lunedì 10 agosto 2015

LA STORIA DEGLI ALPINI



Secondo una leggenda alpina tutti quelli che muoiono con il cappello alpino in testa salgono nel  “Paradiso di Cantore” vicino all’eroico generale, comandante l’Armata delle  “Penne Mozze”. .
Nelle tradizioni degli Alpini non esistono comportamenti o sentimenti sleali: il nemico si combatte ma non si disprezza.

Le Truppe Alpine hanno avuto origine nel 1872, quando il giovane Regno d’Italia dovette affrontare il problema della difesa dei nuovi confini terrestri, che dopo l’infelice guerra del 1866 contro l’Austria, coincidevano quasi interamente con l’arco alpino.
 
La mobilitazione dell’Esercito e la difesa del territorio nazionale erano state, fino allora, previste nella pianura padana in corrispondenza del vecchio Quadrilatero perché le Alpi, nella concezione strategica del tempo, non erano ritenute idonee a operazioni di guerra. La prima linea difensiva vera e propria era, a quel tempo, imperniata sulle posizioni di Stradella – Piacenza – Cremona in corrispondenza del fiume Po.

L’idea di affidare la difesa avanzata della frontiera alpina ai valligiani del posto anziché ricorrere a truppe di pianura, che oggi appare semplice e logica, a quei tempi era assolutamente originale, quasi rivoluzionaria.
Gli esperti militari del tempo erano convinti che una reale difesa sulle Alpi non fosse possibile e che un eventuale invasore dovesse essere fermato e ricacciato solo nella pianura padana.
L’ideatore del Corpo degli Alpini fu l’allora capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perrucchetti, nato a Cassano d’Adda, in provincia di Milano il 13 luglio 1839 (a vent’ anni fuggì dalla Lombardia, allora sotto la dominazione austriaca, per arruolarsi volontario nell’esercito Piemontese).

Studioso di storia, conosceva molto bene il nostro confine per avere, negli anni precedenti, effettuato numerose ricognizioni sui passi dello Spluga, dello Stelvio, sulle Alpi Carniche e Retiche, il Perrucchetti conosceva le gesta delle milizie montanare che, fin dai tempi dell’Imperatore Augusto (I,II, e III Legio Alpina Julia), si erano formate sulle Alpi e le avevano difese dalle invasioni barbariche.
Conosceva il perfetto organismo delle milizie paesane create da Emanuele Filiberto, l’organizzazione ed i compiti dei “Landesschützen” tirolesi, truppe scelte preposte alla difesa dei confini montani del Tirolo, quelle dei “Cacciatori delle Alpi” delle campagne del nostro Risorgimento e le famose imprese dei Volontari Cadorini di Pier Fortunato Calvi che, nel 1848 per difendere la loro terra dall’invasione austriaca, si trasformarono in audaci e tenaci combattenti.

Prendendo lo spunto da quegli studi ed esperienze, nel 1871 il geniale Ufficiale, appassionato di montagna  studioso di operazioni militari in zone alpine, redasse una originale memoria nella quale sosteneva e dimostrava il concetto che la difesa di primo tempo (copertura) del confine alpino dovesse essere affidata a presidi di soldati nati in montagna, pratici dei luoghi sin dalla prima giovinezza e sicuramente ben motivati nel caso avessero dovuto effettivamente difendere i propri cari e i propri beni.

Un altro elemento fondamentale su cui il Perrucchetti fondava il suo studio erano i vantaggi, ai fini della celerità e della semplicità di mobilitazione, che il reclutamento regionale presentava, nonché i legami personali tra gli appartenenti ai reparti e le comunità da difendere.

Lo studio del Perrucchetti pubblicato, nel maggio 1872, sulla Rivista Militare Italiana, fu apprezzato e subito condiviso dal generale Cesare Ricotti Magnani, Ministro della Guerra nel governo di Quintino Sella,  che capì l’importanza della difesa dei valichi alpini e la necessità di disporre, nell’ambito della fanteria,  di una nuova specialità, particolarmente addestrata per la guerra in montagna.

Il gen. Ricotti Magnani, fondatore a Torino nel 1864 del CAI con Quintino Sella, fu l’uomo che in pochi anni, trasformò radicalmente l’organismo militare italiano attuando una profonda ristrutturazione dell’Esercito. Per avere una Nazione a livello europeo egli introdusse, con opportuni correttivi, il sistema prussiano con la ferma breve (tale veniva considerata allora quella di tre anni) e il reclutamento nazionale e non regionale come attuato in Prussia. Per gli alpini era previsto il reclutamento regionale.

