sabato 28 maggio 2016

LE VALCHIRIE

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Da domenica arrivano le Valchirie. Ma chi sono?

« Vide, lei, le Valchirie
venire da lontano,
pronte a cavalcare
verso il popolo dei Goti.
Skuld teneva lo scudo,
seconda era Skögul,
Gunnr, Hildr, Göndul
e Geirskögul.
Ora ho elencato
le fanciulle di Heriann,
pronte a cavalcare
la terra, le Valchirie. »
(Edda poetica - Völuspá - Profezia della Veggente)

Erano davvero bellissime: corpo statuario e lunghissimi capelli biondi. Bellissime, vergini e guerriere.

Nella mitologia norrena una Valchiria è una divinità femminile minore che serve Odino.

Nell'arte moderna le valchirie sono dipinte come graziose ragazze armate sopra cavalli alati, con elmo e lancia, tuttavia nell'inglese antico "valkyrie horse" era un sinonimo di lupo. Piuttosto che i cavalli alati, le loro cavalcature erano i branchi di lupi che frequentavano i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia.

Dal momento che il lupo era la cavalcatura della valchiria, la valchiria stessa appariva simile ad un corvo e volava sopra i campi di battaglia per scegliere i corpi. Così, i branchi di lupi e i corvi che spazzavano un campo dopo una battaglia potevano essere stati visti come mezzo per la scelta degli eroi.

Infatti lo scopo delle valchirie era quello di scegliere i più eroici tra i caduti e portarli nel Valhalla, dove diventavano einherjar. Questo era necessario perché Odino aveva bisogno di guerrieri valorosi che combattessero dalla sua parte alla fine del mondo, durante i Ragnarök.

Il Valhalla era una costruzione immensa, impossibile vedere il muro opposto, c’erano cinquecentoquaranta porte talmente grandi che un migliaio di uomini potevano marciare attraverso di esse fianco a fianco.
Il tetto era ricoperto di scudi rotondi e sorretto da forti lance, alle pareti erano appese maglie ed elmi.
Al centro della sala ardeva un lungo fuoco dove erano allineate panche da entrambi i lati: il posto per un nuovo arrivato non sarebbe mai mancato e le Valchirie rapidamente colmavano, sin ben oltre il limite, i piatti di cibo e i corni di birra e idromele.


Una strana capra viveva sul tetto del Valhalla; brucava le foglioline dei rami di un albero e dalle sue mammelle fluiva idromele in abbondanza, tanto che le brocche poste per raccoglierlo traboccavano continuamente.
Un grosso maiale era macellato ogni mattina, cotto e divorato di notte, quindi tornava in vita pronto per essere macellato e mangiato di nuovo al mattino successivo.

Il trono di Odino si trovava nella parte nord del Valhalla ed era lì che il dio si sedeva per unirsi ai festeggiamenti dei suoi eroi, accanto gli sedevano quattro dei suoi figli, Tyr, Hod, Vidar e Vali, tutti dei della guerra.
Terminato il banchetto, quando Odino si ritirava, gli eroi si gettavano sulle panche ricoperte di paglia e dormivano finché un gallo d’oro non li destava di mattino successivo con il suo canto.

Al risveglio l’umore era combattivo, masticavano qualche fungo velenoso per provocarsi attacchi d’ira e saliti sulle panche brandivano le armi e si lanciavano in furiosi combattimenti sul campo di Ida.
Non erano davvero finte battaglie, anzi, ogni eroe combatteva come un forsennato e al termine il campo era cosparso di testa e membra, tuttavia quando suonava la campana che annunciava il pranzo, ognuno andava a raccogliere i pezzi del proprio corpo, li risistemava e insieme varcavano le ampie porte del Valhalla, amici come prima, preparandosi per un nuovo succulento banchetto.
Era così che gli eroi si tenevano in allenamento e allo stesso tempo potevano spassarsela in maniera gloriosa.

Sono nove, figlie di Wotan (Odino) ed Erda (figura creata da Wagner sulla base della Gea greca). Tra queste, la più importante è Brünnhilde, che incarna la volontà stessa del padre e che, compiendo questa, viene punita per aver disubbidito ad un ordine impostole controvoglia da Wotan. Addormentata, verrà svegliata da Siegfried nell'omonima giornata, per poi diventare essenziale nello svolgimento dell'ultima giornata, Götterdämmerung.




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lunedì 23 maggio 2016

IL TAOISMO

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Nella teologia taoista, la concezione tradizionale di divinità è molto diversa da quella occidentale. Non c'è in cinese una parola sola per indicare quello che i cristiani chiamano Dio, ovvero un dio unico e universale, ma i vari termini si sono evoluti in seguito all'evoluzione stessa del concetto entità suprema taoista.

In Cina, già prima della formazione del Taoismo e dell'introduzione del Buddhismo era presente un culto con tratti monoteistici, era il culto di Shangdi (Shang Di, re celeste). Era un culto che venerava il Cielo come entità onnipotente, onnipresente e dotata di personalità. Il culto consisteva in preghiere personali e nella costruzione di templi, tra cui l'ultimo fu il celebre Tempio del Cielo (o del Paradiso). Era diffusa la credenza che Shangdi si manifestasse attraverso gli eventi meteorologici e i disastri naturali, soprattutto per punire i peccatori.

Successivamente il culto andò via via perdendo popolarità, in seguito all'avvento del Taoismo e del Buddhismo, anche se alcuni concetti rimasero in vigore, in particolare come culto imperiale, a causa del legame che si diceva ci fosse tra l'imperatore e il Dio, l'imperatore era infatti il Figlio del Cielo o Mandato del Cielo. Gli imperatori che favorirono il Buddhismo e il Taoismo, sfavorendo il tradizionale culto al Cielo, erano visti addirittura come anomali. Con la decadenza, il concetto di Shangdi venne assimilato e rivisto dalle nuove religioni e dalla religione tradizionale, in quest'ultima, ad esempio, permane tutt'oggi il culto di Tian, divinità celeste. I rimasugli del culto di Shangdi sono rintracciabili anche nelle espressioni popolari: mentre un occidentale può essere abituato ad esclamare Oh Dio!, un cinese è solito dire Oh Cielo!.
In seguito si affermò il concetto del Tao (la Via), non visto più come divinità suprema, ma (come inizialmente spiegato), in qualità di energia cosmica.

Il "Dio" dei cinesi non parla, ma è possibile sentire la sua voce, o meglio partecipare della sua energia, all'energia universale. Per udirlo, conoscerlo e parteciparvi bisogna essere capaci di sentire il respiro della montagna, l'energia del mare, il principio che regola il corso degli astri o della società. Per udire la sua voce bisogna sedersi di fronte al chicco di riso appena seminato e attendere che diventi germoglio e poi pianta matura. Se avremo avuto la pazienza di attendere e di contemplare in silenzio la sua crescita, avremo udito la voce di "Dio" nella pianta che cresce."
Il concetto di entità suprema nel Taoismo non si identifica con un'entità senziente, un dio giudice, padre, che osserva e veglia il mondo dall'alto sulle sorti degli uomini. Al contrario l'entità suprema taoista è energia pura, che pervade l'intero universo. Il Dio del Taoismo è il Tao, la natura stessa di cui l'uomo fa parte, il ciclo perpetuo che provoca il mutare e il divenire di tutte le cose. La natura è fondata sul principio divino del Tao, per cui la materia non è mai priva di spirito e non vi si contrappone, ogni cosa è piena dello spirito del Tao, poiché ogni cosa è costituita da esso. Il Tao non crea il mondo, ma è la vita delle montagne e del mare, degli alberi e degli animali, degli uomini e delle donne, il Tao è il tutto.



