La parola "samurai" ha avuto origine nel periodo giapponese Heian, quando era pronunciata saburai, e significava "servo" o "accompagnatore". Fu soltanto nell'epoca moderna, intorno al periodo Azuchi-Momoyama e al periodo Edo del tardo XVI e XVII secolo che la parola saburai mutò in samurai. Per allora, il significato si era già modificato da tempo.
Durante l'era di più grande potere dei samurai, anche il termine yumitori (arciere) veniva usato come titolo onorario per un guerriero, anche quando l'arte della spada divenne la più importante. Gli arcieri giapponesi sono ancora fortemente associati con il dio della guerra Hachiman.
I samurai usavano una grande varietà di armi, anzi un'evidente differenza tra la cavalleria europea e i samurai riguarda proprio l'impiego delle armi, poiché i samurai non ritennero mai che esistessero armi disonorevoli, ma solo armi efficienti ed inefficienti. L'uso delle armi da fuoco costituì una parziale eccezione, in quanto fu fortemente scoraggiato durante il XVII secolo dagli shogun Tokugawa, fino a proibirle quasi completamente e ad allontanarle del tutto dalla pratica della maggior parte dei samurai.
Nel periodo Tokugawa si diffuse l'idea che l'anima di un samurai risiedesse nella katana che portava con sé, a seguito dell'influenza dello Zen sul bujutsu; a volte i samurai vengono descritti come se dipendessero esclusivamente dalla spada per combattere. Raggiunti i tredici anni, in una cerimonia chiamata Genpuku, ai ragazzi della classe militare veniva dato un wakizashi e un nome da adulto, per diventare così vassalli, cioè samurai a tutti gli effetti. Questo dava loro il diritto di portare un katana, sebbene venisse spesso assicurata e chiusa con dei lacci per evitare sfoderamenti immotivati o accidentali. Insieme, katana e wakizashi vengono chiamati daisho (letteralmente: "grande e piccolo") ed il loro possesso era la prerogativa del buke, la classe militare al vertice della piramide sociale. Portare le due spade venne vietato nel 1523 dallo Shogun ai cittadini comuni che non erano figli di un samurai, per evitare rivolte armate, perché prima della riforma tutti potevano diventare samurai.
Un'altra importantissima arma dei samurai, cui erano connessi importanti riti scintoisti, fu l'arco e non fu modificata per secoli, fino all'introduzione della polvere da sparo e del moschetto nel XVI secolo. Fino alla fine del XIII secolo anzi la via della spada (kendo) fu meno considerata della via dell'arco da molti esperti di bushido. Un arco giapponese era un'arma molto potente: le sue dimensioni permettevano di lanciare con precisione vari tipi di proiettili (come frecce infuocate o frecce di segnalazione) alla distanza di 100 metri, arrivando fino a 200 metri quando non era necessaria la precisione.
Veniva usato solitamente a piedi, dietro un tedate, un largo scudo di legno, ma poteva essere usato anche a cavallo. La pratica di tirare con l'arco da cavallo divenne una cerimonia Shinto detta Yabusame. Nelle battaglie contro gli invasori mongoli, questi archi furono l'arma decisiva, contrapposti agli archi più piccoli e alle balestre usate dai cinesi e dai mongoli.
Nel XV secolo, anche la lancia (yari) divenne un'arma popolare. Lo yari tese a rimpiazzare il naginata allorquando l'eroismo individuale divenne meno importante sui campi di battaglia e le milizie furono maggiormente organizzate. Nelle mani dei fanti o ashigaru divenne più efficace di una Katana, soprattutto nelle grosse cariche campali. Nella battaglia di Shizugatake, in cui Shibata Katsuie fu sconfitto da Toyotomi Hideyoshi (da allora anche noto come Hashiba Hideyoshi) i cosiddetti "Sette Lancieri di Shizugatake" ebbero un ruolo cruciale nella vittoria.
