domenica 30 agosto 2015

Un Diamante è Per Sempre .......e la VITA?



Si pensa che i diamanti siano stati inizialmente riconosciuti ed estratti in India, dove furono trovati in depositi alluvionali lungo i fiumi Krishna e Godavari. I diamanti erano utilizzati nelle icone religiose, ed è probabile che fossero noti e considerati preziosi già 6.000 anni fa. Si trovano infatti riferimenti ai diamanti nei testi in sanscrito: l'Arthashastra di Kautilya ne menziona il commercio, opere buddiste, dal IV secolo a.C. in poi descrivono il diamante come pietra molto nota e preziosa, anche se non contengono indicazioni circa le tecniche di taglio.

Un altro testo indiano, scritto all'inizio del III secolo descrive la resistenza, la regolarità, la brillantezza, la capacità di graffiare i metalli e le buone proprietà di rifrazione come qualità desiderabili di un diamante.

La città indiana di Golconda fu per secoli (fino alla metà dell'Ottocento) il principale centro di produzione e vendita dei diamanti, tanto che il suo nome fu sinonimo di ricchezza.

I diamanti giunsero nella Roma antica dall'India e vi sono chiari riferimenti circa il loro utilizzo come strumenti d'incisione.

I cinesi, che non hanno trovato diamanti nel loro paese, non li consideravano in passato come gioielli, mentre apprezzavano molto la giada. Un'opera cinese del III secolo a.C. cita: «Gli stranieri li indossano nella convinzione che essi possano allontanare da loro gli influssi maligni».

Fino al XVIII secolo i diamanti provenivano esclusivamente dall'India o dal Borneo e solo nel 1725 in Brasile, nello Stato di Minas Gerais, furono trovati i primi diamanti provenienti dal Sudamerica. Successivamente, nel 1843, fu rinvenuto il carbonado, un aggregato microcristallino di diamante, di colore bruno-nero, impiegato nell'industria.

Il primo ritrovamento in Sudafrica avvenne nel 1867, nei pressi delle sorgenti del fiume Orange, e fino al 1871 vennero sfruttati unicamente i giacimenti di tipo alluvionale. In seguito si scoprì l'esistenza dei camini diamantiferi, dei quali il più noto è la miniera di Kimberley, che ha dato il nome alla roccia madre del diamante, la kimberlite.

Nel Settecento furono scoperti giacimenti nel Borneo, ciò che diede inizio al commercio del diamante nel sud-est asiatico. Con l'esaurimento delle risorse indiane, avvennero significative scoperte in Brasile (1725) e Sudafrica (Kimberley, 1867). Il Sud Africa divenne quindi il principale centro mondiale per la produzione di questa preziosissima gemma.

La popolarità dei diamanti è aumentata a partire dal XIX secolo grazie alla maggiore offerta, al miglioramento delle tecniche di taglio e lucidatura, alla crescita dell'economia mondiale e anche grazie ad innovative campagne pubblicitarie di successo. Nel 1813, Humphry Davy usò una lente per concentrare i raggi del sole su un diamante in un ambiente di ossigeno e dimostrò che l'unico prodotto della combustione era il biossido di carbonio, provando così che il diamante è un composto di carbonio. In seguito egli dimostrò che alla temperatura di circa 1.000 °C, in un ambiente privo di ossigeno, il diamante si converte in grafite.



I diamanti hanno origine nel mantello della Terra, dove esistono le condizioni di altissima pressione necessarie alla loro formazione. Si pensa che i diamanti ritrovati in superficie provengano da una profondità tra i 150 e i 225 km. I cristalli vengono portati alla superficie, inglobati in una roccia contenente molta olivina (detta kimberlite) da condotti vulcanici mediante eruzione. Questo dà origine ai camini diamantiferi dei giacimenti primari. In seguito, mediante erosione, la kimberlite può venire sgretolata, liberando i diamanti in giacimenti secondari, generalmente di tipo alluvionale.

Diamanti molto piccoli (tipicamente di diametro inferiore a 0,3 mm) sono stati trovati in molte meteoriti cadute sulla Terra. Alcuni studiosi ritengono che impatti di grandi meteoriti, avvenuti milioni di anni fa, possano aver prodotto alcuni (o molti) dei diamanti oggi ritrovati, ma non ci sono prove che avvalorino questa ipotesi.

Il metodo del carbonio-14 non è efficace per la datazione del diamante, perché si limita al carbonio di origine biologica. Risultano inefficaci a tal fine, sempre a causa della purezza chimica del diamante, anche le tecniche di geocronologia. I geologi ritengono però che la maggior parte dei diamanti ritrovati, cioè quelli formati nel mantello e arrivati in superficie, si siano formati tra circa 1 e 1,6 miliardi di anni fa.

I diamanti sono la modificazione cristallizzata del carbonio puro; poiché si sono formati, come il petrolio, in milioni di anni, sono un minerale esauribile. I cristalli del diamante possono avere la forma di un ottaedro o di un esacisottaedro, talvolta con le facce curve. Talora, sulle facce dell'ottaedro, si possono notare delle trigoni, ossia delle incisioni triangolari. Alcune gemmazioni possono portare a cristalli piatti a forma di triangolo smussato. Altre forme in cui si presenta sono i rombododecaedri ed i cubi; tuttavia meno rari, comunque, sono i cristalli esacisottaedrici, cubici e dodecaedrici. Non mancano inoltre cristalli geminati o a simmetria tetraedrica.

Il colore è vario, così come le dimensioni dei cristalli, che molto raramente superano quelle di una nocciola. Il record di grandezza per un diamante grezzo spetta al diamante Cullinan, trovato nel 1905 nella Premier Mine del Sudafrica. Perfetto nella limpidezza e nel colore, pesava 3.025 carati (605 grammi); tagliato in 105 pietre lavorate, le più grandi pesano 516,5 e 309 carati (fino al 1988 i più grandi diamanti lavorati). Attualmente il più grande diamante lavorato è il Golden Jubilee di 545,67 carati, trovato nel 1985 in Sudafrica.

I giacimenti diamantiferi si suddividono in due gruppi: primari e secondari. I giacimenti primari sono quelli in cui i diamanti si trovano ancora all'interno della roccia madre (tipicamente, la kimberlite), mentre i secondari sono quelli in cui essi si trovano dispersi in rocce sedimentarie spesso incoerenti tipo sabbia, ghiaia, trasportati lontano dai luoghi dove si trovava la roccia madre e da cui derivano per disgregazione della stessa, ossia in terreni alluvionali.

Nel caso dei giacimenti primari si deve frantumare la roccia estratta in pezzi sempre più piccoli, alternando le spaccature a lavaggi abbondanti in modo che l'acqua separi la ganga dai materiali più pesanti; il peso specifico relativamente elevato dei diamanti provoca la loro caduta nelle vasche sottostanti (eventualmente mischiati ad altri minerali pesanti).
La maggior parte delle miniere di diamanti è "a cielo aperto" o "a pozzo" (diversamente dalle miniere di carbone, in cui l'estrazione avviene spesso in gallerie scavate in profondità). Tra le più famose miniere diamantifere quelle di Kimberley e la Premier Mine, entrambe in Sudafrica. Le miniere nei dintorni di Golconda in India hanno fornito fino alla metà dell'Ottocento la quasi totalità dei diamanti prodotti nel mondo.

Nei giacimenti alluvionali, non dovendo sminuzzare la roccia, il procedimento è più semplice: si usa solo il procedimento gravitazionale con l'acqua, facendo cadere i diamanti nelle vasche. In seguito i diamanti e i residui di ganga vengono portati via da rulli cosparsi di grasso, al quale i diamanti e la ganga aderiscono. La ganga viene poi fatta scivolare via mediante altri lavaggi. Successivamente, per togliere i diamanti dal grasso, si porta a fusione l'intero impasto; il grasso si scioglie, liberando così i diamanti grezzi. Essi vengono poi suddivisi in due gruppi: di qualità superiore cioè gemmologica (adatti ad essere tagliati e lucidati per produrre gioielli) e di qualità inferiore, adatti per applicazioni industriali.

Si calcola che le miniere primarie producano mediamente un carato di diamanti (0,2 grammi) ogni 3,5 - 4 tonnellate di roccia estratta, mentre dai giacimenti alluvionali si estrae solo un carato ogni circa 15 tonnellate di materiale lavorato.

La produzione mondiale di diamante naturale varia notevolmente di anno in anno, perché i filoni diamantiferi vengono spesso esauriti rapidamente, e l'estrazione prosegue in nuove miniere scoperte, che possono dare produzioni molto diverse.



Complessivamente, circa la metà dei diamanti estratti oggi nel mondo proviene da miniere situate nell'Africa centrale e meridionale. La società sudafricana DeBeers, con sede a Johannesburg, controlla quasi completamente l'estrazione, la lavorazione e commercializzazione dei diamanti di origine africana. Tra le maggiori società al mondo per l'estrazione dei diamanti vi è anche l'anglo-australiana BHP Billiton.

Lo Zimbabwe appartiene alla ristretta schiera dei paesi produttori di diamanti. Prima del 2006 esistevano solo due miniere, dalla produzione modesta: River Branch al sud, la più antica, gestita per qualche anno da compagnie canadesi e australiane e poi venduta per la sua scarsa redditività, e Murowa al centro del paese, sfruttata da Rio Tinto, il colosso minerario australiano.

Nel 2006 furono scoperti i diamanti a Marange, ad est del paese, vicino alla frontiera con il Mozambico. Sono depositi alluvionali, cioè diamanti disseminati in una grande area, lungo i corsi d’acqua, che si possono recuperare anche scavando con il piccone e la pala. La notizie percorse tutto il paese, allora in preda ad una soffocante crisi economica, e in poche settimane la zona si riempì di cercatori artigianali di diamanti. Ma come il miele attira le mosche, i diamanti attraggono gli uomini armati e in divisa. Marange divenne subito un far west, con militari e poliziotti a disputarsi le pietre preziose con cercatori e scavatori.

