martedì 17 maggio 2016

LE SUFFRAGETTE DI MARY POPPINS

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Mary Poppins,la governante «praticamente perfetta sotto ogni aspetto» si occupa di un mestiere di cura, tradizionalmente legato all’immaginario femminile, ma lo fa con il piglio e l’indipendenza di una donna libera. Arriva con il vento e mette subito a soqquadro con rigorosa leggerezza il mondo borghese della famiglia Banks. Chissà quanti anni ha, Mary Poppins: non è sposata, ma sembra avere una simpatia ricambiata per un suo amico spazzacamino, Bert. Di certo non un buon partito, ma affascinante, divertente e soprattutto rispettoso dell’intelligenza (e dei superpoteri) della sua amica governante. Mary non si ferma alla cura dei bambini, anzi riesce a tenere testa all’uomo di casa, al bancario Banks, colui che canta «Si addice bene all’uomo il 1906. Son signor del maniero, il capo, il re. Uso forza ma bontà, noblesse oblige» e a cui la suffragetta risponde ossequiosamente senza osare contrastarlo. Poi quando ha finito con il suo lavoro, al cambio del vento, Mary Poppins segue il suo irresistibile desiderio di libertà, che la spinge a volare via di nuovo. Salutando anche l’amico Bert. Convinta di poter contare sulle proprie risorse per sopravvivere.  
 
Delle Suffragette sapeva ben poco anche Carey Mulligan, sorprendente protagonista del film firmato da Sarah Gavron.

Si ricordava giusto, ha raccontato Carey, la sequenza di Mary Poppins che tutti  abbiamo in mente, quella in cui la signora Banks torna a casa dalla marcia per il voto alle donne e deve fare i conti con la governante che se ne va e i bambini spariti, non prima di aver trascinato le donne di casa in un canto vibrante…

Il punto di vista scelto da Gavron per raccontare la storia magnifica e terribile di due anni cruciali, il 1912 e il 1913, per quel movimento. Il punto di vista non è quello di una donna borghese, come Banks (registro parodistico del film a parte), ma di una giovane lavandaia – Carey Mulligan – working class dunque, non quartieri bene ma Bethnal Green, East London che agli inizi del ‘900 era ben lontana dall’essere oggetto delle passioni hipster di oggi.

La giovane che, come generazioni di donne prima di lei, lavora da quando era piccola in una lavanderia gestita da un padrone viscido e molestatore, entra in contatto con il movimento. Che è tutt’altra cosa dall’immagine sbiadita e un po’ folkloristica che ne è rimasta in testa a molti: non violento prima, il movimento suffragista inglese guidato da Emmeline Pankhurst (Meryl Streep che nel film infiamma con un comizio le donne chiedendo loro di prendere in mano il proprio destino), politicamente inascoltato e duramente represso, passa infatti ad azioni sempre più eclatanti. Il conflitto attraversa le strade di Londra – è la guerra delle vetrine del 1912, a base di sassi ma anche di esplosivi – come la vita privata di Maud, il suo essere moglie e madre: diventare un’attivista significa prendere coscienza di ruoli, di subalternità, confliggere con la famiglia quanto con i propri stessi sentimenti, passaggi psicologici e lacerazioni interiori ben resi dall’interpretazione di Mulligan. E convincente e ad alto tasso di drammaticità appare la restituzione cinematografica della repressione subita dalle suffragette inglesi – nel film, accanto a Maud ci sono la farmacista Edith (Helena Bonham-Carter) e la proletaria Violet (Anne-Marie Duff ): botte, carcere, alimentazione forzata. Fino all’epilogo, l’episodio più tragico di quel movimento: il film si chiude sul funerale di Emily Davinson, che si gettò sotto le  zampe del cavallo del re durante il  derby ippico di Epsom.

Gavron ha definito il suo film una storia che sorprendentemente nessuno mai aveva raccontato e che rilancia una domanda sull’oggi: «Pochi ricordano quello che successe realmente in quegli anni. Le suffragette appiccavano incendi, bombardavano edifici e non avevano paura di niente. Voglio dire, oggi quante persone conoscete pronte ad affrontare uno sciopero della fame per una causa, e, per la stessa causa, essere poi sottoposte alla nutrizione forzata?».

Si potrebbe dire che questo commento può avere, in tempi di fondamentalismi, una doppia lettura: ma è invece certo il messaggio sull’empowerment delle donne che dal film e dalla troupe – quasi interamente femminile – intendeva venire. Il film, in Inghilterra, è stato comunque per certi versi anche criticato: persino le magliette promozionali con la frase di Emmeline Pankhurst “Meglio ribelli che schiave” sono state giudicate portatrici di un messaggio ambiguo e potenzialmente offensivo verso le donne che la schiavitù l’hanno vissuta, e si è notata l’assenza di donne nere, rilanciando la questione di un femminismo bianco e prevalentemente borghese, ad avviso di alcune anche con venature razziste.