Diventa chiaro allora che Dio non è, come in occidente, l'Essere primo, assoluto e trascendente che sta al di sopra e prima di tutti gli esseri concreti, ma un principio o energia immanente che è dentro il cosmo, la natura e la società, e la guida a perfezionamento. Non è un essere personale, ma coincide con l'azione della natura, impersonale e imparziale. Tutto è divenire, cambiamento, secondo un principio ordinatore spontaneo, il Tao, uno, indicibile, immutabile, eterno, impersonale, divino.

Per quanto riguarda invece il termine divinità in senso lato, ovvero entità in grado di intermediare con gli uomini, con l'evoluzione del Taoismo è andato consolidandosi il termine Shen, che si può tradurre appunto come divinità o più in specifico come spirito della natura. Nella religione taoista anche gli shen sono costituiti dal Tao, come lo è tutto l'esistente (esseri umani compresi), essi sono infatti emanazioni di energia pura del Tao.

Si può dire che uno shen sia una qualsiasi entità che si trova in un livello esistenziale superiore a quello umano. Gli shen sono sia le varie divinità protettrici, quali Guanyin, Guangong, l'Imperatore di Giada, i Tre Puri, Tienkuan, Tikuan, Shiuikuan, sia gli spiriti animici, quali il Qi (l'energia vitale), spirito delle facoltà intellettive e psichiche dell'uomo, che deve essere coltivato e considerato per una piena evoluzione della persona verso la perfezione: rappresenta in un certo senso il mistero dell'esistenza, il segreto significato della vita individuale e deve essere decifrato ed accolto per giungere alla salvezza. Gli shen sono un numero elevatissimo di divinità eterogenee, organizzate gerarchicamente, come i protettori di mestieri e dei fenomeni atmosferici; gli spiriti degli elementi della natura; le anime di diverse località (cimiteri, luoghi, guadi, strade); i demoni; le anime degli antenati; gli immortali (xian o shenxian), e i bodhisattva.

L'universo spirituale concepito dal Taoismo è estremamente complesso, però si può fare una suddivisione delle entità divine in due categorie principali, ovvero, gli dèi di una prima dimensione spirituale, più alti, più sottili, più evanescenti; e gli dèi di una seconda dimensione spirituale. Della prima categoria fanno parte tutte le entità divine ancestrali, gli spiriti primordiali. La seconda categoria è invece ulteriormente divisa in tre gruppi. Vi si trovano infatti le divinità celesti, che si trovano ad un livello più trascendentale (ma sempre meno della prima dimensione spirituale); gli spiriti della natura, che si trovano ad una trascendenza intermedia; ed infine gli xian, gli immortali, di cui fanno parte gli spiriti divinizzati dei grandi maestri.

Gli shen dimorano nella natura, in quanto come l'uomo ne fanno parte, solo che si trovano a livelli esistenziali più alti. Alcuni luoghi sono considerati particolarmente favorevoli all'incontro con gli shen, luoghi in cui si assottiglia il confine tra il mondo umano e quello divino: isole sacre, montagne sacre, caverne, fiumi.

YU-Huang è il grande Dio-imperatore di Giada. Egli è figlio dell’unione del Sole e della Luna(yin & yang) e governa la Natura. Tutti gli dèi e tutti gli esseri sono sottomessi a Lui. E’ il Dio governatore-giudice.  Il suo omologo in Terra è l’Imperatore.

Le divinità in Cielo sono organizzate come in Terra l’antico Impero cinese: ognuno ha un suo Ufficio e si comporta come un buon ufficiale Imperiale.

L’imperatore è colui che ha il mandato del cielo per governare la Terra.
Per gli uomini , sottomessi all’Imperatore , seguire gli dèi significa rivestirsi della loro Giustizia e elle loro virtù, soprattutto quelle sociali:  COMPASSIONE, MODERAZIONE, UMILTA’.

Esse sono le virtù necessarie per vivere nel Tao:

«la Bontà Suprema è come l’acqua ,occupa il luogo che tutti aborriscono,il Basso,è Umile.Il suo cuore ama la Profondità e la Misericordia,le sue parole amano la Sincerità.Il suo governo ama l’Ordine ,il suo lavoro la Competenza.La sua azione ama l’Opportunità.Nulla è contro di Essa giacchè essa non è contro nessuno, è non-violenta…»..«1,9-Il ricco ed il superboereditano la propria rovina:diventati ricchi e raggiunta la fama è Sapienza del Cielo..ritirarsi..»

Tali virtù si ottengono attraverso il culto agli dèi che le praticano…e permettono di vivere uniti al Tao.Sotto la dinastia Tang (618-907), accanto al confucianesimo, che restava la religione ufficiale, anche il taoismo ebbe grande fioritura, e Laozi ebbe l'onore di templi commemorativi come Confucio, venerato a sua volta come un'incarnazione del dio supremo.

Lao tzu è venerato come una divinità. Sue manifestazioni sono I Tre Puri:

Yu-ch’ing=Giada Puro,
Shang-ch’ing=Più-alto-Puro
T’ai-ch’ing=il Gran Puro,manifestazione diretta di Lao-Tzu

risiedono nei Tre Cieli, formatisi quando, attraverso il processo cosmologico l’etere cosmologico si frazionò. Attorno a questa triade si sviluppa una vivace attività cultuale.  Lao Tzu tiene in mano un ventaglio su cui è impresso il simbolo del Tao+Yin Yang, simbolo del suo potere, e il simbolo del Gran Mestolo cioè della purificazione rituale.

Con Puro Giada vivono Yuan-Shih T’ien e il Sant'uomo =sheng-gen,
con Più-alto Puro vive Ling Pao T’ien –tsun= Tesoro Spirituale Onorato dal Cielo, e gli eroi.
Essi non sono dèi che governano , piuttosto cercano di salvare il genere umano con l’insegnamento e la benevolenza.

I San-Kuan, che governano su tutte le cose in tre regioni dell’universo,tengono il registro delle azioni buone e cattive e concedono buona o cattiva fortuna a seconda dei dati del registro ,T’ien-kuan, Il governatore del Cielo dona la felicità,  Ti-kuan, governatore della Terra dona la remissione dei peccati  e Shiui-kuan governatore dell’Acqua distoglie dal male, lo previene.

Esse sono divinità che hanno compassione profonda per il genere umano e la loro venerazione risale ai riti dell’epoca dei Taoisti del Turbante Giallo ,setta fondata da Chang-Tao-Ling(157-178 d.c.) che aveva ricevuto il Ling-pao,o scrittura del Tesoro spirituale dagli dèi,aveva trovato l’elisir dell’immortalità e, bevutolo, era asceso al Cielo, lasciando i suoi segreti, compresa la spada che scaccia i demoni, ai suoi figli.

«Tu,povero miserabile popolo,rivestito di malattia e destituito di ogni consolazione,schiacciato sotto il fardello del lavoro e dell’afflizione,mantieni l’astinenza, e avendo fatto un lavacro di purificazione, recita 1000 volte la preghiera in onore del Goverantore del Cielo(=T’ien-kuan).»

I San-yuan sono i governatori delle tre epoche dell’anno:

Shang-yuan le prime 6 lune=Inverno e Primavera,
Hsia-yuan la 7^ e 8^ luna=l’Estate,e
Chung-yuan la 9^,10^ e 11^ luna=autunno.

Risalgono all’epoca della dinastia CHIN (317-420 d.c.).

