con quelli mariani ed altri «minori», quest’asse ha costituito fra VIII e XIII secolo la colonna vertebrale dell’autocoscienza identitaria dell’Europa cristiana.

La costruzione dell’abbazia inizierà nel 966, per opera dei benedettini, su richiesta del Duca di Normandia. I lavori si protrarranno per quasi otto secoli, con continuo perfezionamento (ed ingrandimento) di quella che venne, già nel XIII secolo, considerata una vera e propria Meraviglia, riassumente in se più stili contemporaneamente, dall’arte romana a quella gotica.  La chiesa preromanica di Mont Saint Michel risale all’anno mille, mentre nel XII secolo furono ampliati gli edifici conventuali posti ad ovest e a sud. Infine, sempre nel XII secolo, un’importante donazione del re francese Filippo Augusto diede il via alla costruzione del complesso in stile gotico.
La guerra dei Cent’Anni (XIV e XV secolo) rese poi urgente la protezione dell’abbazia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di un complesso di edifici militari.  Durante la Rivoluzione francese e poi ancora sotto Napoleone, l’abbazia venne convertita a prigione, per essere poi, nel 1874, affidata alla Soprintendenza alla Belle Arti. Nell’occasione del suo millenario, una comunità monastica tornò sull’isola a rinsaldare la sua storia di centro spirituale.
Nel 1987 l’ultimo intervento di rilievo: la posa di una gigantesca statua di San Michele sulla guglia del campanile, ennesimo sforzo di costruzione verticale laddove lo spazio è limitato dal mare. La Piramide dell’arcangelo, come viene chiamata dagli autoctoni, resta in ogni caso, ancora oggi, una meravigliosa fusione tra opera umana e opera della natura.



L’Abbazia di San Michele è un imponente complesso architettonico religioso di epoca romanica, sorto come abbazia benedettina, meta di grandi pellegrinaggi medioevali ed in particolare tappa della Via Frangigena. Si erge sulla Cima del monte Pirchiriano all’imbocco della Valle di Susa. Dal 1994 è monumento simbolo della Regione Piemonte.
La Via Michelita o la Via Angelica è un percorso che molti pellegrini percorrevano nel Medioevo. Unisce le Basiliche di Mont Saint Michel in Normandia, la Sacra di S. Michele in Piemonte e Monte Sant’Angelo in Puglia. La leggenda vuole che questa via fu tracciata dalla spada di San Michele durante la lotta contro il demonio. Si creò così una fenditura ancora presente ma invisibile che collega le tre basiliche dedicate a San Michele.
Si dice che la Sacra di San Michele sia esattamente a metà della Via Michelita, a 1000 chilometri da Mont Saint Michel e a 1000 chilometri da Monte Sant’Angelo in Puglia. Alla sua costruzione contribuirono misteri e episodi inspiegabili. La Sacra di San Michele perchè nasce e cresce con la sua storia e le sue strutture attorno al culto di San Michele che approdò in Val di Susa nei secoli V o VI. La sua ubicazione in altura e in uno scenario altamente suggestivo, richiama immediatamente i due insediamenti micaelici del Gargano e della Normandia.
Le origini di questo santuario sono incerte, anche a causa delle numerose leggende che si raccontano riguardo a questo monastero. Tutte concordano sull’apparizione di uno o più angeli.
Si racconta che San Giovanni Vincenzo, nel X secolo, volesse costruire un’abbazia sul Monte Caprasio. Cominciò così a costruire, ma i lavori non andavano mai avanti: ogni giorno posavano le prime pietre della costruzione e ogni notte queste sparivano. Così San Giovanni decise di rimanere sveglio per svelare il mistero. A sorpresa, scoprì che non si trattava di ladri di materiale, ma di angeli. I messaggeri celesti comparivano con il buio e trasportavano le pietre sul monte Pirchiriano.
Fu così che San Giovanni decise di costruire l’abbazia dove sorge ancora adesso. Da quel giorno infatti non ci furono più impedimenti “divini” e il santuario fu ultimato. Secondo un’altra versione, invece, a Giovanni, detto Vincenzo, vescovo di origine ravennate, eremita sul monte detto “Capraio”, situato a fronte del monte “Pirchiriano”, pare sia apparso S. Michele che lo sollecitava a erigere una chiesa in suo onore. Giovanni decise di edificarla in legno data la difficoltà di reperire le pietre ma la legna raccolta con molta fatica gli veniva continuamente rubata dai ladroni che infestavano i boschi. La storia continuò finché non gli apparve il santo che gli indicò il dirupo più alto del monte Pirchiriano, dove avrebbe trovato la legna rubata, per edificare la chiesa. Indipendentemente dalla leggende, è su dirupi o simili che si trovano tutti i santuari in onore dell’Arcangelo.
Alcuni anni dopo il possidente Ugo di Montboissier nobile dell’Alvernia per ottenere perdono dei suoi peccati, trasformò da chiesuccia in un gran tempio in pietra.
In periodi seguenti fu ampliata e rinnovata sino a divenire un imponente bastione dalle mura fortificate, erette su di un’enorme rupe dalle pareti scoscese. La sua posizione dominante, in un alternarsi d’epoche e vicende, indicherebbe che sulla sommità del bastione si fosse originato un osservatorio, da cui scrutare i movimenti sulla frequentatissima via detta per l’appunto dai fedeli: Via Michelita, o Via Angelica o comunque degli Angeli, o chissà forse la via Francigena.
Nei secoli le mura fortificate della Sacra, conobbero momenti di gloria, di grande splendore, ma anche d’instabilità, di precarietà, sino alla decadenza. Ed è proprio in questo periodo che il Re piemontese Carlo Alberto affidò la direzione della Basilica al sacerdote e filosofo Antonio Rosmini, il quale, dopo aver riportato il monumento nel suo antico splendore, lo affidò ai suoi discepoli: i Rosminiani.