Il ministro, per evitare l’ostacolo della Camera dei Deputati, che non vedeva di buon occhio nuovi oneri finanziari,  ricorse ad un espediente: inserì negli allegati del Regio Decreto n°1056 del 15 ottobre 1872 che prevedeva un aumento dei Distretti Militari, la costituzione di 15 nuove compagnie distrettuali permanenti, con il nome di “Compagnie Alpine” (per un totale di 2000 uomini), da dislocare in alcune valli della frontiera occidentale e orientale.

A ciascuna delle neo nate compagnie venne assegnato un mulo con una carretta per il trasporto dei viveri e dei materiali.
Come arma individuale agli alpini venne dato in dotazione il fucile Wetterli modello 1870 (dal nome dell’inventore, un meccanico svizzero).
Così nacquero gli “Alpini”, mascherati da generici distrettuali, fra le pieghe di un Decreto Reale firmato a Napoli da Vittorio Emanuele II, ma con già sulle spalle  un fardello di compiti e responsabilità pesanti quanto il loro zaino di allora e di sempre.
La divisa era quella della fanteria sino al marzo del 1873.
Il privilegio di costituire i primi reparti alpini toccò alla classe del 1852, ovviamente denominata “classe di ferro”.
A queste truppe speciali, nel 1874, fu posto sul capo un cappello di feltro nero a bombetta, con una stella di metallo a cinque punte e coccarda tricolore, ornato con una penna nera sul lato sinistro, il quale divenne subito l’emblema araldico dei soldati della montagna.
Nel giro di qualche anno le 15 compagnie diventarono 36, su organico di guerra, ed i battaglioni dieci,  che presero il nome di valli, monti e città, per un totale di 9.090 alpini.



Nel 1882, a dieci anni dalla nascita del Corpo, per esigenze operative si ebbe un più consistente ampliamento del Corpo, con la costituzione dei primi sei reggimenti alpini.
Il cappello alpino subì altre modifiche: il fregio a stella fu sostituito con un fregio di metallo bianco raffigurante un’aquila ad ali spiegate sormontata da una corona reale: appoggiata su una cornetta sovrapposta a due fucili incrociati e contornata da una scure e una piccozza, con rami di quercia e di alloro, essa rappresentava il simbolo di potenza e audacia del Corpo degli Alpini;  sul tondino del fregio venne applicato il numero del reggimento e sul cappello della truppa le nappine mutavano di colore a seconda dei battaglioni e cioè bianco (1° battaglione), rosso (2° battaglione), verde (3° battaglione), turchino (4° battaglione). Per identificare gli ufficiali superiori si stabilì di guarnire il cappello con una penna bianca.

Nel 1883 alle truppe di montagna vennero date le “Fiamme Verdi” a due punte e si incominciò a distinguere fra la fanteria alpina e l’artiglieria da montagna. Anche il cappotto con lunghe falde, molto ingombrante, venne sostituito con una mantellina alla bersagliera di colore turchino scuro mentre le scarpe basse furono sostituite da stivaletti alti con legacci simili a quelli usati dai montanari.
I reparti alpini, in considerazione del valore strategico dell’arco alpino, furono potenziati mediante una serie di provvedimenti di carattere ordinativo.
Nati per combattere sui ghiacciai e sulle alte vette delle Alpi, gli alpini per uno dei tanti e curiosi scherzi della storia, ebbero il “battesimo del fuoco” sulle roventi ambe africane, nelle campagne di Eritrea del 1887 e del 1896, ove mostrarono il loro valore e le loro qualità di fieri soldati nella sfortunata battaglia  di Adua del 1° marzo 1896, sull’Amba Rajo, e dove il 1° Battaglione Alpini d’Africa, comandato dal tenente colonnello Davide Menini, si immolò sul posto assieme a molti artiglieri. Dei suoi 954 alpini ne sopravvissero solo 92.

In quella tragica giornata, oltre al comandante di battaglione, caddero alla testa dei reparti il capitano Pietro Cella, del 6° Reggimento Alpini, prima medaglia d’oro al valore militare degli alpini e quattro valorosi ufficiali di artiglieria da montagna anch’essi decorati con la medaglia d’oro al valore militare i quali caddero eroicamente assieme ai loro artiglieri sparando sino all’ultimo colpo.