Divinità molto popolari modellate su figure storiche sono gli Otto Immortali che vivono nelle grotte del Cielo; assomigliano ai santi di tutte le religioni.


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IL TAU

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Il Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Esso venne adoperato con valore simbolico sin dall’Antico Testamento; se ne parla già nel libro di Ezechiele: “Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono...” (Ez.9,4). Esso è il segno che posto sulla fronte dei poveri di Israele, li salva dallo sterminio.

Con questo stesso senso e valore se ne parla anche nell’Apocalisse: “Poi vidi un altro angelo che saliva da oriente e portava il sigillo del Dio vivente, e gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era ordinato di danneggiare la terra e il mare dicendo: non danneggiate né la terra, né il mare, né piante finché non abbiamo segnato sulle loro fronti i servi del nostro Dio” (Ap.7,2-3).

Il Tau è perciò segno di redenzione. E’ segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interiormente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef.1,13).

Il Tau fu adottato prestissimo dai cristiani. Tale segno si trova già nelle catacombe a Roma. I primi cristiani adottarono il Tau per un duplice motivo. Esso, come ultima lettera dell’alfabeto ebraico, era una profezia dell’ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, come appare dall’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dal fonte dell’acqua della vita... Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap.21,6; 22,13).

Ma soprattutto i cristiani adottarono il Tau, perché la sua forma ricordava ad essi la croce, sulla quale Cristo si immolò per la salvezza del mondo.
San Francesco d’Assisi, per questi stessi motivi, faceva riferimento di tutto al Cristo, all’Ultimo: per la somiglianza che il Tau ha con la croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti. In lui il vecchio segno profetico si attualizza, si ricolora, riacquista la sua forza salvatrice ed esprime la beatitudine della povertà, elemento sostanziale della forma di vita francescana.

Era un amore che scaturiva da una appassionata venerazione per la santa croce, per l’umiltà del Cristo, oggetto continuo delle meditazioni di Francesco e per la missione del Cristo che attraverso la croce ha dato a tutti gli uomini il segno e l’espressione più grande del suo amore. Il Tau era inoltre per il Santo il segno concreto della sicura salvezza, e la vittoria di Cristo sul male. Grande fu in Francesco l’amore e la fede in questo segno. “Con tale sigillo, san Francesco si firmava ogniqualvolta o per necessità o per spirito di carità, inviava qualche sua lettera” (FF 980); “Con esso dava inizio alle sue azioni” (FF 1347). Il Tau era quindi il segno più caro per Francesco, il suo sigillo, il segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda che solo nella croce di Cristo è la salvezza di ogni uomo.

Quindi il Tau, che ha alle sue spalle una solida tradizione biblico-cristiana, fu accolto da Francesco nel suo valore spirituale e il Santo se ne impossessò in maniera così intensa e totale sino a diventare lui stesso, attraverso le stimmate nella sua carne, al termine dei suoi giorni, quel Tau vivente che egli aveva così spesso contemplato, disegnato, ma soprattutto amato.
Oggi, moltissimi componenti della famiglia francescana frati, suore, seminaristi aspiranti, francescani dell’ordine secolare, giovani devoti e ammiratori ed amici di san Francesco, portano il Tau come segno distintivo di riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia o alla spiritualità francescana.



Con San Francesco d’Assisi il Tau assume il significato che oggi riconosciamo in questo simbolo. San Francesco utilizzava con frequenza, a scopo di devozione, il Tau: «Familiare gli era la lettera Tau, con la quale firmava i biglietti e decorava le pareti delle celle» (3 Cel. 3, 828). Con tale sigillo, San Francesco firmava le sue lettere ogni qualvolta, per necessità o per spirito di carità, inviava qualche suo scritto (3 Cel. 159, 980). Su se stesso, infine, San Francesco tracciava il segno del Tau per consacrare le sue azioni al Signore. Celano in questo modo racconta la visione di fra Pacifico: «Scorse con gli occhi della carne sulla fronte del beato Padre una grande lettera Tau che risplendeva di aureo fulgore» (3 Cel. 3, 828). San Francesco adottò il Tau come distintivo per se stesso per la forma stessa di questa lettera, la cui grafia è quella di una Croce. Nessun segno che ricordasse il Cristo era di poco conto agli occhi di Francesco. Così venerava il Tau, che gli richiamava l’amore per il Crocifisso. Questo comportamento acquista una particolare importanza se considerato in un’epoca in cui esistevano forti correnti eretiche che rifuggivano da questo stesso segno.

Molto probabilmente, Francesco fu influenzato nella sua attenzione verso il Tau da un discorso di Papa Innocenzo III, tenuto l’11/11/1215, in apertura del IV Concilio Lateranense. Il Papa, facendo propria la parola di Dio al profeta Ezechiele, si rivolse a ciascun membro del Concilio: «Segnate con il Tau la fronte degli uomini, segnateli con la forma della Croce prima che fosse posto il cartello di Pilato. Uno porta sulla fronte il segno del Tau se manifesta in tutta la sua condotta lo splendore della Croce; si porta il Tau se si crocifigge la carne con i vizi ed i peccati, si porta il Tau se si afferma: di nessun altro mi voglio gloriare se non della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Siate dunque campioni del Tau e della Croce». È probabile che Francesco, presente a quel Concilio in cui fu approvata la Regola Francescana, volle, per obbedienza al Papa, segnare se stesso con il Tau della penitenza e, segnando i suoi frati, richiamare le esigenze della vocazione.

Analizzando il contenuto spirituale del Tau in San Francesco, si distinguono quattro grandi temi essenziali per la fede e la mistica francescana.
1) Il Tau è salvezza.
Nessuno può essere salvato se non è "segnato" con il Tau, o, più in generale, con una Croce. Francesco vedeva in questo segno una nuova certezza di salvezza. Il giorno in cui si accorse che frate Leone era assalito dal dubbio sul suo destino eterno, Francesco disegnò la lettera del Tau e gli restituì la speranza.
2) Il Tau è salvezza attraverso la Croce.
Alla salvezza si giunge attraverso il battesimo nel sangue di Cristo, sparso sulla Croce. Tale è il mistero di ogni Croce e del segno del Tau. San Francesco prega: «Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo perché con la Tua Santa Croce hai redento il mondo». La spiritualità del Tau è la spiritualità della Croce, cioè dell’amore di Cristo, morto per noi sulla Croce.
3) Il Tau è salvezza attraverso la penitenza.
Se la Croce porta salvezza, è necessario rinnovare quotidianamente il mistero della Croce in noi stessi, portando ogni giorno la Santa Croce del Signore Nostro Gesù Cristo. Questa è la crociata del Tau, predicata da San Francesco, costituita non da armati per conquistare Gerusalemme, ma da uomini penitenti venuti da Assisi per predicare a tutti: «Fate penitenza, fate frutti degni di penitenza». Come Gesù aveva detto «Chi vuole seguirmi deve portare la Croce», così Francesco si rivolge a noi tutti dicendo «Chi vuole seguirmi deve essere segnato con il Tau, che ha la forma di una Croce».
4) Il Tau è segno di vita e vittoria.
La liturgia del tempo di Francesco fornisce al Tau gli stessi attributi che venivano dati alla Croce: «Est Tau vivifico insignitus... crucifixi servulus». Frequente, anche, a quel tempo, era considerare il Tau come segno di vittoria. San Francesco non avrebbe potuto non cantare la sua gioia di essere stato salvato: «Io non mi voglio gloriare se non nella Croce del Nostro Signore» (Fior. 8, 1836).