Un rapporto di Human Right Watch del giugno 2009 denuncia gli abusi contro i diritti umani commessi sistematicamente a Marange. La zona è diventata una sorta di girone infernale intorno al quale sono compiuti veri e propri massacri, stupri, oltre che pratiche di lavoro forzato, spesso minorile, e uccisioni sommarie. Da lì parte un immenso giro di prostituzione, di contrabbando e di corruzione, i cui proventi finiscono tutti nelle tasche di una classe militare e politica, cosciente di essere ormai precaria, quindi intenzionata a sfruttare, o meglio saccheggiare, il paese fino a che sarà possibile.

A scoprire i diamanti a Marange era stata la De Beers, l’azienda sudafricana leader mondiale della commercializzazione dei diamanti, ma anche all’avanguardia per la prospezione dei siti diamantiferi. Ma per una volta la De Beers si sbagliò, e non valutò l’entità di quei giacimenti. Rinunciò alla concessione, e il governo di Harare la trasferì alla britannica African Consolidated Resources.

Per questa piccola impresa sarebbe stato l’affare del secolo, se il governo di Harare avesse rispettato il diritto commerciale. Quando si sparse la voce che quello poteva essere uno dei più ricchi depositi di diamanti del mondo, i legali del presidente-dittatore Mugabe inventarono dei vizi di forma nel contratto, ed espropriarono l’impresa inglese, con tanto di raid negli uffici della compagnia e sequestro di documenti, computer e relazioni sulle prospezioni effettuate.

Alla miniera di River Ranch era accaduta la stessa cosa: la febbre dei diamanti aveva contagiato un generale, Salomon Mujuru, l’eroe della guerra di indipendenza, un cacicco del partito al potere ZANU-PF, Trivanhu Mudariki, e la moglie del presidente Mugabe, Sibonokuhle Moyo. Costituita la Bubye Minerals, ottennero con facilità i diritti di sfruttamento.

Nella sua riunione del luglio 2010 a Sanpietroburgo il Kimberley Process ha votato un embargo dei diamanti prodotti a Marange. Il Kimberley Process è un sistema di certificazione concordato dai governi dei paesi esportatori e importatori di diamanti, con la collaborazione esterna dell’industria dei diamanti e delle Ong, che ha il fine di escludere dal commercio mondiale i diamanti estratti in zone di conflitto e di grave violazione dei diritti umani.

Emissari del Kimberley Process hanno costatato che i militari hanno il controllo quasi totale dei campi diamantiferi di Marange, e che sono loro a manovrare la rete di contrabbandieri.

Quello dello Zimbabwe è un caso esemplare: da una parte, troviamo un dittatore vecchio e impresentabile come Robert Mugabe, ancora al potere grazie al supporto di una cricca interna che non vuole abbandonare il saccheggio del paese; dall'altra, si osserva una popolazione ridotta letteralmente alla fame e privata di ogni diritto.

Dei personaggi che derubano il paese si conoscono i nomi: è l’élite politico-militare che permette al regime di sopravvivere. Non si conoscono invece i nomi di tutte le vittime, in gran parte ragazzi, che in questi anni sono morti nell'inferno di Marange. Ufficialmente sono finora 214, ma le cifre reali sarebbero nell'ordine di alcune migliaia, considerando il fatto che bambini e uomini sono costretti con la forza dall’esercito a lavorare nelle miniere, patendo fame e sete. Chi si oppone a questa forma di schiavitù viene torturato. Non si conoscono nemmeno i nomi di tutti i morti per colera, per mancanza di medicine, per fame.


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sabato 29 agosto 2015

LE PIGNATTE

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La pentolaccia o pignatta è un gioco antico, che prima animava le feste di paese o feste di compleanno dei bambini. Anzi spesso era proprio il pezzo forte della giornata, il momento atteso da tutti. Il gioco consiste nel rompere la pentolaccia con un bastone mentre si è bendati. Realizzarlo è facile ed anche divertente se lo si fa in compagnia. Si possono riempire di caramelle e dolciumi o con cose più spiritose come coriandoli o stelle filanti.

Sono molti a ritenere che le origini del gioco della "pignata"  affondano nella storia della scoperta del Nuovo Mondo: si narra infatti che, all'inizio del XVI Secolo, i missionari spagnoli arrivati nelle Americhe, utilizzarono la "piñata" per attirare i nativi alle loro cerimonie.
Furono tuttavia gli ingegnosi missionari a trasformare questo gioco dandogli un significato religioso: il recipiente di argilla decorato rappresentava infatti Satana, che doveva essere distrutto. La "pignata" più tradizionale aveva inoltre sette coni, che rappresentavano i sette vizi capitali, ed era riempita di dolci e frutta che rappresentavano le tentazioni di abbondanza ed i piaceri terreni. Il partecipante, bendato, rappresentava invece la fede che, seppure cieca, vince il male. Il bastone utilizzato per rompere la pignatta simboleggiava la virtù.  Con la "pignata" tenuta sospesa da una corda, la gente guardava verso il cielo, aspettando il premio: una volta sotto il recipiente, le caramelle e la frutta che ne uscivano rappresentavano la giusta ricompensa per la fede mantenuta.
Oggi la "pignata" ha perso gran parte del suo significato religioso, ed è divenuto un semplice gioco o divertimento. Le "pignate" sono popolari specialmente durante le "posade", ma anche durante le feste di compleanno.

Secondo un’ipotesi diffusa sarebbero stati i cinesi i primi a usare qualcosa di simile alla pignata durante la celebrazione del loro capodanno, che coincideva con l’inizio della primavera. Facevano statuette a forma di mucca, bue e bufalo, le rivestivano di carta colorata, le riempivano di cinque tipi di semi e le spaccavano con dei bastoni colorati. La carta ornamentale che le ricopriva veniva bruciata e la cenere raccolta e conservata come simbolo di buona fortuna per l’anno successivo.



Si pensa che nel XIII secolo il viaggiatore veneziano Marco Polo abbia portato queste statuette in Italia dalla Cina. Qui furono chiamate “pignatte”, e anziché di semi venivano riempite di ninnoli, gioielli o dolciumi. Questa usanza si diffuse successivamente in Spagna. Divenne una consuetudine rompere la pignata la prima domenica di Quaresima. Sembra che all’inizio del XVI secolo dei missionari spagnoli portarono la pignata in Messico.

I missionari, però, si saranno stupiti di scoprire che la popolazione indigena del Messico aveva già una usanza simile. Gli aztechi celebravano la nascita di Huitzilopochtli, dio del sole e della guerra, mettendo nel suo tempio una pignatta di terracotta in cima a un palo alla fine dell’anno. La pignatta veniva abbellita con piume colorate e riempita di piccoli tesori. Quindi veniva rotta con un bastone e i tesori che cadevano a terra diventavano un’offerta all’immagine della divinità. Anche i maya facevano un gioco in cui i partecipanti bendati dovevano colpire una pignatta di terracotta sospesa a una corda.

I missionari spagnoli, come parte della loro strategia per convertire gli indios, si servirono ingegnosamente della pignata per rappresentare, fra le altre cose, la lotta cristiana per sconfiggere il Diavolo e il peccato. La pignata tradizionale era un vaso di terracotta rivestito di carta colorata che aveva la forma di una stella a sette punte. Queste punte dovevano rappresentare i sette peccati capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, invidia, gola e accidia. Rompere la piñata mentre si era bendati rappresentava la vittoria della fede cieca e della forza di volontà sulla tentazione e sul male. I dolciumi all’interno della pignata erano la ricompensa.

In seguito la pignata venne inglobata nei festeggiamenti delle posadas, che si tengono nel periodo natalizio, e questa tradizione è arrivata immutata fino ai nostri giorni. (Una pignata a forma di stella viene usata per rappresentare la stella che guidò gli astrologi fino a Betleem). Rompere la pignata è anche considerato un elemento fondamentale delle feste di compleanno. In realtà la pignata è diventata un’usanza così prettamente messicana che il Messico esporta pignatas anche in altri paesi.
Per molti messicani la pignata ha perso la sua connotazione religiosa ed è considerata dalla maggioranza soltanto un divertimento innocuo. In realtà in Messico viene usata in molte festicciole, e non solo in occasione delle posadas o dei compleanni. E si possono comprare pignatas di diverse forme oltre a quella tradizionale a stella. A volte sono a forma di animale, di fiore o di pagliaccio.



Nel decidere se includere o no una pignata quando si sta in compagnia, i cristiani devono tener conto della coscienza altrui. (1 Corinti 10:31-33) Ci si dovrebbe preoccupare non tanto del significato che aveva questa usanza centinaia di anni fa, ma di come viene vista oggi nella nostra zona. Ovviamente le opinioni possono variare da luogo a luogo, quindi è saggio evitare di fare grandi questioni su tali argomenti. La Bibbia dice: “Ciascuno continui a cercare non il proprio vantaggio, ma quello altrui”. — 1 Corinti 10:24.




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venerdì 28 agosto 2015

VENDETTA o PERDONO



La persona che ha sofferto e vuole far provare la stessa sensazione a colui che l'ha fatto soffrire, in alcuni casi solo per regolare i conti (in genere se non intende avere più alcun rapporto con la persona per lui colpevole) in altri per far capire il dolore provato affinché non si ripeta più (generalmente in casi di interesse nel protrarsi del rapporto con l'altra persona ma appare evidente il danno che comunque una reazione del genere può produrre).
Quando ci si vendica siamo soddisfatti di esserci vendicati e  ci si sente gratificati da un senso di giustizia (che può essere vero o meno) oppure ci si pente di esserci vendicati rendendosi conto del male che ha creato e desidererebbe fare ammenda
In alcuni casi ci si rende conto che l'azione non ha cambiato la situazione e, se prima sentivamo il bisogno di vendicarsi, ora non proviamo più nemmeno quello e spesso si entra in una fase di depressione.
Da notare che non tutte le vendette sono finalizzate a fare del male, alcuni cercano di mandare un messaggio con la vendetta (nonostante l'ovvio errore di base e la difficoltà di comprensione da parte di chi la subisce) e che alcuni soggetti si vendicano solo se vedono l'intenzionalità nell'attacco dell'altra persona sorvolando gli "incidenti".