Molteplici furono le innovazioni e i mutamenti adottati all’equipaggiamento e alle armi  agli inizi del ventesimo secolo.
Da non dimenticare il novembre del 1902, data importante per la Specialità; dopo un periodo di intense prove effettuate presso il 3° Reggimento Alpini, venne dato in dotazione ai reparti il nuovo e veloce mezzo di locomozione su neve: gli sci, che permisero di risolvere il problema del movimento dei reparti sui terreni innevati.

Vale la pena di ricordare gli esperimenti effettuati dal Battaglione Alpini Morbegno del 5° Reggimento Alpini, nel luglio del 1905, per l’adozione di una uniforme di colore grigio per mimetizzare maggiormente i combattenti che portavano uniformi luccicanti e multicolori.
La nuova uniforme fu esperimentata a Bergamo, sede del Battaglione Alpini  Morbegno, da un plotone  della 45a compagnia, denominato il “Plotone grigio”, al comando del tenente Tullio Marchetti, trentino, che da tenente colonnello sarà poi il capo ufficio informazioni della Prima Armata e, dopo il felice esito delle prove effettuate con il resto del battaglione, nel 1908 la nuova uniforme fu adottata da tutto l’Esercito Italiano.
Con l’adozione della nuova uniforme la vecchia “bombetta” nera veniva sostituita con un cappello di feltro colore grigio verde che a tutt’oggi è ancora in dotazione alle Truppe Alpine.

Nell’ottobre 1911 gli alpini parteciparono alla guerra Italo - Turca con dieci battaglioni e 13 batterie di artiglieria da montagna. Al comando dell’8° Reggimento Alpini Speciale (perché costituito con i Battaglioni Alpini Tolmezzo, Gemona, Feltre e Vestone) c’era l’indimenticabile Colonnello Antonio Cantore, che cadrà da eroe sulle Tofane nel luglio del 1915, colpito in fronte da una pallottola.

Pochi anni dopo l’Italia entra in guerra contro l’Austria – Ungheria.
Alla Prima Guerra Mondiale gli Alpini, i “figli dei monti” come li chiamava Cesare Battisti, parteciparono con 88 battaglioni e 66 gruppi di artiglieria da montagna per un totale di 240.000 alpini mobilitati.

Quarantuno mesi di lotta durissima e sanguinosa costituirono per gli Alpini un’epopea di episodi collettivi ed individuali  di altissimo valore e di indomita resistenza, di battaglie di uomini contro uomini, di uomini contro le forze della natura, di azioni cruente e ardimentose sulle alte vette dalle enormi pareti verticali, di miracoli di adattamento alle condizioni più avverse e nelle zone alpinisticamente impossibili.
Alla metà di giugno del 1915 gli Alpini effettuarono la prima leggendaria impresa, la conquista del Monte Nero, davanti alla quale anche i nostri  avversari così si espressero: “Giù il cappello davanti gli alpini ! questo è stato un colpo da maestro”.

Dal Monte Adamello al Monte Nero, dalle Tofane al Carso, dalla Marmolada al Monte Ortigara, dallo Stelvio al Monte Grappa, dal Monte Pasubio al Passo della Sentinella, aggrappati alla roccia con le mani e con le unghie per lottare contro uno dei più potenti eserciti del mondo, costruirono con mezzi rudimentali strade e sentieri fino sulle cengie più ardite, combatterono memorabili battaglie di mine e contromine, portarono a termine brillanti  colpi di mano espugnando posizioni ritenute imprendibili e aggiunsero alle fantastiche leggende delle Dolomiti storie di giganti della lotta in montagna.

Il contributo  dato dagli Alpini nella Grande Guerra è ampiamente evidenziato dalle seguenti cifre: ufficiali, sottufficiali e alpini morti 24.876, feriti 76.670, dispersi 18.305.
Un famoso scrittore inglese, Rudyard Kipling, che perse l’unico figlio sul fronte francese, a Ypres, venuto in visita alla fronte italiana nel corso della Prima Guerra Mondiale, espresse questo giudizio sugli alpini: “Alpini, forse la più fiera, la più tenace fra le Specialità impegnate su ogni fronte di guerra. Combattono con pena e fatica fra le grandi Dolomiti, fra rocce e boschi, di giorno un mondo splendente di sole e di neve, la notte un gelo di stelle. Nelle loro solitarie posizioni, all’avanguardia di disperate battaglie contro un nemico che sta sopra di loro, più ricco di artiglieria, le loro imprese sono frutto soltanto di coraggio e di gesti individuali. Grandi bevitori, svelti di lingua e di mano, orgogliosi di sé e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente”.