In definitiva, il Tau è simbolo di conversione permanente e di rinuncia alla proprietà. Convertirsi, lasciarsi segnare dal Tau, è farsi poveri.

Il Tau non è un feticcio, né tanto meno un ninnolo qualsiasi, esso è il segno concreto di una devozione cristiana, ma soprattutto un impegno di vita nella sequela del Cristo povero e crocifisso.


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venerdì 20 maggio 2016

VACCA SACRA

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La vacca è venerata in numerose culture e religioni, tra cui l'induismo, lo zoroastrismo e culti del passato come quelli dell'Antico Egitto, dell'Antica Grecia e dell'Antica Roma.

Il Mahabharata racconta le origini di questa venerazione:

Un re di nome Vena era così malvagio che i saggi dovettero ucciderlo. Siccome era senza eredi, i saggi gli strizzarono il polso destro e nacque Prithu. Anni dopo ci fu una grande carestia e il re Prithu armato di arco e frecce costrinse la terra a nutrire il suo popolo. La terra prese le sembianze della vacca e lo implorò di risparmiarla, in cambio del latte con cui poteva sfamare tutto il suo popolo. E da allora la vacca si munge, ma non si uccide.

L'art. 48 della Costituzione dell'India vieta la macellazione di vacche e vitelli. La macellazione e la vendita della loro carne è punibile con sanzioni o, nei casi più gravi (e negli stati più severi) con l'imprigionamento.

Il Kerala è una delle poche regioni indiane in cui la macellazione e la vendita della carne di mucca non sono proibite.
In alcune regioni dell'India la vacca è sacra e non può essere uccisa; questo trattamento non è però riservato a bufali e tori, che non sono protetti dalla legge o dalla religione.
Esistono dei Gaushala preposti alla protezione delle vacche più bisognose. Alcuni di questi "ospizi" ospitano fino a ventimila capi, perlopiù vecchie mucche senza più latte - o malate.
L'India produce una quantità di latte tre volte superiore alla Cina e, paradossalmente, è considerata il più grande esportatore di carne bovina.
La popolazione bovina indiana rappresenta il 28% della popolazione bovina mondiale e supera di cinque volte la popolazione umana italiana.

Gli Indù considerano sacri la vacca e il vitello e ritengono che accudire e venerare le vacche porti alla beatitudine. Ma la protezione delle vacche non è stata sempre una caratteristica dell'Induismo: i suoi testi sacri più antichi celebrano i costumi dei Veda, all'interno della cui società, organizzata in caste, quella sacerdotale dei brahmani si occupava della macellazione rituale dei bovini, la cui carne veniva consumata in molte occasioni collegate ad eventi e riti particolari, quali matrimoni, funerali e incontri importanti. Con la crescita della popolazione, in India si ebbe un radicale cambiamento: per nutrire un maggior numero di persone si rese necessario limitare il consumo della carne, ricorrendo in maggior misura ai latticini e soprattutto agli alimenti di origine vegetale, destinando sempre più pascoli alla coltivazione di vegetali commestibili per l'uomo.

Trasformati i pascoli in campi coltivati, i bovini diventarono concorrenti dell'uomo per quanto riguarda le risorse alimentari. Ma il bestiame non poteva essere eliminato del tutto per fare posto all'uomo: gli agricoltori avevano bisogno di buoi per tirare l'aratro sui terreni duri e pesanti della pianura del Gange, il latte e i latticini erano indispensabili, così come lo sterco che è tradizionalmente impiegato come fertilizzante, antiparassitario e combustibile e come tale viene accuratamente raccolto e messo a seccare. Le case nei villaggi vengono tuttora isolate da umidità ed insetti con sterco compattato e poi decorato con farina di riso.

Intorno al 600 a.C. il livello di vita dei contadini peggiorò nettamente, vi furono guerre, siccità e carestie; i sacerdoti continuavano a macellare i bovini e a mangiarne la carne, che non era però più sufficiente per le caste meno privilegiate. In questo contesto, intorno al 500 a.C. nacquero il Buddhismo e il Giainismo, le prime religioni contrarie a qualunque tipo di uccisione. Per nove secoli Buddhismo e Induismo influenzarono, poi opponendosi l'uno all'altro, le abitudini alimentari del popolo indiano. Alla fine prevalse l'Induismo, più vicino alla sensibilità e all'immaginazione popolare, ma solo dopo che i sacerdoti ebbero adottato il principio buddhista e giainista della nonviolenza e si furono presentati come protettori, e non più come macellatori, dei bovini. La carne fu consigliata invece alla casta dei Kshatrya, i guerrieri, che come tali dovevano mantenere alto il livello di forza e aggressività, connesse tradizionalmente al consumo di questo alimento.



Il latte sostituì allora la carne come alimento rituale della casta brahmanica, nonchè come fonte di proteine nobili per tutti. La venerazione della vacca, con connotazioni di affetto filiale nella denominazione di Gau mata, fu elevata a simbolo di tutti i valori tradizionali dalle frange più conservatrici della comunità indù: specialmente nelle campagne, i cinque prodotti vaccini ( latte, cagliata, burro chiarificato, sterco e urina ) elencati nei testi sacri, occupano un posto di rilievo nella vita di molte famiglie e sono impiegati nella maggior parte dei riti religiosi. Krishna e le Gopis, l'adorata manifestazione del dio Vishnu e le sue compagne di giochi, si prendevano cura di bestiame vaccino. Krishna viene infatti spesso indicato col nome di Govinda, il Mandriano, o Colui che rende il bestiame soddisfatto.

Nelle città i bovini vagano in libertà, macilenti, rachitici e affamati, nutrendosi spesso di spazzatura o dell'unico cibo di origine vegetale che trovano: i manifesti affissi ai muri, ma le grandi metropoli ne prevengono ormai il passaggio e lo stazionamento nelle zone centrali, tollerandoli solo nei dintorni dei templi. Anime pie e organizzazioni religiose fondano luoghi di ricovero per gli animali anziani, malati o semplicemente senza padrone, i Gaushala, dove il bestiame viene accudito e riverito fino alla sua ultima ora. L'empio consumo di carne bovina è sempre più spesso causa di scontro e polemica tra la comunità induista fondamentalista e le comunità musulmane e cristiane, ma le attuali problematiche ambientali globali indicano che la tradizione vegetariana e nonviolenta indiana, adottate ormai da millenni, potrebbero essere una soluzione utile anche per il futuro del mondo intero.

Il toro Nandin, il gioioso, è il toro immancabilmente raffigurato insieme al Mahadev (Shiva), di cui rappresenta anche il veicolo sacro, la vacca invece è, in un modo o nell’altro, connessa con tutte le divinità. Gli hindu sostengono che sia il più gentile tra gli animali e che doni all’essere umano molto più di quanto non ne riceva in cambio in fatto di cure ed alimentazione (in India i devoti si occupano di nutrire le vacche), inoltre la vacca è considerata un ineguagliabile esempio materno.
Le mucche e i tori possono pascolare e girovagare liberi più o meno ovunque, le bufale, invece, sono maggiormente controllate e solitamente vivono nei villaggi all’interno o a ridosso delle zone verdi e dei parchi naturali, accudite ed utilizzate per il lavoro nei campi.

Questa situazione sta però lentamente cambiando, il business sta uccidendo la tradizione e c’è un traffico illegale di vacche dall’India verso i paesi confinanti che fanno uso di carne bovina. La situazione crea scompiglio e disordini interni, esiste un vero e proprio fronte hindu che si oppone a questo traffico (gestito solitamente da indiani di altre religioni).