La Grotta dell’Arcangelo è una caverna davvero impressionante. La irregolare volta rocciosa riverbera misteriose venature originate nel passato da un costante stillicidio di acque piovane eliminato dai lavori di restauro alle tettoie della grotta. Il visitatore può scoprire da sè gli angoli più caratteristici e avvertire in sè i sentimenti più disparati. certo è che si rimane incantati per l’orrido naturale della grotta e vivamente impressionati per l’arte che vi si può ammirare. Ogni epoca vi ha lasciato la sua impronta. «E’ un succedersi di arte bizantina, romanica, gotica, moresca e ravennate fino alla gaiezza del rinascimento».Le costruzioni Angioine (fine sec. XIII) seppellirono quelle più antiche normanne, longobarde e paleocristiane. La grotta perdette in altezza e profondità. La grotta non fu mai consacrata secondo le leggi della Chiesa perchè lo era già stata per ministero angelico (terza apparizione), ma nei secoli dai Pontefici fu dichiarata “Basilica”, “Celeste Basilica”.

Nel V secolo sul promontorio del Gargano sorse il più antico e più famoso luogo di culto micaelico dell’occidente, il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo. Molto presto questo Santuario divenne un luogo importante per la diffusione del culto micaelico in Europa e in Italia e rappresentò il modello ideale per tutti i santuari angelici successivi, che furono appunto eretti “ad instar” di quello garganico: le cime dei monti, i colli, i luoghi elevati, le grotte profonde furono dalle origini considerate come la sede più appropriata per il culto degli angeli e di Michele in particolare. La storia del culto di S. Michele sul Gargano è stata a noi tramandata dal Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano, chiamato per brevità Apparitio, redatto tra la fine del sec. VIII e gli inizi del IX.

Gli inizi del culto michaelico sul Gargano sono fatti risalire nell’Apparitio, al V-VI con l’arrivo del culto e la consacrazione della basilica fatta personalmente dall’Angelo, con le guarigioni operate da S. Michele per mezzo dell’acqua, la Stilla, che veniva raccolta dallo stillicidio nella grotta. Il culto poi si consolida (dalla seconda metà del sec. VII), allorquando i Longobardi di Benevento, sconfitti nel 650 i Bizantini, occuparono il santuario e unificarono le due diocesi di Benevento e di Siponto.