E dopo la Prima Guerra Mondiale gli alpini, nel gennaio del 1936, inquadrati nella Divisione Pusteria, vengono inviati in Etiopia a combattere sugli assolati e aspri rilievi etiopici contro le truppe di Hailé Selassié. Sono circa 14.000 uomini inquadrati nella Divisione Pusteria. Validissimo il contributo degli alpini che parteciparono alle operazioni più importanti: dalla conquista dell’Amba Aradam, all’occupazione dell’Amba Alagi e alla battaglia di Mai Ceu il 31 marzo 1936.

Durante la Seconda Guerra Mondiale gli Alpini conquistano altre glorie. Sono presenti su cinque fronti di guerra assai diversi per caratteristiche morfologiche e strategiche: sulle Alpi Occidentali (dal 10 al 25 giugno 1940), in Grecia (dal 28 ottobre 1940 al 23 aprile 1942), in Jugoslavia (dal luglio 1941 al settembre 1943), in Russia (dal gennaio 1942 al marzo 1943) e, infine, dal settembre 1943 durante la Guerra di Liberazione d’Italia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale.

Una storia, quella degli Alpini, fatta con il sangue lungo un itinerario costellato di croci. In Russia, gli Alpini, in una marcia eroica (oltre 700 Km. a piedi), ecatombe di alpini, sotto il flagello del freddo e contro un nemico molto forte e determinato, affrontarono durissimi sacrifici e sofferenze che la nostra mente oggi non riesce nemmeno a immaginare.
Eroico fu il comportamento degli Alpini, che a Nikolajewka, riuscirono a rompere il cerchio di ferro e di fuoco dei soldati dell’Armata Rossa.

Inferiori di numero, di equipaggiamento e di armamento, gli Alpini, grazie all’ineguagliabile spirito di Corpo, all’attaccamento alla loro terra, ai loro affetti, alla generosità che anima tutti i figli della montagna, seppero soffrire con dignità e onore, compiendo infiniti gesti di umanità e di fratellanza verso tanti fratelli stremati dal gelo, dalle ferite, dalle fatiche, dalla fame e dal nemico implacabile.
Durissimo fu il prezzo pagato dalle Penne Nere per aprire ai superstiti la via della libertà: su 57.000 uomini ben 34.170 non tornarono a casa.

Di essi, Don Carlo Gnocchi – l’indimenticabile cappellano militare degli alpini in Russia - apostolo della fede ed eroico sacerdote delle penne nere e che presto sarà beatificato dal Papa, al termine di quella terribile battaglia, disse: “Tutti hanno compiuto opera veramente sovrumana. Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio”.

L’Associazione Nazionale Alpini, per ricordare il sacrificio di migliaia di Alpini rimasti per sempre in terra di Russia,  animata  da una forte tensione morale e dalla volontà di legare i ricordi del passato a un solidale impegno rivolto alle generazioni di oggi, ha costruito a Rossosch (luogo in cui nel 1942 c’era la sede del Comando del Corpo d’Armata Alpino) un meraviglioso asilo, in segno di solidarietà e di fratellanza fra i popoli.

L’asilo di Rossosch è un monumento vivente alla pace e alla fratellanza fra i popoli. Chi ha sofferto nell’anima e nella carne, come  moltissimi alpini e soldati di ogni arma e servizio la violenza spietata della guerra, conosce l’immenso valore della pace, della solidarietà e della giustizia.

Anche durante questo immane conflitto europeo, iniziato dall’Italia in uno stato di impreparazione militare che determinò una riduzione delle capacità operative delle Grandi Unità, gli alpini si batterono con valore e grande dignità.

Non esiste differenza, sotto l’aspetto della disponibilità al sacrificio e della solidarietà umana, fra gli Alpini in armi e gli Alpini in congedo, fratelli da sempre impegnati in nobile slancio di altruismo ogni qualvolta la posta è il salvataggio di vite umane o l’aiuto tangibile ed immediato a persone che si trovano in stato di sofferenza.
Slancio più volte dimostrato nelle attività di soccorso in occasione dei disastri o calamità naturali che sovente colpiscono il nostro Paese o i territori esteri.