Qualcuno, poi, ha sottolineato un eccesso di semplificazione nella ricostruzione: secondo una corrente storiografica, infatti, alla svolta radicale del movimento delle suffragette (peraltro abbastanza diviso al suo interno) va imputato un ritardo nell’ottenimento del diritto di voto,  che divenne realtà compiuta nel 1928, sedici anni dunque dopo gli accadimenti narrati dal film. Suffragette insomma avrebbe potuto essere “molto più coraggioso”, ha scritto Leah Pickett.

Il film ruota attorno a personaggi fittizi che si trovano ad interagire con due importanti suffragette militanti realmente esistite: Emmeline Pankhurst (Meryl Streep) ed Emily Wilding Davison (Natalie Press). La storia ci mostra l’evoluzione della militanza di queste donne durante i mesi che precedono la morte di Emily, la quale per ottenere visibilità si getta davanti al cavallo in corsa di Re Giorgio V.

Il primo pensiero riguarda il cambio radicale di registro rispetto alla tendenza, nelle tradizionali rappresentazioni mediatiche, di sminuire e ridicolarizzare il movimento delle suffragette. In questo film è particolarmente forte, invece, la descrizione della loro sofferenza, degli ostacoli anche violenti che dovevano superare, e della loro totale dedizione alla causa.



Non c’è niente di frivolo nella loro militanza e quello che affrontano non è semplicemente lo sfottò superficiale e distratto di mariti annoiati. Erano attiviste, resistenti, persino terroriste, ma non donne in festa di ritorno da una parata. In questo senso il film secondo noi denuncia e supera il presupposto intrinsecamente sessista che caratterizzava l’immagine un po’ giocosa delle suffragette.

Il secondo tema assolutamente pregnante del film è quello dell’intersezionalità tra genere e classe sociale di appartenenza. Normalmente, è più facile leggere le storie di suffragette della classe media, ma questo film si concentra in particolare sulla storia di donne appartenenti alla classe operaia, molto povere e che erano costrette a lavorare in condizioni estreme, senza nessun diritto e ad un salario al di sotto del livello minimo di sopravvivenza. Le loro vite sono precarie e il minimo “incidente” può causare la perdita di tutto. Non hanno mezzi economici né la protezione politica a fare da rete di sicurezza.

Innanzitutto è interessante il racconto delle loro vite ed esperienze che fino ad ora erano state totalmente neglette, almeno nel mondo del cinema. Inoltre, il film pone una domanda interessante circa la sofferenza e il sacrificio richiesto a seconda della classe sociale: le donne della working class rischiano il tutto e per tutto per la loro causa e soffrono gravi abusi fisici e psicologici. Perdono le loro famiglie e il loro ruolo nella società per dedicarsi esclusivamente alla battaglia per il voto.

Le suffragette della classe media, invece, non subiscono gli stessi abusi perché protette economicamente e politicamente dai loro padri e mariti e difficilmente vanno in prigione. Tuttavia questo loro “privilegio” riflette il livello di sessismo che caratterizzava la società di allora, in quanto solo gli uomini potevano disporre delle loro ricchezze. Il film dunque mostra chiaramente la situazione paradossale per cui queste donne, pur possedendo beni materiali, non possono scegliere come utilizzarli, mentre le donne senza rete di sicurezza, che potrebbero dunque scegliere, non hanno ormai più niente.

La pellicola termina con un messaggio importante: la battaglia per il diritto al voto non è terminata e ci sono ancora paesi che nel 2016 negano alle donne questo diritto umano universale. Ma ci deve anche far riflettere sull’intersezionalità di alcune tematiche (come in questo caso classe e genere) e reagire ogni volta che, ancora oggi, una battaglia femminista viene sminuita e ridicolizzata.

Suffragette ottiene comunque il risultato di tessere un filo rosso che riconduce la questione del voto all’inesausta, complicata ed emozionante lotta per la libertà femminile sotto diversi cieli, attraverso le generazioni e fino a oggi.

Votare è quel vertiginoso ritrovarsi “all’improvviso di fronte a me, cittadino” di cui racconta la scrittrice Maria Bellonci e che tuttora ha da dire, e tanto, alle donne, la cui libertà sotto ogni cielo è sempre in cammino e spesso, per molte ragioni a seconda dei luoghi e delle circostanze, minacciata.


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