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martedì 17 maggio 2016

LE SUFFRAGETTE DI MARY POPPINS

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Mary Poppins,la governante «praticamente perfetta sotto ogni aspetto» si occupa di un mestiere di cura, tradizionalmente legato all’immaginario femminile, ma lo fa con il piglio e l’indipendenza di una donna libera. Arriva con il vento e mette subito a soqquadro con rigorosa leggerezza il mondo borghese della famiglia Banks. Chissà quanti anni ha, Mary Poppins: non è sposata, ma sembra avere una simpatia ricambiata per un suo amico spazzacamino, Bert. Di certo non un buon partito, ma affascinante, divertente e soprattutto rispettoso dell’intelligenza (e dei superpoteri) della sua amica governante. Mary non si ferma alla cura dei bambini, anzi riesce a tenere testa all’uomo di casa, al bancario Banks, colui che canta «Si addice bene all’uomo il 1906. Son signor del maniero, il capo, il re. Uso forza ma bontà, noblesse oblige» e a cui la suffragetta risponde ossequiosamente senza osare contrastarlo. Poi quando ha finito con il suo lavoro, al cambio del vento, Mary Poppins segue il suo irresistibile desiderio di libertà, che la spinge a volare via di nuovo. Salutando anche l’amico Bert. Convinta di poter contare sulle proprie risorse per sopravvivere.  
 
Delle Suffragette sapeva ben poco anche Carey Mulligan, sorprendente protagonista del film firmato da Sarah Gavron.

Si ricordava giusto, ha raccontato Carey, la sequenza di Mary Poppins che tutti  abbiamo in mente, quella in cui la signora Banks torna a casa dalla marcia per il voto alle donne e deve fare i conti con la governante che se ne va e i bambini spariti, non prima di aver trascinato le donne di casa in un canto vibrante…

Il punto di vista scelto da Gavron per raccontare la storia magnifica e terribile di due anni cruciali, il 1912 e il 1913, per quel movimento. Il punto di vista non è quello di una donna borghese, come Banks (registro parodistico del film a parte), ma di una giovane lavandaia – Carey Mulligan – working class dunque, non quartieri bene ma Bethnal Green, East London che agli inizi del ‘900 era ben lontana dall’essere oggetto delle passioni hipster di oggi.

La giovane che, come generazioni di donne prima di lei, lavora da quando era piccola in una lavanderia gestita da un padrone viscido e molestatore, entra in contatto con il movimento. Che è tutt’altra cosa dall’immagine sbiadita e un po’ folkloristica che ne è rimasta in testa a molti: non violento prima, il movimento suffragista inglese guidato da Emmeline Pankhurst (Meryl Streep che nel film infiamma con un comizio le donne chiedendo loro di prendere in mano il proprio destino), politicamente inascoltato e duramente represso, passa infatti ad azioni sempre più eclatanti. Il conflitto attraversa le strade di Londra – è la guerra delle vetrine del 1912, a base di sassi ma anche di esplosivi – come la vita privata di Maud, il suo essere moglie e madre: diventare un’attivista significa prendere coscienza di ruoli, di subalternità, confliggere con la famiglia quanto con i propri stessi sentimenti, passaggi psicologici e lacerazioni interiori ben resi dall’interpretazione di Mulligan. E convincente e ad alto tasso di drammaticità appare la restituzione cinematografica della repressione subita dalle suffragette inglesi – nel film, accanto a Maud ci sono la farmacista Edith (Helena Bonham-Carter) e la proletaria Violet (Anne-Marie Duff ): botte, carcere, alimentazione forzata. Fino all’epilogo, l’episodio più tragico di quel movimento: il film si chiude sul funerale di Emily Davinson, che si gettò sotto le  zampe del cavallo del re durante il  derby ippico di Epsom.

Gavron ha definito il suo film una storia che sorprendentemente nessuno mai aveva raccontato e che rilancia una domanda sull’oggi: «Pochi ricordano quello che successe realmente in quegli anni. Le suffragette appiccavano incendi, bombardavano edifici e non avevano paura di niente. Voglio dire, oggi quante persone conoscete pronte ad affrontare uno sciopero della fame per una causa, e, per la stessa causa, essere poi sottoposte alla nutrizione forzata?».

Si potrebbe dire che questo commento può avere, in tempi di fondamentalismi, una doppia lettura: ma è invece certo il messaggio sull’empowerment delle donne che dal film e dalla troupe – quasi interamente femminile – intendeva venire. Il film, in Inghilterra, è stato comunque per certi versi anche criticato: persino le magliette promozionali con la frase di Emmeline Pankhurst “Meglio ribelli che schiave” sono state giudicate portatrici di un messaggio ambiguo e potenzialmente offensivo verso le donne che la schiavitù l’hanno vissuta, e si è notata l’assenza di donne nere, rilanciando la questione di un femminismo bianco e prevalentemente borghese, ad avviso di alcune anche con venature razziste.

Qualcuno, poi, ha sottolineato un eccesso di semplificazione nella ricostruzione: secondo una corrente storiografica, infatti, alla svolta radicale del movimento delle suffragette (peraltro abbastanza diviso al suo interno) va imputato un ritardo nell’ottenimento del diritto di voto,  che divenne realtà compiuta nel 1928, sedici anni dunque dopo gli accadimenti narrati dal film. Suffragette insomma avrebbe potuto essere “molto più coraggioso”, ha scritto Leah Pickett.

Il film ruota attorno a personaggi fittizi che si trovano ad interagire con due importanti suffragette militanti realmente esistite: Emmeline Pankhurst (Meryl Streep) ed Emily Wilding Davison (Natalie Press). La storia ci mostra l’evoluzione della militanza di queste donne durante i mesi che precedono la morte di Emily, la quale per ottenere visibilità si getta davanti al cavallo in corsa di Re Giorgio V.

Il primo pensiero riguarda il cambio radicale di registro rispetto alla tendenza, nelle tradizionali rappresentazioni mediatiche, di sminuire e ridicolarizzare il movimento delle suffragette. In questo film è particolarmente forte, invece, la descrizione della loro sofferenza, degli ostacoli anche violenti che dovevano superare, e della loro totale dedizione alla causa.



Non c’è niente di frivolo nella loro militanza e quello che affrontano non è semplicemente lo sfottò superficiale e distratto di mariti annoiati. Erano attiviste, resistenti, persino terroriste, ma non donne in festa di ritorno da una parata. In questo senso il film secondo noi denuncia e supera il presupposto intrinsecamente sessista che caratterizzava l’immagine un po’ giocosa delle suffragette.

Il secondo tema assolutamente pregnante del film è quello dell’intersezionalità tra genere e classe sociale di appartenenza. Normalmente, è più facile leggere le storie di suffragette della classe media, ma questo film si concentra in particolare sulla storia di donne appartenenti alla classe operaia, molto povere e che erano costrette a lavorare in condizioni estreme, senza nessun diritto e ad un salario al di sotto del livello minimo di sopravvivenza. Le loro vite sono precarie e il minimo “incidente” può causare la perdita di tutto. Non hanno mezzi economici né la protezione politica a fare da rete di sicurezza.

Innanzitutto è interessante il racconto delle loro vite ed esperienze che fino ad ora erano state totalmente neglette, almeno nel mondo del cinema. Inoltre, il film pone una domanda interessante circa la sofferenza e il sacrificio richiesto a seconda della classe sociale: le donne della working class rischiano il tutto e per tutto per la loro causa e soffrono gravi abusi fisici e psicologici. Perdono le loro famiglie e il loro ruolo nella società per dedicarsi esclusivamente alla battaglia per il voto.