Nella città di Siponto viveva un ricchissimo signore, padrone di grandi armenti. Era un personaggio importante e conosciuto da tutti. Si chiamava Gargano e il suo nome, in seguito venne a designare la stessa grande montagna. Una sera s’accorse che il più bel toro dei suoi armenti mancava alla conta. Il giorno dopo di buon mattino, con una numerosa squadra di pastori, cominciò ad esplorare la campagna spingendosi fin sui dirupi montani a picco sul mare. Finalmente ritrovò il suo toro sulla soglia di una caverna inaccessibile, alta sulla cima della montagna. Accecato dall’ira e dalla fatica, Gargano, preso il suo arco, scagliò una freccia contro il toro indocile. La freccia, però, percorsi pochi metri, come deviata da vento impetuoso, invertì la sua traettoia e colpì lo stesso Gargano che l’aveva scagliata. Il fatto scosse il torpore della tranquilla cittadina di pescatori e di pastori. Molti traevano funesti presagi. Il vescovo indisse tre giorni di digiuno e di penitenza al termine dei quali gli apparve l’arcangelo Michele. “Hai fatto bene, gli disse l’arcangelo, ad ordinare il digiuno; gli uomini infatti ormai erano diventati troppo pigri nel cercare le vie del Signore… Io sono Michele Arcangelo e sto sempre al cospetto del Signore. Questo fatto è avvenuto perché sappiate che questa terra e i suoi abitanti mi sono stati affidati perché io sia loro “ispettore e custode”.
Gli studiosi si soffermano molto su questo episodio rilevando in sostanza come esso, al di là degli elementi leggendari e di colore, sottolinei il passaggio della regione garganica dal paganesimo, rappresentato dall’irascibile e potente signore chiamato Gargano, al cristianesimo in cui la montagna diventa il luogo privilegiato della presenza di Dio e dei suoi angeli.

Scoppiò una guerra: da una parte i napoletani, presentati dall’Apparitio come ancora pagani, dall’altra i beneventani e sipontini. Prima dello scontro il vescovo indisse un digiuno di tre giorni per chiedere la protezione di S. Michele che gli apparve assicurando vittoria certa. Il giorno dopo i sipontini, lieti della protezione angelica si accinsero a tagliare il passo ai napoletani. All’improvviso, secondo la leggenda, la grande montagna del Gargano cominciò a tremare e poi a fumare come un vulcano, mentre nella tenebra piovevano sui pagani saette di fuoco. I napoletani fuggirono atterriti inseguiti da beneventani e sipontini. Gli scampati dal ferro dei sipontini e dalle saette infuocate del monte Gargano, si convertirono al cristianesimo. Quando i vincitori, tornati al loro paese, vollero salire alla grotta dell’Arcangelo per ringraziarlo, notarono stupefatti un’orma umana, piccola, come di giovinetto, impressa sulla pietra presso la porta settentrionale della grotta.
L’episodio della Vittoria, narrato dall’Apparitio, diventa più chiaro se raffrontato con altre fonti storiche. Siamo alla metà del sec. VII, intorno al 650. A quell’epoca la Puglia e buona parte dell’Italia Meridionale erano ancora amministrate dai Bizantini. I Longobardi, attestati saldamente nel ducato di Benevento, compivano frequenti scorrerie nei territori bizantini e miravano decisamente alla conquista della Puglia settentrionale. Questa situazione non poteva essere chiaramente tollerata dai Bizantini, allarmati dalla crescente attività espansionistica longobarda. Con una punta di malignità lo storico longobardo Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, afferma che i Bizantini assalirono il Santuario dell’arcangelo Michele a Monte Sant’Angelo attirati dai tesori che custodiva.
In effetti i Bizantini volevano riaffermare con forza la loro autorità sulle fertili pianure della Puglia settentrionale a cui i Longobardi, stretti fra la alture del Sannio, guardavano con grande interesse. Non ci riuscirono e da questo momento la storia del santuario di S. Michele sul Gargano s’intrecciò strettamente con quella dei Longobardi delle regioni meridionali, ma anche con la storia delle popolazioni longobarde dell’Italia settentrionale e centrale.
A cominciare dalla vittoria dei Longobardi sui Bizantini, si affievolì il particolare orientamento della devozione popolare a S. Michele, venerato come l’angelo della sanità. La figura di S. Michele venne caratterizzata principalmente nel senso che più chiaramente emerge dalla Bibbia e soprattutto dal libro dell’Apocalisse, quella del Principe delle milizie celesti, difensore dei diritti di Dio. San Michele divenne, insieme a San Giovanni Battista, il santo nazionale dei Longobardi. La sua immagine fu spesso impressa sulle monete.
Cuniperto quando nel 671 ascese al trono di Pavia fece dipingere l’immagine di San Michele sugli scudi dei guerrieri. Paolo Diacono riferisce che il duca del Friuli Alahis si rifiutò di affrontare in duello personale Cuniperto perché sullo scudo di questi era raffigurata l’immagine di San Michele su cui aveva giurato fedeltà al re.

