lunedì 3 agosto 2015

HARAKIRI



Seppuku è un termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai.

In Occidente viene usata più spesso la parola harakiri. La motivazione di questa apparente discrepanza tra l'uso di seppuku e harakiri è chiarita qui di seguito.

Il seppuku è anche conosciuto come harakiri ("taglio del ventre") ed è scritto con lo stesso kanji di seppuku, ma in ordine inverso con un okurigana. In giapponese il termine più formale seppuku, una lettura cinese on'yomi, è usato di solito nella lingua scritta, mentre harakiri, una lettura kun'yomi, è utilizzato nella lingua parlata. Ross nota che:

« Di norma, si considera "hara-kiri" come un termine di uso volgare, ma si tratta di un malinteso. Hara-kiri è la lettura giapponese Kun-yomi dei caratteri; poiché divenne uso comune preferire la lettura cinese negli annunci ufficiali, negli scritti si impose l'uso del termine seppuku. Quindi, hara-kiri è un termine del registro parlato, mentre seppuku è un termine del registro scritto per indicare lo stesso atto. »
(Christopher Ross, Mishima's Sword, p.68)
La pratica di fare seppuku alla morte del proprio signore, nota come oibara ( il kun'yomi o lettura giapponese) o tsuifuku (lo on'yomi o lettura cinese), segue un rituale simile.

Il seppuku veniva eseguito, secondo un rituale rigidamente codificato, come espiazione di una colpa commessa o come mezzo per sfuggire ad una morte disonorevole per mano dei nemici. Un elemento fondamentale per la comprensione di questo rituale è il seguente: si riteneva che il ventre fosse la sede dell'anima, e pertanto il significato simbolico era quello di mostrare agli astanti la propria anima priva di colpe in tutta la sua purezza.

Il primo atto di seppuku di cui si abbia traccia fu compiuto da Minamoto no Yorimasa durante la battaglia di Uji nel 1180.

Alcune volte praticato volontariamente per svariati motivi, durante il periodo Edo (1603 – 1867) divenne una condanna a morte che non comportava disonore. Infatti il condannato, vista la sua posizione nella casta militare, non veniva giustiziato ma invitato o costretto a togliersi da solo la vita praticandosi con un pugnale una ferita profonda all'addome di una gravità tale da provocarne la morte.

Il taglio doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l'alto. La posizione doveva essere quella classica giapponese detta seiza cioè in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all'indietro; ciò aveva anche la funzione d'impedire che il corpo cadesse all'indietro, infatti il guerriero doveva morire sempre cadendo onorevolmente in avanti. Per preservare ancora di più l'onore del samurai, un fidato compagno, chiamato kaishakunin, previa promessa all'amico, decapitava il samurai appena egli si era inferto la ferita all'addome, per fare in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto.

La decapitazione (kaishaku) richiedeva eccezionale abilità e infatti il kaishakunin era l'amico più abile nel maneggio della spada. Un errore derivante da poca abilità o emozione avrebbe infatti causato notevoli ulteriori sofferenze.

Il più noto caso di seppuku collettivo è quello dei "Quarantasette Rōnin", celebrato nel dramma Chushingura, mentre il più recente è quello dello scrittore Yukio Mishima avvenuto nel 1970. In quest'ultimo caso il kaishakunin Masakatsu Morita, in preda all'emozione, sbagliò ripetutamente il colpo di grazia. Intervenne quindi Hiroyasu Koga che decapitò lo scrittore.

Una delle descrizioni più accurate di un seppuku è quella contenuta nel libro Tales of old Japan (1871) di Algernon Bertram Mitford, ripresa in seguito da Inazo Nitobe nel suo libro Bushidō, l'anima del Giappone (1899). Mitford fu testimone oculare del seppuku eseguito da Taki Zenzaburo, un samurai che, nel febbraio 1868, aveva dato l'ordine di sparare sugli stranieri a Kobe e, assuntasi la completa responsabilità del fatto, si era dato la morte con l'antico rituale. La testimonianza è di particolare interesse proprio perché resa da un occidentale che descrive una cerimonia, così lontana dalla sua cultura, con grande realismo.

Nel 1889, con la costituzione Meiji, venne abolito come forma di punizione. Un caso celebre fu quello dell'anziano ex-daimyō Nogi Maresuke che si suicidò nel 1912 alla notizia della morte dell'imperatore. Casi di seppuku si ebbero al termine della Seconda guerra mondiale tra quegli ufficiali, spesso provenienti dalla casta dei samurai, che non accettarono la resa del Giappone.

Con il nome di Jigai, il seppuku era previsto, nella tradizione della casta dei samurai, anche per le donne; in questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l'agonia. Anche di ciò è presente una descrizione nel  libro di Mishima, Cavalli in fuga.

L'arma usata poteva essere il tantō (coltello), anche se più spesso, soprattutto sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, detto anche guardiano dell'onore, la seconda lama (più corta) che era portata di diritto dai soli samurai.

In Giappone tagliarsi la pancia era l'onorato modo di esecuzione. Il samurai aveva l'idea che il suo signore aveva il potere di dargli la morte e che gli era concesso uccidersi da sé, mentre essere decapitato ed essere messo in croce erano condanne disonorevoli.
A proposito, perché la pancia? Tagliarsi la pancia è assurdo come modo di uccidersi. Di solito non si può morire subito e si soffre forte dolore a lungo, però fu usato per quasi 700 anni. Circa la ragione, il dott. Nitobe Inazo scrive nel suo libro "Bushido: l'anima del Giappone": per le credenze anatomiche antiche l'anima e l'affezione umana dimorano in ventre, e quindi era creduto che tagliarsi la pancia fosse il modo di uccidersi secondo bushido, mostrando la propria anima.
Secondo alcuni studiosi la tradizione di seppuku è la ragione perché tanti giapponesi riconoscono e accettano la pena di morte, dato che è già stato fissato come "tradizione giapponese" il concetto: espiare la sua colpa con la sua morte per l'onore.