Le suffragette della classe media, invece, non subiscono gli stessi abusi perché protette economicamente e politicamente dai loro padri e mariti e difficilmente vanno in prigione. Tuttavia questo loro “privilegio” riflette il livello di sessismo che caratterizzava la società di allora, in quanto solo gli uomini potevano disporre delle loro ricchezze. Il film dunque mostra chiaramente la situazione paradossale per cui queste donne, pur possedendo beni materiali, non possono scegliere come utilizzarli, mentre le donne senza rete di sicurezza, che potrebbero dunque scegliere, non hanno ormai più niente.

La pellicola termina con un messaggio importante: la battaglia per il diritto al voto non è terminata e ci sono ancora paesi che nel 2016 negano alle donne questo diritto umano universale. Ma ci deve anche far riflettere sull’intersezionalità di alcune tematiche (come in questo caso classe e genere) e reagire ogni volta che, ancora oggi, una battaglia femminista viene sminuita e ridicolizzata.

Suffragette ottiene comunque il risultato di tessere un filo rosso che riconduce la questione del voto all’inesausta, complicata ed emozionante lotta per la libertà femminile sotto diversi cieli, attraverso le generazioni e fino a oggi.

Votare è quel vertiginoso ritrovarsi “all’improvviso di fronte a me, cittadino” di cui racconta la scrittrice Maria Bellonci e che tuttora ha da dire, e tanto, alle donne, la cui libertà sotto ogni cielo è sempre in cammino e spesso, per molte ragioni a seconda dei luoghi e delle circostanze, minacciata.


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lunedì 16 maggio 2016

IL SOGNO di Giacomo Leopardi



.Era il mattino, e tra le chiuse imposte
Per lo balcone insinuava il sole
Nella mia cieca stanza il primo albore;
Quando in sul tempo che più leve il sonno
E più soave le pupille adombra,
Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore
Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
Degl'infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi, mi disse. e ricordanza alcuna
Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol: nè mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
Internamente? Obblivione ingombra
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa
Doglia m oppresse a queste voci il petto.
Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com'è tutta indarno
L' umana speme. A desiar colei
Che d ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl'inesperti della vita, e molto
All'immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre.
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
Per la tua dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna, o di pietà, giammai
Verso il misero amante il cor t'assalse
Mentre vivesti? Io disperando allora
E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca
La mente mia. Che se una volta sola
Dolor ti strinse di mia negra vita,
Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
La rimembranza or che il futuro è tolto
Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
O sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
Che fui misera anch'io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l'amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta
Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d'affannosa
Dolcezza palpitando all'anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
Gridar volendo, e spasimando, e pregne
Di sconsolato pianto le pupille,
Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
Pur mi restava, e nell'incerto raggio
Del Sol vederla io mi credeva ancora.



Leopardi scrisse il canto "Il sogno" tra la fine del 1820 e la prima metà del 1821. In questo canto Leopardi sintetizza ed armonizza diversi sentimenti e situazioni sue personali con la lettura di due opere di Petrarca. Le due opere di Petrarca sono: il II capitolo del Trionfo della Morte e la canzone CCCLIX delle Rime "Quando il soave mio fido conforto".
Il poeta immagina un dialogo durante un sogno mattutino tra lui e una giovane donna, forse Teresa Fattorini, morta pochi mesi prima, di tubercolosi, il 30 settembre 1818.

La poesia fu pubblicata la prima volta il 13 agosto 1825 nel giornale <<Il caffè di Petronio>> diretto da Pietro Brighenti.

Non ci sono dubbi: si tratta di un sogno e “colei che amore / Prima insegnommi” è inesorabilmente morta. Questa è la certezza da cui parte Leopardi, la certezza della realtà materiale che non lo abbandona mai. Ma subito dopo la “morta” comincia a vivere: gli accarezza la testa, sospira e gli parla. In questa dimensione di vita recuperata anche il poeta parla all’amata. L’illusione è subito spezzata, ma, sentendo la sua voce, Leopardi si rivolge a lei come se fosse viva pur sapendo che è morta (“Dunque sei morta”), e al tempo stesso non potendo credere che ella non viva piú. I due amanti parlano della morte e del dolore cui sono condannati gli uomini, quindi il discorso “scivola” sull’amore. Se mai l’amata avesse provato un sentimento d’amore per il poeta, questi dal ricordo di quel sentimento potrebbe trarre la forza per vivere, visto è che è vana la speranza nel futuro. Il gioco di Leopardi è qui estremamente complesso: il sogno fa vivere in maniera illusoria ciò che non è piú e questa illusione (presente) può creare un passato da usare come ricordo contro il dolore presente. Il risultato immediato è una presenza ancora piú viva dell’amata: ora è possibile accarezzarla, baciarla, abbracciarla, stringerla, sciogliere lo sguardo negli occhi di lei. La verità della morte irrompe di nuovo e l’unica possibilità che resta sembra un dolore sconsolato e un grido di angoscia. Eppure, anche alla luce del sole nascente – svanito il sogno – “Ella negli occhi / pur mi restava / vederla io mi credeva ancor”.

Nel canto “Il sogno” Leopardi sintetizza ed armonizza due esigenze vivide. Da un lato manifesta il suo profondo bisogno di esprimere l'acuto dolore per la morte di Teresa Fattorini che il poeta ascoltava e guardava dal suo balcone prima che lei morisse. Ma, probabilmente, l'ispirazione di scrivere “Il Sogno” venne al poeta dall'intenso desiderio di dare un bacio ad una giovane donna di Recanati, Teresa Brini. Dall'altro lato Leopardi esprime, in forma poetica, sia il suo dolore per la scomparsa della Fattorini sia il suo bisogno reale ed istintivo per la Brini, con le letture di Petrarca il quale aveva descritto, in forma onirica ed elegiaca, il suo incontro con Laura morta. In questo modo, trasferendo tutto nel sogno, il giovane Leopardi immaginava di potere soddisfare il desiderio di dare un bacio reale a Teresa Brini. Il canto sintetizza ed armonizza, in forma poetica ed elegiaca, il mondo interiore e sentimentale del poeta, negli anni tra il 1820 e il 1821, in una forma poetica e culturale simile a quella di Petrarca.
Queste spiegazioni della genesi del canto il poeta le ha lasciate in memoria in uno scritto dal titolo “Ricordi di infanzia e di adolescenza” alla fine del quale il poeta scrive: <<che io allora solo in sogno per la primissima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazione con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vive e restai attonito e conobbi come sia vero che tutta l'anima si possa trasfondere in un bacio e perder di vista tutto il mondo come allora proprio mi parve e svegliato errai un pezzo...>> (da Giacomo Leopardi – Canti – a cura di Lucio Felici – Newton & Compton editori – Pag. 308).

Il messaggio della poesia è certamente la presa di coscienza da parte del poeta che nel sogno riceve la terribile verità che non avrà più un amore nella sua vita. Infatti, la morte della fanciulla, che in giovane età aveva mostrato di avere una certa pietà ed amore per il poeta, costituisce l'evento più terrificante e devastante per Leopardi che sperava di potere amare la giovane Teresa e di esserne ricambiato. Invece, la morte prematura della ragazza, costringe il poeta a rinchiudersi in sé stesso e a disperarsi ancora di più contro la natura e contro il destino. Il giovane Leopardi dopo la confessione della giovane donna, che gli dice che non lo rivedrà più perché il fato ha interrotto il loro amore, non può fare altro che disperarsi, piangere e svegliarsi dall'incubo che gli annuncia la triste verità in piena mattina.
Il poeta, presa coscienza della triste realtà, implacabile ed inesorabile, capisce che è destinato a restare da solo, e l'unica cosa che gli rimane dopo il risveglio è quello di attendere e di sperare.