Dopo tutti questi fatti la grotta delle apparizioni fu al centro dell’attenzione religiosa dei sipontini, i pellegrinaggi si moltiplicavano anche dai paesi vicini e da tutto il ducato di Benevento. La grotta, però, non essendo stata consacrata, non era un luogo di culto, per cui il vescovo di Siponto non sapeva cosa fare. Gli apparve ancora una volta l’arcangelo Michele il quale gli disse di aver provveduto lui stesso a consacrare la Grotta; il vescovo poteva, quindi, tranquillamente compiere atti di culto, celebrare la messa e autorizzare i pellegrinaggi.

Da questo momento il santuario garganico fu uno dei centri religiosi più frequentati di tutta Europa. La costruzione della primitiva galleria di ingresso del Santuario è da attribuire all’interesse che i Longobardi subito ebbero per San Michele. Fino al sec. VII il santuario era costituito dalla semplice grotta che si apriva ben alta, in cima a un’aspra salita, immediatamente sotto vetta della montagna. I pellegrini che arrivavano dalla valle Carbonara dovevano percorrere gli ultimi 200 metri arrampicandosi sulle rocce per arrivare alla Grotta.
I Longobardi, già nel secolo VII addolcirono la salita costruendo alla base del tratto finale una galleria che serviva come vestibolo da cui si saliva al piano superiore dove un porticato chiudeva la Grotta a settentrione.
Quello fra i Longobardi e San Michele fu da subito un rapporto privilegiato, nell’Arcangelo i longobardi identificarono l’eroe di Dio, capo delle schiere angeliche, difensore dei diritti di Dio. Essi contribuirono come nessun altro popolo alla diffusione del culto di S. Michele. La loro devozione a S. Michele favorì in maniera determinante il passaggio dei Longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo. Il santuario garganico fu assunto ben presto dai Longobardi a loro santuario nazionale.
In una iscrizione incisa dopo il 687 si attesta che il duca Romualdo I, figlio di Grimoaldo I “spinto dalla devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, volle che si realizzasse la costruzione del Santuario e ne fornì i mezzi. Gaidemari fece”.
Un’altra iscrizione ricorda la visita al santuario di Romualdo II e di sua moglie Gunperga avvenuta nei primi anni del sec. VIII “L’Angelo Gabriele vi protegga, duca Romualdo, Gunperga. Dio da al re il tuo giudizio e al figlio del re la tua giustizia” con cui il duca Romualdo invoca Dio perché assista nell’esercizio del potere il figlio, il futuro Gisulfo II che regnò dal 742 al 751.

Lo studioso protestante tedesco Ferdinand Gregorovius (1821-1891) definì il santuario micaelico di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, “la metropoli del culto dell’Arcangelo in Occidente”: tale definizione trova puntale riscontro in una storia che dura da più di quindici secoli e ha contribuito e creare un ricco patrimonio di fede, arte e cultura e a fare del promontorio garganico uno dei luoghi privilegiati della religiosità e della devozione popolare dell’Europa medievale.