Vi sono delle persone che, quando hanno ricevuto un torto, lo ricordano a lungo e se, ci ripensano, il rancore si risveglia come fosse attuale. Quando ne parlano percepisci la loro collera e il loro desiderio di vendetta. Vi sono invece delle persone che hanno ricevuto torti anche più gravi, ingiustizie che hanno profondamente influenzato la loro vita, ma in loro a poco a poco il ricordo sbiadisce. Se gliene parlate ricordano i fatti ma non le emozioni provate e non sentono più il desiderio di giustizia, di rivalsa, di vendetta.

Coloro che ricordano i torti di solito sono personalità competitive e invidiose che stanno male se qualcuno li sopravanza o ha più successo, perché è come se lo togliesse a loro. Di solito sono critici, diffidenti, pronti all'accusa e allo scherno. Vedono dappertutto malvagità e complotti. Quando hanno un nemico provano un vero piacere a fargli del male, a farlo soffrire. Se qualcosa va loro male, se non hanno il successo che speravano, se non sono promossi alla carica che agognavano, trovano sempre un responsabile e se lo ricordano per tutta la vita. Non dimenticano e non perdonano.



Gli altri, quelli che non ricordano e non cercano la vendetta, possono essere ambiziosi, ma non sono mai competitivi e invidiosi. Non se la prendono con chi li sopravanza, con chi ha successo e se qualcuno li ostacola non gli viene neppure in mente di fargli del male. Quando non ottengono il risultato desiderato o quando perdono un lavoro o una carica non continuano a ripensarci e non cercano un colpevole. Così a poco a poco diluiscono il ricordo fra gli altri ricordi e dimenticano perfino le persone che hanno fatto loro intenzionalmente del male.

Coloro che dimenticano sono più numerosi di quelli che ricordano perché la mente umana spontaneamente tende a dimenticare. Chi ci fa ricordare gli odi, i rancori, le ingiustizie è la società. Il dovere della vendetta viene trasmesso ereditariamente nel clan e anche gli odi politici sono collettivi, rinnovati dalle commemorazioni, dalle manifestazioni. Poi alla fine anche su questi scende l'oblio, ma talvolta occorrono secoli.

La motivazione a vendicarsi è presente e radicata nell’animo umano da un punto di vista biologico, psicologico e culturale. Nel regno animale diversi studi condotti su primati hanno messo in evidenza il comportamento della vendetta tra scimpanzé dimostrando la primordialità del sentimento vendicativo (McCullough et al., 2009). Anche nella storia dell’uomo, anticamente, possiamo rintracciare il comportamento della vendetta codificato nella Legge del taglione secondo la quale chi subisce un danno ha il diritto di rispondere a sua volta con il medesimo comportamento che sia uguale all’offesa ricevuta.

A un’analisi più approfondita vediamo però che la vendetta e la volontà di rivalsa anche se sono sentimenti naturali e istintivi non portano ad un effettivo risarcimento dal torto subito: la vendetta, contrariamente a quanto si possa pensare non aiuta ad alleviare il dolore provato nell’aver subito un’ingiustizia in quanto la vittima si troverà a rimanere focalizzata sull’evento negativo accaduto, a pensare e ripensare continuamente a come potrebbe farla pagare al suo trasgressore, alimentando ulteriormente le emozioni negative sperimentate (rabbia, ostilità, risentimento). Inoltre se anche la vittima risponde a sua volta con un torto verso il trasgressore, per riparare e pareggiare i conti, difficilmente la vittima si sentirà ripagata come sperava ma si andrà invece ad innescare un circolo vizioso sena fine: con la vendetta il trasgressore iniziale si trasforma a sua volta in vittima che, a prescindere da quali sono state le azioni precedenti che possono avere in qualche modo giustificato la reazione vendicativa, sentirà la punizione come eccessiva, poiché il dolore soggettivo è sentito come maggiore rispetto al torto di cui si era reso responsabile inizialmente, innescando così in un circolo vizioso senza fine e inconcludente.




La vendetta quindi non determina una soluzione di un problema né comporta un sollievo ma acuisce ulteriormente la sofferenza psicologica. Un modo per uscire da questa spirale negativa potrebbe essere il perdono.

Definire il perdono non è semplice. Innanzitutto viene definito in relazione a ciò che non è: non si tratta di negare, minimizzare, scusare l’altro o dimenticare (Toussaint et al., 2012).  Si tratta di un costrutto complesso che implica aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali (Worthington et al., 2007).

Il perdono è un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale, nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono ridotti, non negando il proprio diritto di sperimentarli, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore (McCollough & Worthington, 1995).

Da questa definizione si può capire come il perdono è un processo che implica la consapevolezza da parte della vittima di aver subito un’ ingiustizia ma si sceglie volontariamente di superare la vendetta e di porsi in una posizione diversa.

Secondo Worthington (2007) due sono le tipologie di perdono: da un lato vi è il perdono decisionale ovvero la presa di decisione da parte del soggetto di controllare i propri comportamenti (aspetto cognitivo), dall’altro il perdono emotivo ovvero le emozioni che entrano in gioco durante il perdono in quanto nel perdonare si attiva una trasformazione delle emozioni: da negative come l’ostilità e la rabbia a positive quali compassione e empatia. Tutto ciò si ripercuote nel comportamento che verrà messo in atto.

La capacità di perdonare in ognuno di noi cambia nel corso della vita e non si mantiene stabile negli anni. Kohlberg (1976) distingue tre stadi di sviluppo del perdono in cui le ragioni per cui una persona è motivata a perdonare si diversificano a seconda del momento di vita (McCullough et al., 2009):

il perdono è possibile solo dopo che la vittima ha ottenuto vendetta, quindi ci deve essere prima una restituzione del torto subito che rende possibile il perdono;
il perdono è possibile in quanto ci sono delle regole morali, religiose e sociali che creano pressione e condizionano il soggetto nel modo di reagire a un’ingiustizia;
il perdono è utile in quanto permette di vivere in armonia nel contesto sociale e perdonare significa esprimere il proprio amore in modo incondizionato.
Quando si parla di capacità di perdonare non si fa riferimento solamente a quel comportamento, atteggiamento di compassione e benevolenza che la vittima di una ingiustizia decide volontariamente di riservare al trasgressore, ma riguarda anche il comportamento e l’atteggiamento che una persona può avere verso se stesso qualora sia il responsabile di un’azione dannosa verso altre persone. Bisogna distinguere infatti il perdono in relazione alla fonte della trasgressione: si può essere vittime di un torto e quindi in questo caso il perdono sarà rivolto verso terzi, ma si può anche essere i responsabili di un torto e sentirsi colpevoli del proprio comportamento, in questo caso il perdono deve essere rivolto a se stessi.



Non bisogna dimenticare che il responsabile di un comportamento dannoso per altri è una persona con emozioni e sentimenti, e spesso ci si può rendere responsabili di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale. In questi casi il trasgressore può sentirsi in colpa per quanto commesso e non perdonarsi di aver causato dolore. Esempi di questi casi si rintracciano proprio nei veterani di guerra i quali al rientro da una missione continuano a rimanere focalizzati sugli orrori della guerra di cui essi stessi sono i responsabili, anche se in maniera indiretta. L’incapacità di perdonare se stessi per aver commesso una trasgressione si associa a sentimenti molto dolorosi di colpa, vergogna, rammarico e imbarazzo mentre nella vittima che subisce un’ingiustizia le emozioni più frequenti sono rabbia e ostilità. Secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero connesse ovvero l’incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata a una incapacità di perdonare se stessi (Berit et al., 2010).

A prescindere dalla fonte del perdono, diversi studi hanno messo in evidenza gli effetti del perdono e del non perdono sia sulla salute fisica che mentale.

L’interesse della psicologia per il perdono è andato aumentando negli ultimi decenni, in particolare a patire dagli anni ‘90 del secolo scorso quando diversi studi hanno iniziato a rilevare una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico e per questo l’attenzione si è sempre più concentrata proprio sulla comprensione dei possibili benefici del perdono sulla salute psico-fisica. Saper perdonare potrebbe essere un mezzo per favorire il benessere psicologico, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, ovvero riducendo la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni negative che non aiutano a superare positivamente un’ingiustizia subita ma al contrario ne peggiorano la salute psico-fisica.

Ovviamente non tutti sono disposti a perdonare. Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale.

Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo e complesso processo di elaborazione di un evento negativo accaduto.

Essere capaci di perdonare si associa a minori livelli di depressione e di ansia (Touissaint et al., 2012), di ideazione paranoide, di psicoticismo, di senso di inferiorità o di inadeguatezza. L’incapacità di perdonare se stessi si associa invece a un peggior benessere psicologico, disturbo da stress post-traumatico, depressione, ansia (Witvliet et al., 2004; Dixon et al., 2014).

Perdonare l’altro di quanto accaduto aiuterebbe la vittima a superare veramente la trasgressione e il dolore connesso, evitando la ruminazione ossessiva sull’evento accaduto (Thompson et al., 2012). La ruminazione infatti è una strategia di fronteggiamento dello stress maladattiva, che si associa negativamente al perdono, sia di sé che degli altri (Dixon et al., 2014).

Un interessante modello sulla relazione tra incapacità di perdonare, ruminazione e sintomi depressivi è stato avanzato da Touissant & Webb (2005) in cui si suggerisce una relazione indiretta tra non-perdono e scarsa salute psicologica, mediata appunto dalla ruminazione. La ruminazione, il pensare continuamente al passato e ai propri errori gioca quindi un ruolo centrale nel mediare il rapporto negativo tra capacità di auto-perdono e benessere psicologico (Touissaint et al., 2001).



Secondo il modello l’incapacità di perdonare se stessi si associa, in modo indiretto, a maggiori sintomi depressivi, alienazione sociale e mancanza di sostegno da altre persone (Berit et al., 2010) e aumenterebbe il rischio di mortalità (Hirsch et al.,2011).