La tesi del canto “Il Sogno” è la riflessione centrale del poeta e cioè che l'evento più terribile che possa colpire gli uomini, è la morte che colpisce e rapisce, inesorabile, i giovani nel fiore della loro età. Infatti, morire “nel fior degli anni”, è veramente il dolore più irrazionale ed ingiustificabile che possa colpire e capitare ad un giovane. Morire per malattia, per disgrazia o per incidente, nel fior degli anni, è veramente la pena più bruciante ed inconsolabile che colpisce i familiari del giovane. La perdita di un giovane nel fiore degli anni è un doloroso evento, intenso e tremendo, che non dovrebbe capitare a nessuno. Leopardi con questo messaggio afferma che è inutile per un giovane, che muore nel pieno della sua giovinezza, sapere cosa la vita gli avrebbe riservato.



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SCAGLIARE LA PRIMA PIETRA

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Mentre Gesù istruiva nel tempio, gli scribi ed i farisei, condottagli una donna che avevano sorpreso in adulterio, gli avevano detto: “… Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (Gv 8,5).
Volevano con ciò tendergli un tranello. Infatti, se Gesù si fosse manifestato contrario alla lapidazione, avrebbero potuto accusarlo di andare contro la Legge. Secondo questa, infatti, i testimoni diretti della colpa dovevano iniziare a scagliare la pietra su chi aveva peccato, seguiti poi dal popolo. Se Gesù avesse invece confermato la sentenza di morte, l’avrebbero fatto cadere in contraddizione con il suo insegnamento sulla misericordia di Dio verso i peccatori.
Ma Gesù, che stava chinato tracciando con il dito dei segni per terra, dimostrando così la sua imperturbabilità, alzatosi disse:
«Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»
Gli accusatori, a quelle parole, si ritirarono uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani. Il Maestro, rivoltosi alla donna: “Dove sono? – disse -. Nessuno ti ha condannata?” “Nessuno, Signore”, rispose. “Neanch’io ti condanno: va’ e d’ora in poi non peccare più” (cf Gv 8,10-11).

Videre nostra mala non possumus, alii simul delinquunt, censores sumus

Locuzione latina del poeta Fedro.

Significato letterale: "Non possiamo vedere i nostri sbagli ma, appena gli altri fanno errori simili, facciamo la parte dei giudici".

È sempre troppo facile trovare i difetti negli altri e nel loro operato ma, non ci passa neanche per la testa, di fare prima un'analisi di coscienza e vedere se i nostri difetti non siano più grandi o, più numerosi di quelli su cui vogliamo ergerci a giudici.

Del resto - stando ai vangeli - anche Gesù diede come insegnamento la frase: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra".

Concetto che in un'altra forma, ma dall'identico significato, fece suo anche il famoso poeta di Castelvecchio, Giovanni Pascoli, che amava spesso ripetere: "L'uomo, per sua natura, è sempre più contento di criticare gli altri che di essere considerato da essi!".

Lo specchio, secondo l'ottica dei falsi moralisti e degli ipocriti, riflette sempre la nostra immagine migliore, mentre per il prossimo che ci circonda, è sempre il contrario, siamo sempre pronti ad analizzare al microscopio ogni pur piccolo difetto, a volte, anche ingigantendolo esageratamente, per il solo gusto sadico e perverso di voler sembrare (non essere) migliori degli altri.

Il vangelo di Giovanni afferma, raccontando dell’episodio dell’adultera (Gv 8,1-11) che Gesù tracciava segni (8,6) e scriveva per terra (8,8). Il vangelo però non ci riporta né cosa scriveva Gesù né il significato del gesto.

Fin dall’antichità si sono susseguite numerose interpretazioni a riguardo. Una delle più famose e ancora oggi in voga - formulata per primo da Girolamo (IV-V secolo) - è quella secondo la quale Gesù scrive i singoli peccati di coloro che conducono la donna sorpresa in flagrante adulterio. Altri ritengono che, in consonanza con l’uso romano, Gesù scriva il suo verdetto nei riguardi della donna e dei suoi detrattori prima di pronunciarlo. Altri ancora segnalano che il gesto di Gesù col dito richiama la scrittura della Legge da parte di Dio su tavole (Es 31,18; Dt 9,10). Gesù scriverebbe, quindi, la nuova Legge dell’amore misericordioso. Per alcuni infine Gesù fa riferimento a Ger 17,13 in cui il profeta parla del tempio (proprio dove si trova Gesù in quel momento): O speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva.



Questi tentativi a cui se ne possono sempre aggiungere altri, hanno tutti un medesimo risultato: ci lasciano con la bocca asciutta rispetto alla nostra sete di sapere. In effetti, nonostante il fascino che alcune ipotesi possono suscitare, nessuna di esse è convincente perché nessuna di esse è pienamente verificabile. Il mistero di quella scrittura rimane e forse deve rimanere tale in quanto almeno cattura l’attenzione.

In effetti il racconto evangelico ci fa vedere il gesto di Gesù che traccia segni e scrive per terra, ma non ci fa vedere ciò che ha scritto. Occorre allora guardare il gesto e comprenderlo nel suo attuarsi più che lasciarsi prendere dall’ansia di sapere che cosa ha scritto o disegnato. La scena così guadagna in spessore e in impressione visiva.

Un gruppo di facinorosi trascina la donna colpevole davanti a Gesù. Ma il motivo è malizioso, è per metterlo alla prova. Gli scribi e farisei in questione ce l’hanno più con Gesù che con la donna. Ha peccato, la Legge dice di lapidarla, tu che dici? È un chiaro tranello. La risposta secca - è da lapidare oppure no - lo metterebbe in fallo. Da una parte andrebbe contro la Legge, dall’altra lascerebbe attuarsi una condanna e un delitto perpetuati come vendetta nei suoi confronti. La donna è utilizzata come pretesto per questo.

Come a non volerli ascoltare, e disdegnando la propria attenzione, Gesù si china per terra a scrivere, lasciandoli nel loro livore. Ma quelli insistono. Il motivo dell’insistenza è proprio il gesto di Gesù che sembra non volerli ascoltare, né degnarli del proprio sguardo e parola. Gesù allora si erge in una risposta che li ammutolisce e che li riporta alla loro ipocrisia e infine alla propria responsabilità davanti a Dio: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E di nuovo si china a scrivere. Il gesto di Gesù non impone nulla, non risponde alla cattiveria, se ne distoglie. Non è una battaglia a campo aperto, Egli non discute, non argomenta, non discetta, lascia che tutto si compia, ovvero che ognuno prenda le proprie responsabilità.

Non condanna Gesù: né la donna, né quei figuri. Che ognuno abbia la possibilità di andarsene per non peccare più. Alla donna lo dirà esplicitamente: non ti condanno, vai, e d’ora in poi non peccare più. Ma anche i facinorosi farisei e scribi ricevono la stessa possibilità, attraverso i silenziosi e enigmatici gesti di Gesù: che vadano, anch’essi, per non peccare più.


A volte i gesti - lo sappiamo - hanno più efficacia di molte parole.


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giovedì 12 maggio 2016

I HAVE A DREAM

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Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".




È il 28 agosto 1963 quando Martin Luther King pronuncia queste parole davanti al Lincoln Memorial di Washington gremito all’inverosimile da una fiume di persone che hanno partecipato ad una marcia di protesta per lavoro e libertà: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Ho un sogno, oggi!». Da allora sono passati cinquantadue anni, un passato remoto dal quale sono nati i primi passi che hanno portato, ai giorni nostri, all’elezione del primo Presidente americano di colore.