Accanto alle iscrizioni riguardanti personaggi famosi, si leggono nel Santuario di Monte Sant’Angelo molte centinaia di iscrizioni che ricordano il passaggio di pellegrini di ogni stirpe e ceto sociale. L’analisi dei nomi, denota una netta prevalenza di popolazioni longobarde. Vi sono tuttavia anche iscrizioni incise nell’antico alfabeto runico che tramandano nomi dell’area britannica.
Si moltiplicarono nei secoli successivi i santuari dedicati all’Arcangelo, soprattutto lungo le grandi vie di comunicazione battute dai pellegrini. Molto spesso, nella costruzione di questi santuari veniva murata, tra le opere di fondazione, una pietra proveniente dalla Grotta di Monte Sant’Angelo, ed elargita, come speciale segno di benevolenza, dagli stessi Papi. La pratica, tuttora in uso, è antichissima essendo stata regolata addirittura in una disposizione di papa Gregorio II (715-731). Tra i personaggi più importanti che visitarono il santuario si annoverano diversi Papi. L’ultimo Papa pellegrino alla Grotta dell’Arcangelo è stato Giovanni Paolo II, nel maggio del 1987. La tradizione assegna a Gelasio I, sotto il cui pontificato, alla fine del sec. V, si ebbero le apparizioni di San Michele sul Gargano, l’inizio della serie dei papi pellegrini. Certamente pellegrino è stato Leone IX nel 1049, nello stesso anno della sua elevazione al soglio pontificio.

Nel 1093 era pellegrino sul Gargano Urbano II, il banditore della prima Crociata. Con molta probabilità anche il pontefice Callisto II fu pellegrino alla Grotta di San Michele in occazione del concilio di Troia dell’anno 1120. Il papa Alessandro III, l’intrepido oppositore di Federico Barbarossa e protettore dei Comuni Lombardi, fu pellegrino nel gennaio 1177 quando consacrò la chiesa dell’Abbazia di Pulsano, nei pressi di Monte Sant’Angelo. Anche Gregorio X, proveniente dalla Palestina, dove era stato sorpreso dalla elezione a papa, salì all’inizio del 1272 alla sacra Grotta, prima di recarsi a Roma dove fu consacrato.

Molti altri sono i papi che la tradizione dice essere stati pellegrini alla Grotta dell’Arcangelo. Anche molti regnanti si recarono pellegrini alla Basilica Angelica. Sopra si accennava ai molti personaggi delle case regnanti longobarde. Il più importante e noto imperatore pellegrino fu Ottone III di Sassonia. Costui il 29 aprile 998 aveva fatto decapitare sugli spalti di Castel S. Angelo a Roma Giovanni, detto Nomentano, della celebre famiglia romana dei Crescenzi, che si fregiava del titolo di Senator omnium romanorum, nel tentativo di porre fine allo stato di endemica confusione in cui erano cadute Roma e la sede Apostolica per la presenza ingombrante e sovvertitrice di alcune grandi famiglie, tra cui i Crescenzi. Il saeculum obscurum, in cui gli accadimenti ebbero luogo, era fecondo di vicende tenebrose e confuse, di tradimenti, di ricatti per cui niente era quel che sembrava. Ma Ottone III era troppo buon cristiano per non sentire il peso del suo delitto. Dopo un lunghi colloqui con i suoi direttori spirituali, San Romualdo fondatore dell’eremo di Camaldoli e San Nilo fondatore del monastero di Grottaferrata, su imposizione di San Romualdo, nel 999 iniziò il suo viaggio penitenziale verso la Grotta dell’Arcangelo per espiare il suo peccato.
Il viaggio da Roma al Gargano fu come un bagno ristoratore per le contrade attraversate. Dovunque l’imperatore penitente suscitò un rinnovamento spirituale; tutti i cronisti dell’epoca sottolinearono il ritorno alle fresche sorgenti della spiritualità che il viaggio imperiale aveva suscitato non solo fra le classi aristocratiche, ma anche fra il popolo.