Tra i meccanismi che sembrano mediare questo rapporto vi sarebbe il perfezionismo e l’incapacità di accettare le proprie imperfezioni. Due forme di perfezionismo, una maladattiva (autovalutazione di se negativa) e una invece adattiva (coscienziosità, scrupolosità), possono essere presenti e associarsi in modo diverso alla psicopatologia. La forma maladattiva si associa a depressione, mentre la seconda è una forma di perfezionismo più positiva e adattiva, ovvero quella che sostiene, ad esempio, la motivazione a raggiungere successi scolastici (Dixon et al., 2014). Il perfezionismo è un costrutto molto complesso che presenta diverse dimensioni e non può essere considerata in modo univoco come una caratteristica totalmente positiva o totalmente negativa.
Lo studio di Dixon (2014) ha indagato in modo particolare la possibile relazione tra perfezionismo, ruminazione e benessere/malessere psicologico rilevando che la forma di perfezionismo maladattiva correla in modo indiretto con la capacità di perdonarsi, mediato oltre che dalla ruminazione anche dalla accettazione di sé: maggiore è la tendenza al perfezionismo (nel senso di autovalutazione negativa), maggiori saranno i livelli di ruminazione, associato a una minore capacità di auto-accettarsi e auto-perdonarsi.
L’incapacità di perdonare se stessi è stata rilevata in diversi studi su soggetti reduci di guerra, veterani che non riuscivano a perdonarsi di aver commesso delle violenze verso altre persone legate al loro impegno in scenari di guerra. Tra i soldati che avevano sviluppato un Disturbo Post Traumatico da Stress si sono riscontrati infatti livelli molto bassi di auto-perdono (Berit et al., 2010), oltre a livelli elevati di depressione e ansia (Witvliet et al., 2004).

La capacità di perdonare oltre a mostrare benefici sul benessere psicologico, sembra avere effetti positivi anche sulla salute fisica. Diversi studi hanno infatti dimostrato come lo sperimentare per lungo tempo emozioni negative quali rabbia, ostilità, risentimento aumenti l’incidenza di disturbi cardiovascolari (Friedberg et al., 2009). Friedman e Rosenman (1974) furono i primi a notare come le persone con un disturbo cardiovascolare fossero accomunate da un aspetto caratteriale, ovvero una ostilità liberamente fluttuante, ostilità pervasiva e duratura che si attiva in risposta anche a stimoli banali in diverse situazioni quotidiane (Grandi et al., 2011). Il modo in cui il perdono potrebbe promuovere la salute psicologica è proprio attraverso la riduzione di rabbia e ostilità favorendo emozioni positive quali compassione, benevolenza e amore.

Se da un lato pensare continuamente la possibile vendetta, rimanendo per lungo tempo focalizzati sull’evento negativo può aiutare il soggetto a nascondere il sentimento di perdita e di depressione che possono emergere quando si viene lesi moralmente, nel lungo termine non aiuta il soggetto a superare il trauma (Stoia-Caraballo et al., 2008).

La depressione infatti può emergere proprio in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati successivamente la trasgressione, come risultato di valutazioni cognitive negative sull’evento.

La rabbia e l’ostilità rappresentano importanti fattori di rischio per la mortalità a causa dell’aumento della pressione sanguigna che si registra durante tali emozioni negative, aumentando la probabilità di sviluppare, nel lungo termine ipertensione e malattie coronariche. In uno studio sperimentale condotto da Witvliet et al. (2001) sono stati messi a confronto due gruppi di soggetti e a entrambi è stato chiesto di immaginare quale sarebbe stata la loro reazione, la loro risposta ad un torto subito. Nello specifico è stato chiesto loro se avrebbero perdonato o meno il trasgressore: coloro che immaginavano di perdonare colui che li aveva offesi mostravano livelli di stress fisiologici più bassi (frequenza cardiaca e pressione arteriosa) rispetto a chi invece non perdonava il torto subito (Worthington et al., 2007).

La ruminazione continua su un evento in cui si è sperimentato rabbia comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno: diversi studi hanno messo in evidenze come tra le persone con disturbi del sonno vi fossero livelli di ruminazione alti (Stoia-Caraballo et al., 2008). Anche una qualità del sonno scarsa va ad incidere negativamente sullo stato di salute generale del soggetto.

Dagli studi analizzati emerge coma la capacità di perdonare rappresenta una modalità positiva e adattiva di affrontare situazioni di vita dolorose ed evitare che tali situazioni intrappolino il soggetto in un vortice di emozioni negative che compromettono poi la salute e il benessere della persona.

Attraverso un percorso di psicoterapia il soggetto può essere aiutato nel modo di affrontare le situazioni e di reagire ad esse: non necessariamente di fronte a un torto subito si deve reagire con la vendetta, così come non necessariamente il soggetto colpevole di avere arrecato dolore deve continuare a colpevolizzarsi e autocriticarsi continuamente. E’ possibile prendere un’altra strada: da un lato cercare di empatizzare e di essere benevoli con il trasgressore, così da superare l’ingiustizia subita e interrompere il circolo vizioso della ruminazione rabbiosa. Dall’altro accettare di essere imperfetti e che nella vita si possono commettere degli errori. Non si può tornare indietro ed evitare quanto accaduto, è possibile solo accettarsi nella propria vulnerabilità e perdonarsi.

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giovedì 27 agosto 2015

L'INCUBO DELLA SVEGLIA

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Svegliare i bambini al mattino non è facile. Fatica che diventa doppia quando cominciano tutte le scuole di ogni ordine e grado. Come difficile sarà rimettere la sveglia a quei bambini che per tutta l’estate hanno dormito fino a quando volevano, anche fino a tarda mattina. Come svegliarli senza cominciare ogni giornata urlando e di corsa?
Partendo dal presupposto che gli esperti invitano i genitori a dare routine ai bambini, svegliandoli alla stessa ora anche d’estate e nei weekend, sappiamo tutti che se è possibile dormire qualche ora in più nei giorni di festa non fa male a nessuno. Occhio però al ritorno a scuola dei bambini, perché toccherà cominciare presto ad abituarli nuovamente alla sveglia.
In particolare i genitori dovranno avere molto tatto. E molta organizzazione. Tutto il possibile andrà preparato la sera prima.



Mettete la sveglia una mezz’oretta prima rispetto al solito, perché i bambini non si svegliano al primo drin della sveglia (e nemmeno gli adulti). Ricordatevi di mettere l’opzione “ripeti” alla sveglia, che dovrà nuovamente dare l’allarme dopo 10 minuti. A questo punto potrete andare in camera di vostro figlio per svegliarlo.
La luce sparata negli occhi non è un buon sistema, così come non lo è la finestra aperta in pieno inverno: per i bambini più piccoli potete pensare ad una canzoncina del risveglio, mentre per i più grandi provate a far loro delle coccole. Questo è il momento giusto.Io però lo faccio....spalanco tutto.
Una volta scesi dal letto, create una routine che sia un gioco, così anche i più piccoli potranno imparare divertendosi. Non bisogna perdersi in chiacchiere, ma nemmeno fare tutto come se fosse una catena di montaggio, altrimenti il risveglio diventa un vero e proprio incubo. Nonostante sia presto, sorridete.
Ovviamente queste cose non vanno iniziate il primo giorno di scuola, ma qualche giorno prima, così avrete il tempo di abituarvi per bene e non sarà uno choc per nessuno!




In molte famiglie la battaglia si ripete puntuale ogni mattina. Svegliare i bambini, convincerli ad alzarsi, fare colazione, farli vestire, accompagnarli a scuola prima che suoni la campanella è una corsa disperata contro il tempo.

La mattina è opportuno fare le cose senza fretta per non alzare il livello di stress prima di aver cominciato ad affrontare i primi impegni. A tale scopo, poiché i bambini hanno in genere tempi lunghi, è meglio farli dormire un po’ di meno (una mezz’ora) dandogli il tempo, ad esempio, di fare colazione con calma, di andare in bagno più volte, di prepararsi con cura.

E’ molto indicato cercare di creare la mattina un’atmosfera piacevole ed allegra magari con musica vivace e piena di ritmo, capace di “tirar su” un po’ tutti e utile a disporre l’umore “al sereno”. Inoltre, è bene evitare di sgridare i bambini prima che vadano a scuola.

Ogni mattina cerchiamo di scambiare qualche parola con i nostri figli, chiedendogli notizie sulla giornata che li aspetta e salutiamoli sempre personalmente con un abbraccio, una carezza e qualche parola di incoraggiamento.



Nel caso il bambino non vada a scuola volentieri e faccia dei capricci impuntandosi, bisogna cercare di scoprire cosa in particolare lo preoccupi (difficoltà nello studio, problemi con i compagni o gli insegnanti e così via) ed intervenire per risolvere la situazione..

Se ha la lazzaronite è consigliabile fargli scegliere che cosa indossare o cosa portare a scuola di speciale per la merenda.
Raccogliere del materiale per qualche lezione in particolare in modo da farlo sentire importante e fargli venire voglia di andare.
Mettersi d’accordo per andare a prendere qualche suo amico e accompagnarli insieme a scuola.
Invitare qualche compagno a giocare con lui dopo le lezioni.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/03/epidemia-acuta-mal-d-asino.html






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Un Arma Antica Delle Mamme: il BATTIPANNI

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Quante botte!!!!!!!!!!! Che dolor!!!!!!!!!!!!!
Quando le combinavi trovavi la mamma arrabbiata al varco con quast'arnese.

La sua creazione come utensile domestico è da mettere in relazione allo sviluppo della nuova classe sociale borghese, sul finire dell'Ottocento.

Prima di allora, nei grandi palazzi dell'aristocrazia per battere i tappeti la servitù utilizzava delle semplici verghe o bacchette; raramente lo strumento aveva forme particolari o era decorato.

La sua forma è concepita in modo tale da non arrecare danno al tessuto del tappeto grazie alla distribuzione dell'impatto su una superficie più ampia di quella prodotta dall'uso di aste o bastoni, ma al tempo stesso da essere sufficientemente robusto per non rompersi durante l'azione (che può essere anche piuttosto energica) e, trattandosi di un utensile domestico, di essere anche piuttosto leggero, consentendone così un agevole impiego da parte di utenti femminili.