Seppuku è un termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai. In Occidente viene usata più spesso la parola Harakiri, a volte in italiano erroneamente pronunciato come karakiri, con pronuncia e scrittura errata dell'ideogramma hara. Nello specifico, però, Seppuku e Harakiri presentano alcune differenze, qui di seguito spiegate.
Con il nome di Jigai, il seppuku era previsto, nella tradizione della casta dei samurai, anche per le donne; in questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l'agonia. Anche di ciò è presente una descrizione nel citato libro di Mishima, Cavalli in Fuga.
L'arma usata poteva essere il tanto (coltello), anche se più spesso, soprattutto sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, detto per questo guardiano dell'onore, la seconda lama (più corta) che era portata di diritto dai soli samurai.
I samurai seguivano un preciso codice d'onore, chiamato Bushido (via del guerriero), la più famosa opera che lo sintetizza è l'Hagakure di Yamamoto Tsunetomo (1659-1721). Non bisogna però ritenere che il Bushido praticato nelle diverse epoche in cui vissero i samurai fosse sempre attinente ad un medesimo codice d'onore, privo di modifiche o di differenze. Per esempio l'Hagakure è sostanzialmente diverso e confliggente in molte parti con un'altra celebre opera sul Bushido, scritta poche decine di anni prima, il "Libro dei cinque anelli" di Miyamoto Musashi. Infatti il concetto di onore dell'Hagakure è basato sull'accettazione della morte e sull'obbedienza cieca al proprio signore, mentre Musashi lo lega alla ricerca dell'autoperfezionamento, e alla completezza culturale e filosofica. Si noti che Musashi non era un "vero" samurai ma un bushi, rifiutandosi per tutta la vita di prestare servizio ad un signore giurandogli fedeltà, rimanendo sempre indipendente; una pratica normale nel XV e XVI secolo, ma che nel XVII risultava alquanto "eccentrica", e considerata con sospetto negli ambienti culturali affini a quelli in cui fu redatto l'Hagakure. Inoltre Musashi si interessò pochissimo dell'onore formale e l'etichetta, concentrandosi soprattutto sull'onore sostanziale e personale.
I precetti dei samurai furono pesantemente influenzati dalle principali correnti spirituali e culturali giapponesi. Verso il 1000 era ancora lo Shintoismo la principale fonte d'ispirazione per i samurai, corrente che sottolineava la fedeltà all'imperatore, in un'epoca in cui essere samurai voleva dire, innanzi tutto, essere un guerriero abile, ma successivamente concetti taoisti, buddisti e confuciani iniziarono a diffondersi e a sovrapporsi a questi. In particolare ebbero grande fortuna, dopo il buddismo cinese, il buddismo zen e il buddismo esoterico (quest'ultimo soprattutto nelle casate nobili più ricche e potenti, mentre il primo anche a livello di piccole scuole e ronin). In quest'epoca si diffusero molte scuole che associavano ai doveri del samurai l'obbligo di svolgere i propri compiti non solo al massimo delle proprie capacità, ma con grazia ed eleganza, dimostrando attraverso il gesto la propria superiorità, pratica che fu molto contestata nel XVI secolo (quando riprese l'attenzione all'efficacia e non alla forma del gesto), ma che è rimasta in molte scuole di pensiero samurai.
I ruvidi guerrieri del 900 erano divenuti, prima del 1300, raffinati poeti, mecenati, pittori, cultori delle arti, collezionisti di porcellane, codificando in molte opere di bushido (fino al Libro dei cinque anelli) la necessità per un samurai di essere esperto in molte arti, non solo in quella della spada. La prima grande codificazione di questa svolta avvenne nel Heike Monogatari, opera letteraria più famosa del periodo Kamakura (1185-1249), che attribuiva alla via del guerriero l'obbligo dell'equilibrio tra la forza militare e la potenza culturale. Gli eroi di quest'epopea (la storia di una lotta tra due clan, i Taira e i Minamoto) e di altre che si ispirarono a questa negli anni immediatamente successivi, sono gentili, ben vestiti, molto attenti all'igiene, cortesi con il nemico nei momenti di tregua, abili musicisti, competenti poeti, letterati talvolta particolarmente versati nella calligrafia o nella disposizione dei fiori, appassionati cultori del giardinaggio, spesso interessati alla letteratura cinese. Inoltre morendo spesso mettono in versi il proprio epitaffio.