E non a caso la prima decorazione, in assoluto, al Valore ad un reparto alpino venne concessa non per un atto di guerra ma bensì per un atto di solidarietà umana nei confronti della popolazione civile. La meritò il Battaglione Alpini “Val Stura” del 2° Reggimento Alpini che, la notte del 19 agosto 1883, accorse tempestivamente a spegnere un furioso incendio sviluppatosi nell’abitato di Bersezio (Provincia di Cuneo).

Dal primo intervento degli Alpini effettuato nel luglio 1873 dalla 14a Compagnia Alpina di Pieve di Cadore a favore della popolazione di Alpago (Belluno), colpita dal terremoto, le “Penne Nere” hanno sempre operato con grande tempestività, elevata efficienza operativa con magistrale competenza negli interventi, riscuotendo l’apprezzamento e l’ammirazione incondizionata della popolazione e delle autorità civili e religiose.

Questa presenza nei momenti drammatici dell’emergenza, questa vicinanza degli alpini alle popolazioni colpite da eventi calamitosi è un unico filo conduttore che, da quel lontano 1873, ci porta fino ai giorni nostri.
Dal primo soccorso ad oggi migliaia sono stati gli interventi di carattere umanitario a favore dei disastrati e dei più deboli.
Il terremoto in Calabria nel settembre del 1905, il violentissimo terremoto di Messina del 1908, il disastro per il crollo della diga del Gleno nel 1923, la catastrofe del Vajont nell’autunno del 1963 che distrusse interi paesi,  la devastante alluvione del novembre 1966 nell’Italia settentrionale; e ancora il terremoto del Friuli nel 1976 (per l’impegno ed i risultati raggiunti all’Associazione Nazionale Alpini viene conferita la medaglia d’oro al merito civile) e dell’Irpinia nel 1980 e la frana di Stava nel 1985, l’alluvione della Valtellina nell’estate del 1987, il terribile terremoto in Armenia nel 1988, l’alluvione in Piemonte nel novembre 1994,  nel 1997 il terremoto in Umbria e Marche, nell’ottobre del 2000 la devastante alluvione in Piemonte, in Val d’Aosta che sconvolse intere vallate e da ultimo in Molise colpito da un sisma che ha portato morte e distruzioni.
Il massiccio concorso fornito dagli alpini, dal giugno 1961, alle  Forze dell’Ordine per reprimere in Alto Adige gli atti di terrorismo diretti contro la Repubblica Italiana e che provocarono la morte di molti militari e la distruzione di numerose strutture (centrali elettriche, tralicci dell’alta tensione, interruzioni di linee ferroviarie).



Oggi le truppe alpine, rinnovate nella struttura e nei ruoli da svolgere, sono uno strumento non solo al servizio e per la difesa del nostro paese ma anche “garanti” dell’ordine, della sicurezza e stabilità internazionale.

L’era degli interventi umanitari e di mantenimento della pace (peace-keeping), oltre i confini nazionali si è aperta nei primi anni novanta del secolo passato con l’intervento in Kurdistan, nel maggio 1991, (con l’operazione Airone), a protezione dei Curdi minacciati dal governo di Bagdad, ma ha registrato un rilevante e qualificante impegno in Mozambico nel 1993-94, devastato da 16 anni di guerra civile (con l’operazione Albatros), dove gli alpini hanno svolto brillantemente una difficile missione di pacificazione a rischio della loro vita.

Dopo 57 anni, gli alpini delle Brigate Taurinense e Julia e i paracadutisti della Compagnia alpini paracadutisti Monte Cervino e da un reparto dell’aviazione leggera dell’Esercito, per la quarta volta sono ritornati in Africa, in Mozambico, questa volta non per fare la guerra ma per svolgere una missione di pace per conto dell’ONU e, operando con grande professionalità e dedizione, hanno contribuito a spegnere i focolai di conflittualità interni iniziati nel 1975 ed a creare una situazione di normalità.