L’imperatore restò diversi giorni a Monte Sant’Angelo, e di ritorno, trascorse altri quaranta giorni in stretta penitenza nel monastero di S. Apollinare in Classe, presso Ravenna, dove il suo amico San Romualdo era Abate. Anche Enrico II, detto il Santo e venerato come tale dalla Chiesa Cattolica, successore di Ottone III, si recò come pellegrino a Monte Sant’Angelo. Il piissimo Imperatore era molto devoto dell’Arcangelo Michele, a lui aveva dedicato una grande Badia benedettina fondata presso Bamberga; l’incoronazione a Imperatore era avvenuta, inoltre, nella chiesa di San Michele a Pavia. Il pellegrinaggio di Enrico II avvenne nella primavera del 1022 e fu tramandato alla storia da un episodio straordinario. L’imperatore volle trascorrere una notte nella Mistica Grotta. Durante la preghiera ebbe la visione di innumerevoli schiere angeliche, che cantavano attorno all’altare e vi celebravano il culto mentre Dio stesso, per mezzo di un angelo, gli faceva baciare la Bibbia. Tra i pellegrini illustri dobbiamo annoverare anche la contessa Matilde di Canossa, e poi una moltitudine di re e regine di tutte le case regnanti che si sono succedute a Napoli, in Italia e in tutta Europa fino ai Borboni di Napoli e ai principi di Casa Savoia.

Fra i Santi pellegrini sono da ricordare, oltre ai Santi Guglielmo e Pellegrino, Guglielmo da Vercelli, Giovanni da Matera e Francesco di Assisi, di cui si è parlato sopra, anche una innumerevole schiera di Santi attirati non solo dalla figura dell’Arcangelo ma anche dal misticismo dei luoghi, dalla loro solitudine raffinata e piena di presenze. Si ricorda che San Tommaso d’Aquino, prima di trasferirsi a Parigi, mentre era professore di Teologia a Napoli, avendo accettato dal Re Carlo I d’Angiò di tenere pubbliche lezioni a Foggia in cambio di un’oncia d’oro, tra una lezione e l’altra si recò al santuario dell’Arcangelo.Un altro santo domenicano pellegrino fu San Vincenzo Ferreri invitato dalla lontana Spagna a predicare in Puglia per ricondurre alla fede cattolica gli eretici Valdesi.
Furono pellegrini anche Sant’ Antonino da Firenze, San Camillo De Lellis e tanti altri.

Non tutti i visitatori del santuario furono pellegrini. Come tutte le strade, anche quelle dei pellegrini spesso sono battute da briganti e grassatori. Greci, Longobardi e Saraceni spesse volte considerarono il Santuario come una sorta di cassaforte ove attingere risorse e ricchezze. Fra gli episodi più truci sono da ricordare la spoliazione del normanno Guglielmo I il Malo accaduta nel 1160. Altro episodio degno di memoria fu la pesante imposizione di consegnare i vasi sacri fatta da Federico II di Svevia nel 1229. Ma anche sovrani di confessata fede cattolica non esitarono a raccogliere preziosi frutti nella vigna del Signore.
Così Alfonso I di Aragona, nel 1442 asportò dalla Celeste Basilica la statua d’oro per farne monete, dal suo nome chiamate Alfonsine. Gesto analogo fu quello di Ferdinando I d’Aragona il quale nel 1461 fece man bassa di tutti gli oggetti preziosi della Basilica e della stessa statua d’argento. utto fu trasformato in monete sonanti le quali, ornate dell’effigie dell’Arcangelo, furono chiamate Coronati dell’Angelo.
L’ultima grande ruberia fu fatta il 2 marzo 1799 dai soldati francesi del generale Duhesme. Misero a sacco l’intera città; il solo santuario fruttò tanta roba preziosa da caricarne 24 muli. Nulla sfuggì all’accurata caccia della soldataglia. Fu ripetuto così, nel 1799, il gesto sacrilego già compiuto nel 1528 da altri francesi non meno rapaci appartenenti alle soldatesche di Francesco I.

L’incredibile linea retta che ha unito tutti i santuari sino al suo punto più importante, il Santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo sul Gargano, certamente non si conclude nel punto dove tutto si è originato, cioè sul Gargano. Posto sulla Ley line che passa da Saint Michael’s Mount, Mont Saint Michel, Sacra di San Michele e Monte sant’Angelo, c’è anche il Monastero sull’Isola di Simi. Si trova nella parte meridionale dell’isola di Simi, attaccata quasi alla Turchia, nel Dodecaneso meridionale, in un’insenatura stupenda del mare ed è, anche questo, dedicato a Michele Arcangelo. Fu fondato nel secolo XII e ricostruito nelle attuali forme nel XVIII secolo, meta di pellegrinaggi di tutte le popolazioni dell’Egeo.
Quivi è conservata una imponente e magnifica icona quasi a sottolineare la vittoria contro i detti degli iconomonachi rei. Secondo un’antica leggenda locale quando si dorme per la prima volta in questa isola, l’Arcangelo viene di certo in sogno e ti parla; al mattino non devi far altro che raccontare il sogno al pope che con pazienza ti ascolta in riva al mare e ti spiega l’invito che ti ha rivolto l’Arcangelo nella notte.