L'ingresso del battipanni nelle case comportò anche l'inizio del suo impiego per la disciplina domestica, soprattutto in paesi come Italia, Germania, Austria e Olanda dove non erano ancora presenti strumenti tradizionalmente dedicati a tale scopo (quali il martinet francese o il cane inglese).

Quando negli anni '50 fu inventato l'aspirapolvere, l'introduzione dell'elettrodomestico dapprima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo fece sì che molti battipanni finissero relegati in soffitta. Tuttavia la presenza dello strumento nelle case non fu affatto eradicata (anche grazie alla duplice funzione a cui si accennava sopra). A tutt'oggi sopravvive all'incalzare della tecnologia, in felice simbiosi con essa, essendosi ritagliato una nicchia nel tradizionale mercato dell'artigianato, al punto da essere persino divenuto oggetto d'arredamento.



Il suo impiego alternativo, invece, è ormai in rapido declino come conseguenza del cambiamento epocale a cui negli ultimi decenni sono andati soggetti la disciplina domestica e i mezzi correttivi per la sua amministrazione.





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IL FEMMINICIDIO



Secondo le ricerche disponibili, la più antica citazione del termine femicide (femicidio) avvenne nel 1801 in un libro pubblicato in Inghilterra ad indicare genericamente "l'uccisione di una donna" , senza alcun riferimento alla violenza di genere come movente. In questo periodo, il termine femicide veniva infatti usato come opposto ad homicide, che identificava l'uccisione di un essere di sesso maschile. Fonti legali successive indicano nel 1848 l'anno in cui l'uccisione di una donna divenne un reato giuridicamente perseguibile nel Regno Unito.

La prima citazione del termine nella sua accezione moderna, come "uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso delle donne" è invece del 1990, ad opera della docente femminista di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana Russell.

Successivamente il termine è stato utilizzato dalla stessa Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing. La Russell identificò nel femmicidio una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l'esito di pratiche misogine.

Il termine è stato ripreso e diffuso da numerosi studi di diritto, sociologia, antropologia, criminologia e utilizzato negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez. "Nuestras Hijas de regreso a casa" è il movimento fondato da Marisela Escobedo Ruiz, uccisa nel gennaio 2010 in Messico nel corso della sua protesta per ottenere la verità sulla morte della figlia. A un anno di distanza Norma Andrade, altra fondatrice di Nuestras Hijas, subisce un attentato.

È proprio dall'analisi della diffusione dei crimini compiuti contro le donne che la Lagarde propone la sua definizione.

Il femminicidio a livello mondiale è diffuso soprattutto nei paesi dell'America Centrale e del Sud.

Non esiste in Italia un osservatorio nazionale sul femminicidio come in altri paesi, per esempio Spagna e Francia. Dal 2005 i Centri antiviolenza raccolgono i dati delle donne uccise dai casi riportati dalla stampa. Solo nel 2012, secondo l'indagine svolta dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna i femminicidi in Italia sono stati 124, i tentati omicidi di donne 47. Il 70% circa delle donne sono state uccise da uomini con cui avevano o hanno avuto una relazione sentimentale (mariti, compagni, ex mariti, ex compagni etc.); la maggior parte degli omicidi vengono compiuti nella casa della coppia, della vittima o dell'autore, circa 80% delle donne sono italiane, come anche gli autori sono spesso italiani; la maggior parte di loro vive nelle Regioni del Nord. Solo negli ultimi anni è nata una certa attenzione soprattutto nei mass-media con trasmissioni televisive come Amore criminale si è potuto notare l'impegno di giornalisti come Riccado Iacona, è nato uno spettacolo teatrale sull'omicidio di donne Ferite a morte, di Serena Dandini. I Centri antiviolenza ma anche molti Comuni e altri Enti pubblici per il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza alle donne e 8 marzo, Giornata internazionale della donna, organizzano flash mob, convegni, seminari, eventi pubblici di sensibilizzazione sul tema della violenza contro le donne e il femminicidio. A giugno 2013 il parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Istanbul e ad agosto 2013 il governo italiano ha emanato con decreto legge norme penali che aggravano le ipotesi di atti persecutori od omicidio contro il coniuge od il convivente, tramite specifiche aggravanti dei reati.



La base dati della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) "La salute per tutti" per la Regione Europea, aggiornata fino al 2010-11, mostra chiaramente come:

in Italia il tasso di vittime di omicidi e lesioni colpose sia di uomini che di donne è in lento declino a partire dagli anni settanta;
questo declino è comune alla maggior parte dei paesi europei, con poche eccezioni;
la media in Italia, negli ultimi 20 anni si è mantenuta al di sotto di quella della EU;
il tasso di mortalità violenta per le donne in Italia negli ultimi anni è ampiamente al di sotto di quello degli uomini e si è ridotto anche rispetto agli anni '90, in cui aveva raggiunto 0,6 casi su 100.000, mentre nel 2008 era sceso a 0,39 su 100.000;
il tasso di mortalità per le donne in Italia è molto più basso della media delle donne europee, di quanto non sia quello degli uomini, rispetto alla loro media.
Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite, nel rapporto sulla visita effettuata nel gennaio 2012 in Italia per verificare l'applicazione CEDAW denuncia invece un elevato numero di femminicidi in Italia (127 donne uccise da uomini nel 2010) e richiama il governo a politiche in contrasto a questo fenomeno. Dalla lettura del documento emerge che Rashida Manjoo sottolinei come, a suo parere, ci sia stato un limitato sforzo da parte del Governo e della società civile nel raccogliere dati sulla violenza contro le donne, incluso il femminicidio, e come invece questo sia importante per il corretto funzionamento delle politiche statali.

L'11 maggio 2011 è stata sottoscritta ad Istanbul dai membri del Consiglio d' Europa la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Tuttavia vi è previsto che la convenzione entrerà in vigore (cioè diverrà vincolante per tutti gli stati membri del Consiglio d'Europa) solo dopo che almeno 10 stati membri l'avranno ratificata: sono quattro gli Stati che l'hanno ratificata rapidamente (Albania, Montenegro, Portogallo, Turchia), mentre il quinto è stato l'Italia con effetto dal 16 luglio 2013, mentre successivamente c'è stata la ratifica da parte dell'Austria, della Bosnia-Erzegovina e della Serbia (e quindi la convenzione è oggi in vigore solo negli otto stati che l'hanno ratificata, dei quali solo tre dell'Unione europea).



Imbarazzi e polemiche tra il Vaticano e Kiko Arguello, iniziatore del cammino neocatecumenale, che ha parlato dal palco di San Giovanni in Roma sabato 20 giugno in occasione del Family Day.

Ciò che è stato sottovalutato, passando quasi inosservato, è il passaggio fatto da Arguello sul 'Femminicidio'. "Dicono che questo tipo di violenza di genere sia a causa dalla dualità maschio-femmina. Bene, non è così. Se quest'uomo (riferito all'uomo svizzero che rapì le figlie e poi si uccise) è ateo nessuno gli conferisce l'essere come persona, ha solo una moglie che gli dà un ruolo: "Tu sei mio marito" e così lui si nutre dell'amore della moglie". Dice Arguello.
"Ma se la moglie lo abbandona e se ne va con un'altra donna quest'uomo può fare una scoperta inimmaginabile - prosegue - perché questa moglie gli toglie il fatto di essere amato, e quando si sperimenta il fatto di non essere amato allora è l'inferno. Quest'uomo sente una morte dentro, così profonda che il primo moto - spiega Arguello - è quella di ucciderla e il secondo moto, poiché il dolore che sente è mistico e terribile, piomba in un buco nero eterno e allora pensa: 'Come posso far capire a mia moglie il danno che mi ha fatto?'Allora uccide i bambini. Perché l'inferno esiste. I sociologi - conclude il passaggio - non sono cristiani e non conoscono l'antropologia cristiana, il problema è che non possiamo vivere senza essere amati prima dalla nostra famiglia, poi dagli amici a scuola, poi dalla fidanzata e infine da nostra moglie".

Il 46 per cento delle donne che si rivolge ai centri antiviolenza lo fa perché subisce violenze psicologiche. Il dato emerge dai quasi 2000 casi di donne che nel 2012 hanno chiesto aiuto a sei centri di Milano e provincia per maltrattamenti di diverso tipo (violenze sessuali, fisiche e psicologiche). “La violenza psicologica comprende una serie di comportamenti che vanno dalla svalutazione all'insulto – spiega Paola Aquaro, psicologa di Telefono donna – e che minano l’autostima della donna, facendola sentire continuamente in ansia e in pericolo”. E invita a considerare che il 15 per cento dei 117 femminicidi avvenuti a livello nazionale nel 2013 sono iniziati proprio con episodi di questo tipo.



Chi mette in pratica la violenza contro le donne non è di solito persona senza lavoro e con una bassa istruzione. Al contrario. Uno su quattro è laureato. Dai dati della cooperativa Cerchi d’acqua emerge che la maggior parte dei maltrattatori lavora: uno su cinque è operaio, ma c’è anche una buona percentuale di imprenditori e professionisti (23 per cento) oltre a commercianti e artigiani (23 per cento).
Quello che i media non dicono. “Dobbiamo cercare di far passare il messaggio che potrebbe succedere a me come a chiunque, indipendentemente dall'età o dalla professione", dice Lorella Zanardo, autrice del documentario di denuncia “Il corpo delle donne”. Al contrario oggi sui media la violenza sulle donne è spettacolarizzata, tanto da perdere il senso della notizia: i servizi che ne parlano fanno "infotainment – aggiunge la regista -. Chi produce i programmi pensa a drammatizzare, a creare suspence con musica e riprese voyeuristiche degne di un film drammatico, ma in questo modo non si fa una corretta informazione”. Anche la scrittrice Loredana Lipperini, autrice con Michela Murgia di “L'ho uccisa perché l'amavo cerca di denunciare il linguaggio dei media che troppo spesso finisce per dipingere le donne come vittime di un dramma sentimentale inevitabile.



LEGGI ANCHE : http://popovina.blogspot.it/2015/08/perche-pedofili.html



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lunedì 24 agosto 2015

PERCHE' PEDOFILI?