Da allora le Penne Nere hanno partecipato a numerose missioni internazionali di pace fra le quali è doveroso ricordare le molteplici operazioni in Albania nel 1991 (operazione “Pellicano”), l’operazione “Alba” nel maggio 1997, l’operazione “Allied Harbour” (“Porto Alleato”) nell’aprile del 1999 e l’Operazione Arcobaleno sempre in Albania per aiutare i profughi kosovari, l’intervento, nel 1995, in Bosnia – Erzegovina, dominata da laceranti contrasti etnici - religiosi che affondano le radici nella storia di quei paesi, nel febbraio 1997 con la missione “Constant Guard” e, successivamente, nel 2000, con la missione “Joint Forge” e sempre nell’anno 1999 con l’operazione  “Joint Guardian” nel Kosovo, sempre in perfetta e fraterna collaborazione con altri reparti delle forze armate italiane e alleate in aiuto dei profughi kosovari, scacciati con violenza dalla loro terra.

Si tratta di un impegno ad alto rischio e sempre oneroso che gli “alpini con le stellette” hanno affrontato con assoluta dignità di comportamenti per assicurare in quelle regioni colpite da anni di contrasti etnici e religiosi la convivenza pacifica, la ricostruzione e la pace.
A partire dal marzo 2002 il Comando Truppe Alpine ha assicurato una consistente partecipazione delle proprie unità in Afghanistan alle Operazioni ISAF (Forza di Sicurezza e Assistenza Internazionale) e “Enduring Freedom”. Dal 2004 al 2006 un reparto del 4° Reggimento Alpini paracadutisti ha partecipato in Iraq all’Operazione “Antica Babilonia” (si trattava di un plotone di alpini del Battaglione paracadutisti Monte Cervino) e dall’inizio del 2007, il generale degli alpini Claudio Graziano, ha il comando dell’operazione “Leonte” in Libano, la forza multinazionale delle Nazioni Unite.

Un altro importante impegno operativo al quale hanno partecipato gli alpini, assieme ad altri reparti dell’Esercito, è all’Operazione “DOMINO” che interessava la vigilanza di punti sensibili sul territorio nazionale nel quadro della lotta contro il terrorismo islamico.

Nel corso di tutte le operazioni, anche le più recenti e rischiose, i soldati italiani dal comandante fino all’ultimo gregario, hanno tenuto un comportamento fermo, corretto, imparziale, rispettoso delle tradizioni dei popoli e favorevole al dialogo piuttosto che allo scontro. E proprio questo tipo di agire è stata la chiave del successo di molte missioni umanitarie.

I militari italiani, e in particolare gli alpini, durante le varie missioni di pace e umanitarie nei teatri operativi hanno dimostrato di essere prima uomini e poi soldati. Essere prima uomini, seppure con un’arma in mano, significa condividere le sofferenze, alleviarle, offrire solidarietà, restituire il rispetto non dimenticando il compito che deve essere comunque portato a termine.

Significativa la partecipazione degli alpini, in concorso con le Forze di Polizia, per la salvaguardia delle libere istituzioni, in Sicilia, Sardegna, Calabria e Campania, contributi molto validi per dare più sicurezza a quelle popolazioni fortemente condizionate dalla malavita organizzata.
Per quanto i compiti istituzionali dell’esercito non sono quelli di contrastare la criminalità, la sua presenza è stata molto sentita e apprezzata dalla popolazione.
Prima di terminare questa mia sintetica esposizione desidero darvi alcuni cenni sulla nuova configurazione delle Truppe Alpine.

Con la sospensione totale della leva a favore di un esercito interamente professionale e volontario, gli alpini, dopo  135 anni di storia gloriosa, corrono il rischio di perdere la loro caratteristica principale – ossia “l’alpinità” – che principalmente nasce dalla coscrizione obbligatoria su base regionale (il che assicura un fortissimo legame interpersonale e una preziosa intesa al volo) e dal retroterra alpinistico maturato nelle consuetudini quotidiane dei singoli componenti.

In quel ambiente spesso viene messo a dura prova la saldezza fisica e morale del montanaro: la neve, l’asprezza delle forme, la distanza dai centri abitati, la scarsità delle risorse, la fatica, moltiplicano le difficoltà promuovendo la maturazione e la crescita fisica e morale del montanaro.

Elementi molto difficili da ottenere da truppe formate su base professionistica se non si insisterà a irrobustire lo spirito alpino.
Con l’abolizione del criterio di reclutamento regionale che, come è noto, fu alla base della costituzione delle Truppe Alpine, si teme che in futuro non sarà più possibile avere reparti con un alto contenuto spirituale, coscientemente motivati e ricchi di quella antica cultura montanara che ha felicemente concorso a dare l’impronta all’uomo “alpino”.



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