Diciassette minuti – questa la durata del discorso – impressi nelle coscienze di allora e indelebili nelle coscienze di oggi: «Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”».

King ha usato il concetto di «sogno» nei suoi discorsi sin dal 1960, quando ne tenne uno per la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) denominato The Negro and the American Dream. In questo discorso si sottolinea il divario presente fra il sogno americano e la realtà, evidenziando quanto la supremazia bianca abbia violato questo sogno. King suggerisce che «potrebbe benissimo essere che questo negro sia lo strumento di Dio per salvare l'anima dell'America». Un altro discorso incentrato sul «sogno» venne tenuto a Detroit, nel giugno 1963, quando marciò lungo Woodward Avenue con Walter Reuther e il Reverendo C. L. Franklin.

Il discorso della marcia su Washington, noto come I Have a Dream Speech, ha avuto varie versioni differenti fra loro, scritte in diversi periodi. Il testo finale, infatti, è il risultato dell'unione di varie bozze e prendeva il nome di «Normalcy, Never Again». Fu solo durante l'orazione del discorso che King ebbe l'idea di focalizzarsi sulla frase «I have a dream», ispirato dalla cantante Mahalia Jackson che continuava ad urlargli «Parla del sogno, Martin!». Fu proprio a questo punto che King accantonò i fogli e iniziò a parlare a braccio, con spontaneità e improvvisazione.

In ogni caso, la bozza fu redatta con l'aiuto di Stanley Levison e Clarence Benjamin Jones, a Riverdale, New York City. Jones ha osservato che «i preparativi logistici per la marcia erano così gravosi che il discorso non era una priorità per noi» e che quindi «la sera di giovedì, Agosto 27, Martin era ancora incerto su quel che avrebbe dovuto dire».

Comunemente ritenuto un capolavoro della retorica, il discorso di King invoca la Dichiarazione d'Indipendenza, il Proclama di emancipazione e la Costituzione degli Stati Uniti d'America.

King all'inizio si appella ad un testimone assente, Abramo Lincoln: «Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull'Emancipazione». Lincoln è presente sia nell'espressione «grande americano» che in un'allusione al discorso di Gettysburg («Five score years ago...»).

A questo punto viene fatto un uso sapiente delle anafore, con le quali viene rafforzata l'enfasi del discorso. «I have a dream» viene ripetuta otto volte per esaltare l'immagine un'America unificata nel nome dell'integrazione; ma a esser ripetute più e più volte vi sono anche «adesso è il momento» (con cui esorta gli Americani ad agire), «alcuni di voi sono venuti», «tornate», «potremo», «liberi finalmente», «che la libertà riecheggi», «non potremo mai essere soddisfatti».

Le idee espresse nel discorso riflettono le esperienze di etnocentrismo e maltrattamento vissute da King. Mette apertamente in discussione il modo con cui l'America si definisce «nazione fondata per portare giustizia e libertà a tutti i popoli», trascende quelle mitologie secolari ed inserendoli in un contesto spirituale, sostenendo che la giustizia razziale è anche in accordo con la volontà di Dio.

Il discorso di King usa parole e idee già espresse in orazioni passate o addirittura in altri testi. Come già accennato, il concetto di «sogno» è stato già utilizzato in My Country, 'Tis of Thee; inoltre, l'idea dei diritti costituzionali come «promessa non mantenuta» è stata suggerita da Clarence Jones.

La parte finale del discorso di King ricorda parzialmente il discorso tenuto da Archibald Carey Jr. alla Republican National Convention del 1952: in entrambe le orazioni si fa riferimento sia al primo verso di America (un inno patriottico di Francis Smith) che al concetto della libertà che risuona da ogni montagna.

Tra l'altro, nel discorso sono presenti numerosissimi echi biblici. Nella seconda stanza si allude al Salmo 30:5; King, inoltre, accenna velatamente ad Isaia 40:4-5 («ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata») e ad Amos 5:24 («finché la giustizia non scorrerà come l'acqua»). Viene fatto un riferimento anche ai versi iniziali di Riccardo III, nota opera teatrale di Shakespeare dove si dice «ora l'inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole ...»; King, invece, sottolinea che «questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non avrà termine fino a quando non venga un vigoroso autunno di libertà ed uguaglianza».

La resa magistrale del discorso venne lodata nei giorni immediatamente successivi. James Reston, giornalista del New York Times, scrisse che «King ha toccato tutti i temi del giorno, ma meglio di chiunque altro. Era un discorso pieno di rimandi a Lincoln e Gandhi, con la cadenza della Bibbia. Lui era sia militante che triste, e ha dato alla folla l'impressione che fare quel lungo viaggio sia stato utile». Reston ha anche notato che «è stato l'evento più coperto dalla televisione e dalla stampa sin dall'arrivo del presidente Kennedy», e sottolineò che «ci vorrà molto affinché Washington dimentichi la melodiosa e melanconica voce del Rev. Dr. Martin Luther King gridare i propri sogni alla la folla».

Un altro articolo del Boston Globe di Mary McGrory riportò che il discorso di King «ha catturato lo stato d'animo» e «ha mosso la folla» come «nessun altro» predicatore ha fatto durante l'evento. Marquis Childs, The Washington Post, osservò che il discorso di King «è ben superiore rispetto alla mera oratoria». Un articolo del Los Angeles Time ha invece elogiato «l'incomparabile eloquenza» mostrata dal «supremo oratore» King.

Ben diverse furono le reazioni dell'FBI: una volta ascoltata l'orazione, estese il COINTELPRO ed investì King del titolo di «nemico principale degli Stati Uniti».

« Alla luce dell'intenso discorso demagogico di King tenuto ieri, lui si distingue da tutti gli altri leader neri per quanto concerne l'influenzamento della popolazione nera. Lo dobbiamo marcare ora, se non lo abbiamo fatto prima, come il negro più pericoloso di questa Nazione dal punto di vista del comunismo e della sicurezza nazionale.»
Infatti, il discorso fu considerato un successo dal governo Kennedy per la sua campagna sui diritti civili. Venne eletto un «successo di protesta organizzata», tanto che non venne eseguito neanche un arresto. Lo stesso John Fitzgerald Kennedy, che guardava l'evento in diretta TV, si rivelò molto colpito.

Questo discorso è stato oggetto di diverse discussioni in diverse giurisdizioni per determinare se sia coperto o meno da copyright.
La disputa è basata sul fatto che King ha tenuto questo discorso pubblicamente di fronte ad una vasta platea, e solo un mese più tardi ha registrato il copyright (come richiesto dalle leggi statunitensi).

Infine, il 5 novembre 1999, l'XI circolo della Corte d'Appello degli Stati Uniti ha stabilito che l'enunciazione in pubblico del discorso non costituisce una "generale pubblicazione" e non elimina il copyright. Per questo gli eredi di King godono del diritto di richiedere i diritti di riproduzione per il discorso sia in un programma televisivo che in un libro di storia o in altro contesto.

La grandezza di questo discorso sta nella grandezza di un uomo e della sua lotta contro il razzismo e la segregazione razziale. E la potenza di queste parole nasce dall’assoluta verità di un messaggio condotto in larga parte a braccio.

Parole che fanno riflettere, che andrebbero rilette soprattutto per il sapore di universalità e fratellanza del genere umano che ai giorni nostri sembra smarrirsi sempre più in un genere disumano: «Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli». Che il sogno continui.



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