L’immagine popolare del pedofilo è quella di un uomo di una certa età, una sorta di “sporcaccione” generalmente in pensione o disoccupato che, oltre a molestare ogni qualsiasi bambino che gli capiti a tiro, può avere anche altre anomalie del comportamento sessuale, o “parafilia”, come l’esibizionismo, il voyeurismo o altro. Le statistiche più recenti indicano, invece, che l’abitudine a molestare i bambini inizia generalmente attorno ai 15-16 anni, che di solito la vittima è nota al pedofilo e quest’ultimo spesso è un parente, un amico di famiglia o un frequentatore della casa che non presenta apparenti anomalie di comportamento.
L’attrazione erotica che alcuni sentono per i bambini non si traduce necessariamente in atti sessuali completi: il pedofilo può limitarsi a spogliare il bambino e guardarlo, a mostrarsi, a masturbarsi in sua presenza, a toccarlo con delicatezza o ad accarezzarlo, può convincere il bambino a toccarlo a sua volta e così via. C’è anche chi si limita guardare del materiale pornografico, materiale che oggi, navigando in Internet, può essere rintracciato abbastanza facilmente. Va infatti ricordato che, oltre ai pedofili attivi, ci sono anche i pedofili “latenti”, che non giungono a prendere l’iniziativa.
Altri pedofili sentono attrazione per i bambini di una particolare fascia di età, spesso quella in cui loro stessi ebbero per la prima volta delle esperienze erotico-sessuali con un adulto o un ragazzo più grande. Per altri ogni bambino può essere oggetto d’attenzione. C’è chi preferisce i maschi, chi la femmine, chi invece ricerca bambini di entrambi i sessi. Alcuni sono attratti sessualmente soltanto dai bambini (tipo “esclusivo”), altri sono talvolta attratti anche da adulti (tipo “non esclusivo”).
Alcuni praticano la pedofilia soltanto occasionalmente e non ricercano attivamente i bambini.
La maggior parte dei pedofili cerca di non maltrattare i bambini che riesce ad avvicinare, sia per l’attrazione nei loro confronti, sia perché vuole evitare che essi possano lamentarsi, parlare, “fare la spia”. Se scoperti solitamente i pedofili parlano delle loro molestie verso i bambini in termini molto delicati, ricorrendo alle più svariate razionalizzazioni.
Possono proclamare, ad esempio, il valore educativo di abbracci e carezze, oppure giustificarsi sostenendo che, in quell’occasione, il bambino era stato seduttivo, che era stato proprio il piccolo a sollecitare le avance sessuali dell’adulto, che da queste aveva ricavato poi un evidente piacere, ecc.
Alcuni rivendicano apertamente il loro “diritto” di amare i bambini di cui si sentono attratti a volte in maniera insopprimibile. “La nostra battaglia è come quella antiproibizionista. Chiediamo la libertà d’espressione per chi crede sia giusto amare i bambini. La nostra linea culturale, quando non c’è violenza, non c’è prostituzione, non c’è sfruttamento, va rispettata. Mettendoci in carcere fate di noi dei perseguitati”: è quanto ha dichiarato, in una sorta di “manifesto programmatico”, uno dei tre italiani responsabili di un network internazionale di pedofilia via Internet scoperto nel 1998. questa persona ha anche aggiunto:”Quando non c’è violenza, quando il bambino è consenziente, l’attenzione dell’adulto e il rapporto tra i due vanno considerati leciti” (Corriere della Sera, 8/9/98).
È evidente che, nella dichiarazione di questo “amante dei bambini”,il punto critico sta tutto nel termine “consenziente”. Può essere considerato “consenziente” un bambino che non sa cosa sta per fare, o che cosa gli sta per succedere, e che si trova in una posizione di nette inferiorità -dal punto di vista del potere, della comprensione, dell’esperienza e dell’autonomia emotiva- nei confronti di un adulto che ha un piano e degli obiettivi precisi?



Ci sono anche altri tipi di pedofili, meno “buoni” di quelli a cui fa riferimento il ”manifesto” appena citato. Sono quelli che praticano il cosiddetto “pedosadismo”.
In questo caso l’attrazione per i bambini e i ragazzini è associata a forme più o meno spinte di sadismo. Si tratta quasi sempre di individui privi di senso morale, spesso affetti da disturbi mentali, cresciuti in un clima di degrado ambientale e psicologico, che qualche volta finiscono per uccidere le loro vittime. Sono casi estremi ma, poiché i media tendono a enfatizzarli, si può avere l’impressione che tutti gli approcci pedofili possano finire in tragedia, il che ovviamente non è.
Va anche considerato che spesso l’eliminazione fisica del bambino non è premeditata, ma si verifica come alla reazione alla paura di essere scoperti. Dagli studi emerge, in particolare, che i pedofili violenti, per lo più, sono stati a loro volta vittime di violenza nell’infanzia, soprattutto di tipo omosessuale. Anche i pedofili non violenti hanno avuto frequentemente esperienze sessuali, basate però sulla seduttività e sull’affettuosità.
Le donne pedofile sono più rare degli uomini, spesso isolate o affette da una qualche forma di squilibrio psichico. Come gli uomini anche le donne possono creare notevoli dissesti psicologici. Quando una donna obbliga un bambino, o una bambina, a pratiche erotiche o sessuali, gli effetti possono essere devastanti, soprattutto se si tratta della madre. Per un figlio infatti la madre è una figura di attaccamento principale. Da lei si attende protezione e rispetto più che da qualsiasi altro adulto di sua conoscenza.

Secondo studi condotti in vari paesi occidentali, nell’85% dei casi l’abusante è un familiare, o un membro della famiglia allargata.
Un tratto tipico dell’abuso sessuale nella famiglia nucleare allargata è il silenzio: si teme che, parlando, il colpevole possa finire nelle mani della giustizia e la famiglia sfasciarsi. Questo è il motivo per cui i dati quantitativi sull’incesto peccano per difetto e i resoconti degli abusanti sono per lo più retrospettivi.
I casi più numerosi delle denunce sono a carico di patrigni e padri (70% dei casi), ma ci sono anche zii, cugini, fratelli, sorelle maggiori e qualche volta la madre. L’età media delle vittime è tra 6-8 e i 12 anni, ma alcuni bambini sono stati abusati in età inferiore. Il padre, o patrigno, autore di incesto (padre “endogamico”) occupa spesso all’interno della famiglia e tende ad ostacolare qualsiasi tentativo degli altri membri (specialmente della vittima) di intraprendere delle relazioni sociali al di fuori delle mura domestiche. Anche la vittima dell’incesto (spesso la figlia, più raramente il figlio) è sovente isolata e alla ricerca di contatto umano. In alcuni casi il rapporto incestuoso può essere sostenuto da alcuni “vantaggi secondari”: l’abusante ricompensa la vittima con regali e privilegi all’interno del nucleo familiare e questa può considerarsi come l’unica persona in grado di tenere unita la famiglia. Poiché nelle famiglie incestuose c’è quasi sempre una diffusa paura di arrivare alla disgregazione familiare (con conseguenti difficoltà economiche per alcuni membri), è stato ipotizzato che l’incesto abbia, a volte, la funzione “secondaria” di tenere unita una famiglia disfunzionale: un uomo che, ad esempio, non ha più rapporti con la moglie potrebbe andarsene da casa se non fosse per la relazione che intrattiene con la figlia. Per parte loro le figlie che sono oggetto di attenzioni particolari sono spesso coinvolte in situazioni di “inversione di ruolo” nei riguardi della madre. Quest’ultima finisce col delegare (implicitamente) alla figlia il ruolo di “donna di casa” e, più o meno inconsciamente, la incoraggia ad assumere anche gli aspetti sessuali. Il rapporto della figlia con la madre è in questi casi, ovviamente, molto conflittuale.
I genitori possono sembrare delle personalità ben adattate. Tuttavia, un esame più accurato della loro storia passata rivela spesso la presenza di un abbandono precoce da parte dei loro stessi genitori. Molti padri o patrigni incestuosi hanno subito deprivazioni affettive nell’infanzia. Analogamente, le madri sono spesso donne dipendenti o bisognose d’affetto, le cui mamme sono state spesso assenti od ostili. Qualche volta ai test psicologici entrambi i genitori possono mostrare segni di paranoia, squilibri, grosse inibizioni sessuali.
La personalità dei pedofili è polimorfa. C’è infatti chi ritiene che “la tendenza ad avere un contatto sessuale con i bambini può essere considerata secondo un continuum che va dall’individuo per il quale il bambino rappresenta l’oggetto sessuale scelto (pedofilia) a quello (l’altro estremo) per il quale la scelta di un oggetto sessuale immaturo è essenzialmente una questione di opportunità o coincidenza” (Ajuriaguerra, 1979).
Nel secondo caso si potrebbe parlare di soggetti “adattabili”, o “superficiali”, individui che non si pongono tanti problemi e prendono ciò che capita e che viene loro offerto. Ciò aiuterebbe, tra l’altro, a spiegare il fenomeno del turismo sessuale, praticato non solo da pedofili ma anche da persone che intrattengono normalmente rapporti con partner adulti.
Anche le tecniche per adescare i bambini sono di vario tipo. Naturalmente, quelle degli estranei sono più raffinate di quelle dei familiari. C’è chi in spiaggia corteggia la mamma per poi arrivare alla figlioletta, chi addirittura sposa una donna divorziata per avere poi accesso ai figli, chi cerca di diventare amico di famiglia per ottenere la fiducia dei genitori, chi avvicina bambini con carenze affettive o trascurati e via dicendo. Un pedofilo pentito ha rivelato il suo metodo “infallibile”: “Sono un radio amatore, era sufficiente che mi mettessi con la veranda con la mia radio per avere attorno un nugolo di maschietti dagli 8 ai 12 anni” (Howitt, 1998). Il che non significa che tutti i pedofili pianifichino le loro azioni nel dettaglio: alcuni agiscono senza premeditazione, lasciandosi condurre dagli eventi e sfruttando ogni occasione.
Un’inchiesta condotta da Conte et al. (1989), dell’università di Chicago, su venti pedofili in terapia mostra come generalmente gli “amanti dei bambini” siano ben consapevoli di ciò che fanno. È quello che emerse dalle risposte dei 20 pedofili pentiti (maschi tra i 20 e i 60 anni) osservati nel corso di quella ricerca dettero ai loro terapeuti.