Dopo la distruzione di Chonae in Turchia – luogo vicinissimo a Colossi, oggi Ak Su, ove risiedeva un’antica comunità cristiana che ebbe le cure dirette dell’apostolo Paolo il quale ebbe la sollecitudine pastorale di scrivere un’apposita Lettera apostolica per dimostrare la supremazia di Cristo sugli Angeli, il cui culto com’è noto pervenne all’Ebraismo dalla cultura siro-babilonese – la devozione popolare michaelica orientale fu trasferita nell’isola di Simi. Nel IV secolo la città di Colossi fu sede vescovile, ma nell’VIII gli abitanti si trasferirono a Chonae oggi Honat e le pietre di Colossi servirono per la costruzione del nuovo villaggio di Chonae ove nell’alto Medioevo vi fu il fiorente santuario dedicato all’Arcangelo Michele il quale proprio qui fece un grande miracolo, deviando il corso di un fiume che divenne una cisterna: la somiglianza alla “stilla” garganica è evidentissima.
La festa del miracolo di Chonae è ancora oggi nel calendario della Chiesa Orientale fissata al 6 settembre mentre la Sinassi dei santi Arcangeli guidati da Michele è celebrata nel calendario liturgico l’8 novembre. In un graffito dei resti dell’antica chiesa di Chonae in modo chiaro è riportata la preghiera di un devoto che si rivolge all’Arcangelo; è infatti scritto in greco “o Archistratega, abbi pietà del tuo servo e anche della madre sua”. La scritta è posta intorno a una Croce con calotta e triangoli all’estremità, poggiante su un globo, il mondo, che a sua volta appoggia su scale: lapalissiana anche in questo caso è la similitudine con i graffiti giudeo-cristiani del santuario micaelico. Ma ritorniamo al santuario micaelico di Simi: qui, in questo estremo lembo greco dell’Egeo, l’orgoglio della tradizione orientale ed ortodossa è vivissimo, anzi si palpa e si percepisce un po’ ovunque. Si legge in una iscrizione greca posta ben visivamente all’interno del santuario e fattaci ben notare dal pope Demosthènes che “il culto di san Michele da questo lembo d’Oriente è partito, dopo essere qui giunto da Chonae, verso l’Occidente, giungendo in special modo al monte Gargano, al mont saint Michel di Normandia, al st Michael’s Mount di Cornovaglia”.
Interessante molto è l’iconografia singolarissima di san Michele di Panormìtis: l’Archistratega celeste con la destra impugna la spada-scimitarra ma con la sinistra ben elevata tiene ben stretta l’anima in fasce di un fedele defunto che ha strappato dalle fauci di satana che è sconfitto ai suoi piedi, proprio come Cristo tiene ben alzata in mano l’anima della santa Madre nell’icona della Koimesis, dormizione della Vergine.

Dunque, la rappresentazione iconografica di Panormitis così come le tante altre immagini dell’arcangelo Michele, a grandi dimensioni, poste sulle pareti delle chiese di tutto il mondo cristiano è una vera gigantografia che occupa quasi tutta l’altezza del piano iconografico. Si tratta di una grandiosa icona, misura circa tre metri di altezza, rispondente all’antico canone iconografico in risposta agli insegnamenti del presbitero Xeniàias che sottolineava: Questo canone grandioso e solenne sottolinea molto bene l’intenzione esistente nei secoli passati di rispondere al detto contrario degli iconomachi, dipingendo un Arcangelo dalle dimensioni imponenti.
Affreschi dell’Arcangelo di dimensioni notevoli si trovano anche in Italia, come quello dipinto da Pietro Cavallini nel 1200 nella basilica di santa Cecilia in Trastevere a Roma, e poi quelli bizantini della basilica monastica di sant’Angelo in Formis a Capua e della chiesa romanica di santa Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, in cui l’iconografia intende ben richiamare e sottolineare la validità dell’iconografia attraverso la dimensione notevole degli affreschi.