Questa visione duplice dei compiti del samurai si affermò grandemente, fino a diventare egemonica, Hojo Nagauji (o Soun), signore di Odawara (1432-1519), uno dei più importanti samurai della sua epoca scrisse nei "Ventuno Precetti del Samurai": "La Via del guerriero deve sempre essere sia culturale che marziale. Non è necessario ricordare che l'antica legge stabilisce che le arti culturali dovrebbero essere rette con la sinistra, e quelle marziali con la destra", in questo sottolineava una certa predominanza per le arti marziali, ma da questo insegnamento trassero spunto numerosi samurai che divennero famosi tanto come spadaccini, quanto, e più, come esperti della cerimonia del tè, o come artisti, attori di teatro No, poeti. Imagawa Royshun (1325-1420), grande commentatore dell'Arte della guerra di Sun Tzu, nelle sue "Norme" si era spinto oltre, affermando che "Senza conoscere la Via della cultura, non ti sarà possibile raggiungere la vittoria in quella marziale", creando un nuovo concetto di equilibrio tra cultura e guerra noto come bunbu ryodo ("non abbandonare mai le due vie").
Lo stesso Miyamoto Musashi, uno dei più grandi duellisti del XVII secolo (con 59 vittorie e un pareggio o 60 vittorie e un pareggio entro i trent'anni, a seconda delle fonti), divenne nella seconda parte della sua vita uno dei più grandi pittori di quel periodo. Concordava con Takeda Shingen (1521-1573), forse il più brillante generale del XVI secolo, che affermava come la grandezza di un uomo dipendeva dalla pratica di numerose vie.
Questo atteggiamento ovviamente provocò tutta una serie di aspre critiche; in particolare si ricorda l'avversione di Kato Kiyomasa (1562-1611) per tutto ciò che non era marziale e la sua opinione, condivisa da molte scuole "estremamente marziali", secondo la quale un samurai dedito alla poesia sarebbe divenuto "effeminato" mentre un samurai che avesse praticato il mestiere dell'attore o si fosse interessato al teatro No avrebbe dovuto suicidarsi per il disonore che arrecava al suo nome. Correnti di pensiero "estremamente marziali" e di rifiuto degli aspetti culturali della figura del samurai si diffusero notevolmente nei secoli successivi. Questo fatto potrebbe sembrare paradossale per un'epoca di pace (la Pax Tokugawa) durante la quale in piccoli dojo non solo si accettava l'etichetta ma anzi la si studiava a fondo; al contempo però si intendeva anche ritornare al significato originario dell'essere samurai, il guerriero impavido; in questo contesto persino l'Hagakure potrebbe essere stato considerato troppo "raffinato".
Inoltre le differenti fonti d'ispirazione culturale cui erano soggetti i samurai (scintoismo, scintoismo esoterico, taoismo, buddismo cinese, buddismo della terra pura, buddismo zen, buddismo esoterico, confucianesimo ufficiale cinese, confucianesimo dei glossatori giapponesi, epica classica giapponese) crearono scuole di pensiero e di pratica molto differenti, con principi di vita talvolta contrapposti o, più spesso, semplicemente complementari, anche grazie alla grande attitudine al pragmatismo e al sincretismo della cultura giapponese.
Nell'iconografia classica del guerriero il ciliegio rappresenta insieme la bellezza e la caducità della vita: esso, durante la fioritura, mostra uno spettacolo incantevole nel quale il samurai vedeva riflessa la grandiosità della propria figura avvolta nell'armatura, ma è sufficiente un improvviso temporale perché tutti i fiori cadano a terra, proprio come il samurai può cadere per un colpo di spada infertogli dal nemico. Il guerriero, abituato a pensare alla morte in battaglia non come un fatto negativo ma come l'unica maniera onorevole di andarsene, rifletté nel fiore di ciliegio questa filosofia. Un antico verso ancora oggi ricordato è tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero, ovvero come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così, il guerriero è il migliore tra gli uomini. Il sakura era venerato.