Su questo assetto ha pesato la concezione cristiana del suicidio, che lo rifiuta in maniera assoluta; notiamo però che la concezione latina del suicidio, in particolar modo in periodi più risalenti, non era così aliena a quella giapponese. Specie in contesti militari era considerato una reazione alta e onorevole rispetto alla sconfitta, estremo atto di libertà; e l'onda lunga di questa suggestione giunge fino Dante, che pone Catone, suicida, non all'inferno ma alle porte del purgatorio.

Ogni epoca ha avuto i suoi eroi, figure che, nella speranza di migliorare il proprio paese, si sono battuti arrivando anche rischiare la propria vita. E, in un’epoca come la nostra, dove si sono persi quasi del tutto i principi che ci legano alle tradizioni ed alla nostra terra, fondamentale è “ Ritrovare se stessi” . Emblematica è la figura di Mishima Yukio. Mishima Yukio, originario di Tokyo, non fu solo scrittore, ma anche attore, regista, cinematografo e cultore delle arti marziali. Noto per aver riscosso immediato successo anche all’estero, ha una storia tanto affascinante quanto drammatica. Egli pose fine alla sua vita con un suicidio, attraverso il rituale tipico giapponese chiamato seppuku, noto, in occidente, anche con il nome harakiri.
Ma perché anche Yukio si sottopose a tale gesto? Che cosa era accaduto?
Per rispondere a tale domanda bisogna fare un passo indietro. Siamo alla fine della seconda guerra mondiale, 1945, quando gli americani sganciarono le due bombe nucleari Little boy e Fat man rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki. A governare il Giappone vi è Hiroito, l’ultimo imperatore Giapponese, il quale, così come tutti gli imperatori, secondo la tradizione, aveva origini divine. Gli americani, ben istruiti sulle tradizioni Giapponesi, costrinsero Hiroito a dichiarare pubblicamente che egli non aveva discendenza divina. La notizia ebbe una eco estremamente negativa al punto che innumerevoli furono i suicidi. Chiara fu, a quel punto, la svolta cui stava assistendo il paese. Profondo era il processo di Occidentalizzazione cui i samurai e la stirpe guerriera stavano assistendo.
Ecco che, il 25 novembre 1970, Mishima insieme ad altri quattro inquirenti di una associazione chiamata Tatenokai (la società degli scudi), si recarono presso un punto strategico, la caserma del quartier generale dell’armata Giapponese, situata nel cuore di Tokyo, con l’intenzione di rapire il comandante dell’armata orientale allo scopo di sollevare una sommossa contro il governo. Per otto minuti Mishima, indossando l’uniforme imperiale, col fronte cinto dell’ Hachimaki, si rivolse ai soldati radunati nel cortile della caserma, esortandoli a rimanere fedeli alla tradizione, fedeli all’imperatore, fedeli alla patria attraverso un discorso breve ed indirizzato soprattutto ai giovani.
– “Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà e non è la democrazia ma il Giappone! Il Giappone, il paese della nostra amata storia, il paese della nostra tradizione, il Giappone. Non c’è nessuno tra di voi disposto a morire per scagliarsi contro questa costituzione che ha disossato la nostra patria? Esiste qualcuno?! Se esiste, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione nell’ ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare ad essere veri uomini, e veri Samurai!”
Da tempo in Mishima era cresciuto il disgusto per quella società dedita solamente alla venerazione del denaro, intrisa di apparenza ed incapace ad educare le giovani generazioni ai valori ed allo stile proprio delle antiche tradizioni Giapponesi, oltre che contro la politica degli americani. E’ in questo ambiente che Mishima fonda il suo atto di rivolta. Fallito il tentativo di sollevare l’esercito si ritira nella stanza dove era presente il generale sequestrato, ed è qui che, con grande coraggio, pratica il Seppuku. Insieme ad egli ebbe il privilegio di togliersi la vita il suo allievo prediletto, Morita. E’ in tale gesto che è racchiusa tutta la sua vita. Una vita tormentata, nonostante la sua fama. Una fama che, però, passa in secondo piano rispetto ai principi della sua educazione, delle tradizioni, della perdita di valore della figura del imperatore. Mishima è il testimone della crisi del mondo moderno; è la testimonianza di un uomo che non fugge davanti gli ostacoli, che sa assumersi fino in fondo le proprie responsabilità finanche ad arrivare al sacrificio di se stesso attraverso un atto di amore, amore per la tradizione, per i valori che passa attraverso l’amore per il Giappone. Dicendo no alla modernità resa schiava dal denaro, Mishima riesce, in un mondo senza onore, a farci rivivere tutta quelle che è la tradizione Giapponese, riproponendo in epoca moderna i valori dell’ onore, della lealtà e soprattutto del sacrificio.
E’ a queste figure che dovremmo rivolgere il nostro pensiero anche quando aggiriamo o, ancor peggio, fuggiamo dagli ostacoli o quando anteponiamo il denaro alla dignità umana. Mishima era e deve essere un punto di rifermento per tutti noi: un uomo che non ha mai smesso di lottare per ciò in cui credeva.


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