La bellezza del sito ove è posto il santuario dell’Arcangelo è davvero unica: il mare e la vicina costa turca costituiscono un impareggiabile panorama che aiuta ad elevare lo spirito alle altezze celesti. Le fabbriche del santuario sono coloratissime, com’è costumanza del resto in tutte le isole dell’Egeo riservata ai fabbricati destinati al culto e agli edifici pubblici.

Le origini dell’Ordine Carmelitano risalgono al XIII secolo, quando alcuni eremiti cominciarono a stabilirsi sul Monte Carmelo.
Un’antica via di pellegrinaggio, santuari disposti lungo una direttrice misteriosa e la figura di un arcangelo protettore e guerriero, sono gli elementi fondanti che caratterizzano il mistero della Via Michaelica, un’antichissima rotta di pellegrinaggio che toccò i principali paesi dell’Europa antica. Questa curiosa via di pellegrinaggio si è rivelata qualcosa di più vasto e profondo. Oggi quasi del tutto dimenticata se non per i tre importanti e monumentali monasteri che ancora raccontano le antiche gesta e peregrinazioni di migliaia di fedeli, la Via Michaelica resta un enigma storico unico nel suo genere per la precisione, non tanto geometrica quanto spaziale, con cui gli eremi sono stati costruiti in luoghi suggestivi e in certi casi inaccessibili.
Suggestione e mistero sembrano pervadere le chiese e le abbazie che portano il suo nome, non solo per il fascino e la bellezza che sembrano promanare, ma anche perché collegate da una linea ideale che prese il nome di Via Sancti Michaelis, una via di pellegrinaggio tra le più antiche e battute nel passato assieme alle consorelle Santiago de Compostela, Roma, la Terra Santa e non ultima la Via Francigena.
A fianco dei tre santuari noti dedicati all’arcangelo e costituenti i tre centri fondanti della Via Michaelica, sono stati identificati altri punti posti in asse con la stessa immaginaria diagonale di san Michele. Una strana correlazione con i tre principali santuari europei in cui viene venerata la figura dell’arcangelo, una curiosa linea che sembrava tagliare in due l’Europa. Altri santuari ampliano però tale diagonale fino a giungere al Monte Carmelo, tappa finale di questo lungo viaggio, ma fors’anche tappa inziale.

Il Monte Carmelo, ritenuto sacro dagli ebrei, dai cristiani, dai musulmani e dai bahá’í, si trova al crocevia della storia dell’umanità sin da quando se ne ha la memoria. Scheletri di Cromagnon sono stati rinvenuti in caverne scavate nella pietra calcarea. Pitagora si fermò in queste colline durante il viaggio verso l’Egitto; Il profeta Elia ebbe la sua dimora in due caverne del Carmelo; si dice che la famiglia di Gesù abbia sostato qui durante il ritorno dall’Egitto e che i crociati fecero un pellegrinaggio a questo sacro monte nel 1150 d.C. I Drusi si stabilirono qui nel sedicesimo secolo, provenienti dal Libano; nel 1868 i Templari Tedeschi costruirono ai piedi del monte una colonia con case in mattoni massicci, e nel 1891 Bahá’u’lláh piantò la Sua tenda alla base della montagna, facendone un luogo sacro per i bahá’í del mondo.
La natura sacra del Carmelo viene annotata fin dalla metà del secondo millennio a.C. in un elenco di luoghi conquistati dal Re Egiziano Thothmes III. La montagna viene indicata come “il sacro promontorio”. Nel quarto secolo a.C. il filosofo neo-platonico Jamblicus descrisse il Carmelo come “sacro al di sopra di tutti i monti con l’accesso vietato ai volgari”. Infatti, tutte le campagne militari della storia della Siria e dell’Egitto hanno considerato questa montagna un luogo da evitare e da oltrepassare rapidamente oltre, sia andando che tornando dalle battaglie.
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