Il samurai è diventato, nella vulgata comune, il combattente fedele all’autorità pronto a seguire il suo capo fino alla morte, ligio ai suoi doveri più di quanto sia attaccato alla sua stessa vita. In sostanza il rappresentante supremo di una cultura del dovere della quale la cultura nipponica è intrisa, e che l’Occidente ha fatto sua banalizzandola nell’etica del lavoro, creando dei samurai calvinisti la cui missione è di fatto permettere a qualcuno altro di accumulare soldi; il tutto basato su una lettura, a dir poco “spinta”, di Sun Tzu e della sua arte della guerra. Ma come Arena dimostra, lo “spirito samurai” andava ben oltre la fedeltà, nemmeno sempre presente, al capo, essendo la morte non altro che un modo per sfuggire al disonore, uno strumento per dare un senso alla vita. E si ritorna al non sense, la vera anima dello zen, sebbene l’autore lo ritienga troppo abusato come strumento di analisi.
Non a caso la figura del samurai, così come lo stesso Giappone, ha sempre fatto presa in certi ambienti neofascisti, essendo stata facilmente collegata all’immagine, che tanta parte ha nella dottrina evoliana, dell’uomo in piedi tra le rovine. Che sia indifferenziato, o che sia samurai, quell’uomo è portatore di una superiorità verso il resto del genere umano estetica prima ancora che filosofica. E a ricordarcelo c’è Mishima, con il suo seppuku in diretta TV, disperato appello fatto ad un mondo che si sa incapace, e non interessato, ad ascoltare. Qualcosa che si riallaccia al futurismo dannunziano, ma molto più spirituale e senza il mito del progresso (senza entrare nel merito di un futurismo pre e post D’Annunzio). Tuttavia per mantenere quest’immagine eroica il prezzo è stato la cancellazione delle donne samurai dalla Storia, altrettanto dimenticate delle donne ninja.
Interessantissimo poi il capitolo dedicato all’omosessualità dei samurai, il “colore maschile”, che tratteggia un guerriero ben più amante degli appartenenti al suo sesso che del genere femminile. E non sembra un controsenso, a cosa porta infatti il senso di superiorità se non ad una comunità chiusa, dove anche il sesso è inter pares? Non ha caso prima ancora dei samurai i giovani discepoli erano amati dai monaci. La pulsione sessuale è ineliminabile nel genere umano, e se a questo aggiungiamo una cultura che mette la donna in secondo piano (arduo dire cosa origina cosa), è facile capire come il senso di cameratismo spinto all’estremo porti a comportamenti omosessuali. E non deve stupire nemmeno che anche il nazismo fosse pervaso da questa ambiguità e che oggi esistano gruppi di neonazisti dichiaratamente gay.
Il samurai è qualcuno che gode di una estrema libertà sapendo da sempre di essere morto, partecipe di un’etica che reca tranquillità anche a coloro che samurai lo sono solo nello spirito, sempre parafrasando l’autore, non senza una strizzatina d’occhio. Il modo in cui poi ognuno utilizza la sua libertà è un’altra questione.
Il significato dei tatuaggi che rappresentano samurai è in parte personale, in parte manifestatamente oggettivo.
Da che mondo è mondo il samurai incarna un ideale di fedeltà, onore e disciplina che non ha eguali nel resto del mondo.
Tatuarsi un samurai vuol dire non solo abbracciare un mondo molto diverso dal nostro, lontano anni luce, ma anche gli elementi più radicati di quel mondo.
Una certa affinità con il mondo dei tatuaggi: imprimersi sulla pelle un disegno indelebile richiama un po’ quelle leggende di samurai che non hanno avuto paura di prendere decisioni che avrebbero continuato a produrre i loro effetti per tutta la loro vita.
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