Alla domanda: “Quante sono state le sue vittime?”, le risposte variano da un minimo di 1 ad un massimo di 40, con una media di 7.3 . 18 mesi era la vittima più giovane. In molti casi la vittima era imparentata con il pedofilo. Alla domanda: “c’era qualcosa nell’aspetto del bambino che ti attraeva?” alcuni indicavano soprattutto i tratti fisici (pelle liscia e morbida, corpo snello, capelli lunghi, volto grazioso, aspetto femminile) altri atteggiamenti e tratti del carattere:”vivace, socievole e affezionato. Sentivo che era il soggetto ideale perché aperto e fiducioso”. “Mi attraeva molto lo sguardo che era pieno di fiducia. Quando sono sospettoso non ti guardano in faccia”, “Aveva un aspetto vulnerabile. Era insicuro. Si fidava di tutti”.
“se erano in parecchi con un aspetto simile”, veniva poi chiesto ai soggetti “cosa ti spingeva a sceglierne uno piuttosto che un altro?”. Molti dissero di orientarsi verso i più deboli, quelli più bisognosi di protezione e più facilmente circuibili. Ecco alcune delle risposte: “Sceglievo il più giovane o quello che, secondo me, non avrebbe parlato”, “Quello che cercava protezione. Quello che i fratelli e sorelle si trascinano dietro come un peso. Quello a cui piaceva essere tenuto sulle ginocchia, a cui piacevano le mie carezze, che si lasciava toccare senza fare proteste e senza rivoltarsi contro”. Ancora: “Capisco quando il bambino ripone fiducia in me: lo vedo da come si muove, da come mi si rivolge e mi chiede le cose”, “Si capisce se un bambino ha già avuto di queste esperienze, perché è più tranquillo e remissivo quando si usano certe parole, si fanno delle allusioni o si prendono delle iniziative”, “Sceglievo gli isolati, quelli senza amici o trascurati e maltrattati, perché questi bambini sono alla ricerca di qualcuno che si prenda cura di loro”.
Alla domanda: “Dopo aver individuato una vittima potenziale, pensavi alla possibilità di essere scoperto?”, la maggior parte rispondeva affermativamente, spiegando come la paura determinasse il modo in cui avvicinavano i bambini: “Si, avevo paura di essere scoperto, perciò aspettavo il tempo e i luoghi giusti. È il motivo per cui mi rivolgevo ai bambini di non più di 7 anni. Alcuni ne avevano 3 e non penso che capissero cosa stessi facendo. Cercavo bambini che non fossero in grado di riferire”, “Avevo paura per tutto il tempo che li tenevo con me”, “Mi assolvevo pensando che non li stavo molestando, ma che soddisfacevo una mia curiosità”.
Alla domanda: “Dopo aver identificato la vittima, cosa facevi per convincerla a restare con te?”, alcuni parlavano di regali, altri delineavano strategie diverse: “Parlavamo, giocavamo insieme fino all’ora di andare a letto. Sedevo sul letto in slip e valutavo le sue reazioni”, “Le facevo il solletico, ridevamo, la toccavo. Con i bambini il contatto fisico è più importante della seduzione verbale”, “Cercavo di essere simpatico: gli proponevo dei giochi, gli mostravo attenzione, gli facevo i complimenti”, “Mi comportavo in modo tale che si sentisse sicuro con me”, “Lo attiravo con qualche scusa: un giocatolo, una cosa buffa o altro”, “Lo staccavo dagli altri”.

La maggior parte delle persone non pensa ai bambini come a dei possibili partner o “oggetti sessuali”. Perché per alcuni non è così? Si tratta di una malattia o di un impulso naturale? Secondo moli psicologi e psichiatri i pedofili hanno una personalità immatura, problemi di relazione, o sensi di inferiorità, che non consentono loro un rapporto con un adulto “alla pari”: si focalizzano sui bambini perché possono controllarli e dominarli. Con loro non provano sentimenti di inadeguatezza. L’immaturità emerge anche dall’incapacità di questi individui di assumere un ruolo responsabile. È vero che un bambino può, di tanto in tanto, assumere degli atteggiamenti provocanti o seduttivi, ma chi si lascia attivare sessualmente da tali atteggiamenti disinibiti e per lo più inconsapevoli è una persona che non sa tener conto del contesto. Questi stessi atteggiamenti e movenze suscitano, in una persona responsabile, un sentimento di tenerezza o di divertimento, non una reazione di tipo sessuale.
Secondo la psicoanalisi classica, i pedofili abituali sarebbero preda di un disturbo narcisistico della personalità. Nei bambini essi rivedrebbero se stessi nel periodo della propria infanzia, idealizzerebbero il corpo e la bellezza infantile, o preadolescenziale, e rievocherebbero lo stesso trattamento, o il suo opposto subito in passato. Sarebbero dunque al centro di un circuito che si autoalimenta e che li porta compulsivamente indietro nel tempo, al momento in cui essi stessi hanno vissuto quel tipo di esperienza, hanno provato eccitazione-paura e anche il turbamento di essere depositari di un segreto incomunicabile, una sorta di doppia vita.
I pedofili sarebbero insomma rimasti “fissati” a quelle emozioni intense e a quegli schemi estetico-erotici che ora cercano di esplorare e rivivere, senza riuscire ad evolvere verso forme diverse di erotismo, incuranti della differenza tra generazioni e negando l’esistenza di ruoli e funzioni adulte. A ciò si aggiunge, nei pedofili abituali, il piacere della trasgressione e, oggi, anche quello di trovare propri simili su Internet. Qui, oltre a scambiarsi materiale e informazioni, possono rivendicare un’identità in contrapposizione a tutti coloro che disapprovano i loro comportamenti o combattono la pedofilia.
Infine, in casi in cui il disturbo narcisistico della personalità sia associato a gravi tratti asociali, le determinanti inconsce del comportamento sessuale possono pericolosamente connettersi alle dinamiche del sadismo. La conquista sessuale del bambino, in questo caso, rappresenta uno strumento di vendetta per gli abusi subiti, una sorta di puntello alla scarsa stima di sé. Un senso di trionfo e di potere può accompagnare la trasformazione di un trauma passivo in una vittimizzazione perpetrata attivamente: il bambino è così visto come un oggetto che può essere facilmente dominato e terrorizzato, che non provoca frustrazione e non si vendica.
Alcuni autori (Ward et al., 1995) hanno anche elaborato un modello teorico che mette in relazione i problemi di intimità dei pedofili con i diversi tipi di attaccamento. Essi hanno individuato tre diversi tipi di molestatori:
1) Gli “ansiosi-resistenti”, che hanno scarsa autostima, si considerano indegni d’amore e ricercano costantemente l’approvazione degli altri. In presenza di un partner che può essere controllato (come un bambino in stato di bisogno o di carenza) essi si sentono sicuri, mentre sono incapaci di stabilire relazioni emozionali con persone adulte. Talvolta possono diventare dipendenti emotivamente dal rapporto con i bambini, con la conseguenza che i confini tra adulto e bambino si perdono e la relazione affettiva si trasforma in sessuale. Curano e corteggiano i bambini e raramente usano mezzi coercitivi.
2) Gli “evitanti-timorosi”, che presentano un forte desiderio di contatto insieme alla paura del rifiuto, tanto da evitare relazioni intime con adulti percepiti come rifiutanti. Le modalità con cui il soggetto mette in atto l’abuso sono caratterizzati da scarsa empatia e uso della forza.
3) Gli “evitanti-svalutativi”, che hanno come meta il conseguimento dell’autonomia e dell’indipendenza, per cui sono alla ricerca di relazioni con il minimo contatto sociale possibile e il minor grado di apertura emozionale e personale. Al pari degli evitanti-timorosi cercano rapporti impersonali, caratterizzati però da un maggior grado di ostilità e aggressività che può condurre a comportamenti coercitivi violenti o sadici.

Sono pochi i pedofili che accettano di farsi curare e molti non si considerano malati. Alcuni, come abbiamo già detto, rivendicano pubblicamente la liceità dei loro approcci, sostenendo che c’è abuso soltanto quando c’è costrizione violenta. Costoro affermano che anche un bambino piccolo è in grado è in grado di scegliere e di dimostrare il suo rifiuto, se non gradisce certi contatti. Sul sito Danish paedophile association si possono trovare sintetizzate le risposte che i pedofili “buoni” danno ai quesiti principali: “la pedofilia non è una malattia e non deve essere curata; la pedofilia è sempre esistita; le cause della pedofilia non devono essere ricercate in ipotetiche violenze subite nel passato; i pedofili sia uomini che donne, nel 75% dei casi preferiscono soggetti del proprio sesso; non è nocivo un rapporto con un bambino consenziente, bensì il clamore suscitato se viene scoperto; la sessualità non è cattiva, in qualunque forma si manifesti, ma un aspetto gradevole dell’esistenza; i bambini hanno una loro naturale seduttività, perché reprimerla?”.
I pedofili che usano seduzione e blandizie e condannano le violenze hanno fondato associazioni per difendere il “diritto di libertà sessuale del bambino”, a parer loro oppresso da una società sessuofobia. Secondo quest’ottica i veri danni ai bambini sarebbero provocati da: dal fatto di dover mantenere segreti i “giochi” che fanno con gli adulti (segreto che di per se creerebbe sensi di colpa); dalle trafile giudiziarie (interrogatori e confronti) che fanno seguito alle denuncie; dal comportamento dei genitori: se questi non comunicassero al figlio il timore di poter essere vittima di violenza, sostengono i pedofili, il bambino non si sottrarrebbe alle attenzioni sessuali degli adulti, non ne proverebbe vergogna e, alla fine, non verrebbe neppure ucciso.
Uno degli obbiettivi dei pedofili organizzati è proprio quello di indebolire l’influenza che i genitori hanno sui figli. A questo proposito l’associazione di pedofili The Slurp ha stilato una lettera, idealmente rivolta a tutti i bambini, allo scopo di vincere le loro resistenze.



Sempre più spesso, nonostante la censura di Stato si affanni per impedire la divulgazione di questo genere di notizie, vengono riferiti dalla stampa, ma soprattutto dai siti internet italiani ed esteri, episodi di pedofilia che hanno come protagonisti dei preti.
Viene da chiedersi: perché i preti diventano pedofili? Molti penseranno che sia uno degli effetti del celibato forzato, ma se dipendesse semplicemente da questo, dovremmo osservare somiglianze statistiche con analoghe situazioni di castità obbligatoria, cosa che non risulta. Del resto, se la condizione di celibato diventasse insostenibile per il prete, perché non ripiegare nella normale eterosessualità adulta, più o meno clandestina?

No, certamente il comportamento pedofilo non può essere spiegato con la semplice repressione sessuale, nemmeno se esasperata e prolungata negli anni.

Sebbene la pedofilia sia un crimine particolarmente odioso perché colpisce le vittime più indifese e disarmate, va tuttavia detto che essa evidenzia uno stato di regressione psichica da parte di chi la mette in atto.

Un pedofilo non è mai completamente adulto, bensì cerca, a livello inconscio, di rievocare simbolicamente la sua stessa infanzia. La mancanza di maturità sessuale da parte dei  preti, che l’esperienza del seminario non ha certo potuto permettere,  potrebbe aver “fissato” lo stato evolutivo psichico ad uno stadio preadolescenziale.

Questa interpretazione narcisistica del comportamento pedofilo dei preti sarebbe confermata dall’osservazione dell’età media delle vittime, spesso compresa fra gli 8 e i 12 anni. Va anche sottolineato che nella quasi totalità dei casi si tratta di pedofilia omosessuale, ed anche questo elemento ci fa capire come il prete pedofilo abbia pesanti conflitti da risolvere con sé stesso, con la propria sessualità, con la propria storia e  soprattutto con la propria identità.

La pedofilia è comunque un fenomeno estremamente complesso, non è semplicemente espressione di tendenze regressive infantili negli adulti (altrimenti i pedofili sarebbero milioni!).

Va considerato un altro fondamentale aspetto: il rapporto sado-masochistico. Anche qualora non vi sia violenza, è innegabile che il pedofilo, per sottomettere la vittima, faccia leva sul suo potere adulto e sulla sua superiorità fisica e psicologica.

E’ anche evidente che lo scopo del pedofilo non è di procurare piacere, ma di ottenerlo, anche usando la propria preda come fosse un giocattolo inerme. C’è dunque una notevole componente ideologicamente autoritaria nella pedofilia. Un autoritarismo che si esprime come un bisogno di possessivismo morboso, invincibile, da cui non ci si può sottrarre.

E’ estremamente significativo che in molti episodi riportati dalle cronache, si nota che i preti pedofili generalmente non prendono particolari precauzioni per nascondere i propri perversi comportamenti. Nel loro delirio di onnipotenza (che è anch’esso di origine infantile) essi preferiscono contare sulla omertà delle proprie vittime piuttosto che sul mettere in atto i comportamenti devianti in contesti protetti, magari lontano dal proprio ambiente.

A questo punto possiamo avanzare un’ipotesi che forse dà un senso logico a tutto quanto esposto precedentemente, e che potrebbe almeno in parte spiegare il ricorrente nesso fra comportamento pedofilo e condizione di prete.

Riepilogando, abbiamo analizzato le principali componenti della pedofilia e abbiamo riscontrato regressione, autoritarismo, possessivismo morboso.  Guarda caso, si tratta dell’essenza più intima della teologia cattolica!

Il cattolicesimo, fra tutte le religioni del mondo, è infatti quella che offre al popolo il maggior numero di simboli infantili: non a caso il personaggio più proposto, più venerato, più rappresentato e rispettato è una mamma. Poi, proprio come si fa con i bambini, vengono continuamente propinate  promesse, minacce, premi e punizioni. Raramente, o forse mai, si parla di responsabilità personale o di libere decisioni, quelli sono comportamenti troppo adulti, i cattolici possono solo osservare, seguire, credere,  aderire, obbedire, confessare, pentirsi, ecc.

Sempre a proposito di regressione infantile, si osservi che il principale rito cattolico, nonché il comportamento più meritorio e sacro, è un comportamento “orale”, cioè l’eucarestia. Che i buoni cristiani debbano fare la comunione tutte le domeniche ricorda incredibilmente un vecchio luogo comune: “i bambini buoni mangiano tutta la pappa”. Non solo: nella liturgia cattolica si insiste, non a caso, sul fatto che l’ostia debba essere “imboccata” dalle mani del sacerdote, e non presa in mano dall’adepto. Come accade con una mamma che nutre un bambino che non sa ancora tenere in mano il cucchiaino.

Pochi hanno notato che, a suo tempo, ci fu un richiamo di papa Wojtyla  proprio su questo argomento, ovvero dell’ostia “imboccata” dal prete, dato che molte chiese si stavano disinvoltamente protestantizzando su questa formalità apparentemente insignificante, distribuendo ostie direttamente nelle mani dei fedeli. Ma alla chiesa certi dettagli non sfuggono, perché ne conoscono l’enorme portata psicologica.

Ed è infatti così che la chiesa vuole che siano i suoi sottoposti: inermi, inconsapevoli, bambini che si abbandonano ciecamente nelle mani di una autorità protettiva e consolatoria. Bambini che non sanno nemmeno usare le proprie mani. Guarda caso, anche i pedofili hanno bisogno di soggetti passivi ed inconsapevoli. Curioso vero?

Sta di fatto che il bambino stuprato, vittima del pedofilo, magari del prete-pedofilo, è quindi una metafora del cattolico perfetto: sottomesso, timoroso, silenzioso, fiducioso che ciò che accade è per il suo bene.

Il prete pedofilo non cessa dunque di essere prete (“Tu es sacerdos in aeternum”), anzi, forse esprime nella forma più eloquente ed esplicita quella ideologia che la sua mente ha assorbito da anni e anni, finendo per identificarsi con essa. Avete notato? I preti pedofili se scoperti non lasciano mai il sacerdozio, a differenza dei preti che hanno avuto delle “banali” relazioni con donne. Inoltre, difficilmente vengono sospesi dalle celebrazioni religiose, tutt’al più vengono trasferiti “per non dare scandalo”.

Ora sappiamo perché: la pedofilia esprime in realtà ruoli e significati profondamente ed intimamente “cattolici”, sebbene il prete pedofilo abbia il paradossale ruolo di essere contemporaneamente vittima (sia dei suoi problemi personali che di una ideologia oggettivamente nociva per l’equilibrio psichico) e carnefice (perché commette abusi senza preoccuparsi dei danni indelebili che procura agli altri).

La dinamica “prete pedofilo-bambino” è dunque una efficace metafora del rapporto fra la chiesa e i suoi fedeli, fra l’istituzione possessiva e autoritaria, e i suoi seguaci ingenui e “bambini”.

Tra l’altro  la chiesa, battezzando bambini inconsapevoli, e indottrinandoli sin dalla scuola materna, a ben vedere mette in atto le stesse tecniche di adescamento usate dai pedofili, che infatti fondano la loro seduzione proprio sulla non conoscenza, sulla non consapevolezza e persino sul senso di timore riverenziale che la vittima avverte “dopo” l’avvenuto “battesimo” (in questo caso il termine va interpretato con un doppio senso).

In entrambi i casi, questi bambini “vittime” (sia di pedofili che di chiese pedofile) sanno provare solo sensi di colpa, e non l’opportuno e sacrosanto diritto alla propria integrità mentale e fisica. Infatti, come tutti gli psicoterapeuti sanno bene per esperienza professionale, ricevere una educazione rigidamente cattolica non lascia minori conseguenze negative nella personalità rispetto agli effetti dei traumi psicologici che derivano dal subire episodi di pedofilia. Anzi forse questi ultimi, essendo tutto sommato più circoscritti, possono essere superati più facilmente.


Un’altra analogia simbolica fra pedofilia e cattolicesimo la troviamo, nientemeno, nella messa. La rievocazione del sacrificio di una vittima innocente! Il rito del cosiddetto “agnello” che viene sacrificato sull’altare “per l’espiazione dei nostri peccati”.

Un prete, dunque, che celebra la messa, drammatizza simbolicamente (per la teologia cattolica addirittura materialmente) il “sacrificio di una vittima innocente”.  Potremmo paradossalmente dire che anche i pedofili “sacrificano vittime innocenti”. Questo è molto importante perché è il cuore dell’ideologia cattolica. Abituare la propria mente a pensare che sacrificare vittime innocenti sia un rituale sacro, positivo, espiatorio, purificatore e da cui scaturisce il bene, può certamente confondere l’inconscio, “abituandolo” a concezioni sottilmente perverse e sacralizzate.

Il prete pedofilo, stuprando bambini, per quanto spaventoso e deviante possa sembrare, non fa altro che “celebrare una messa”, usando simboli diversi ma evocando significati analoghi, ovvero: la vittima innocente va sacrificata. Il suo sangue non è la prova della violenza umana, al contrario, esso ci “lava” e ci purifica! Del resto, cose simili accadevano anche in molti antichi riti religiosi. Quanti poveri animali sono stati torturati, dissanguati e uccisi affinché i sacerdoti si illudessero, in tal modo, di ripulire sia la propria coscienza che quella altrui!

L’omertà della chiesa, e le sue solite negazioni dell’evidenza, oltretutto, impediscono a questi preti di essere curati, supportati da specialisti della psicologia, magari portati in psicoterapia. E perché no, studiati di più, affinché si possa tentare di prevenire il continuo ripetersi di questi fenomeni.

Evidentemente la chiesa preferisce tenersi dei preti pedofili, che continueranno a fare vittime innocenti, piuttosto che correre il rischio di confrontarsi con delle menti liberate.




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