venerdì 28 agosto 2015

VENDETTA o PERDONO



La persona che ha sofferto e vuole far provare la stessa sensazione a colui che l'ha fatto soffrire, in alcuni casi solo per regolare i conti (in genere se non intende avere più alcun rapporto con la persona per lui colpevole) in altri per far capire il dolore provato affinché non si ripeta più (generalmente in casi di interesse nel protrarsi del rapporto con l'altra persona ma appare evidente il danno che comunque una reazione del genere può produrre).
Quando ci si vendica siamo soddisfatti di esserci vendicati e  ci si sente gratificati da un senso di giustizia (che può essere vero o meno) oppure ci si pente di esserci vendicati rendendosi conto del male che ha creato e desidererebbe fare ammenda
In alcuni casi ci si rende conto che l'azione non ha cambiato la situazione e, se prima sentivamo il bisogno di vendicarsi, ora non proviamo più nemmeno quello e spesso si entra in una fase di depressione.
Da notare che non tutte le vendette sono finalizzate a fare del male, alcuni cercano di mandare un messaggio con la vendetta (nonostante l'ovvio errore di base e la difficoltà di comprensione da parte di chi la subisce) e che alcuni soggetti si vendicano solo se vedono l'intenzionalità nell'attacco dell'altra persona sorvolando gli "incidenti".

Vi sono delle persone che, quando hanno ricevuto un torto, lo ricordano a lungo e se, ci ripensano, il rancore si risveglia come fosse attuale. Quando ne parlano percepisci la loro collera e il loro desiderio di vendetta. Vi sono invece delle persone che hanno ricevuto torti anche più gravi, ingiustizie che hanno profondamente influenzato la loro vita, ma in loro a poco a poco il ricordo sbiadisce. Se gliene parlate ricordano i fatti ma non le emozioni provate e non sentono più il desiderio di giustizia, di rivalsa, di vendetta.

Coloro che ricordano i torti di solito sono personalità competitive e invidiose che stanno male se qualcuno li sopravanza o ha più successo, perché è come se lo togliesse a loro. Di solito sono critici, diffidenti, pronti all'accusa e allo scherno. Vedono dappertutto malvagità e complotti. Quando hanno un nemico provano un vero piacere a fargli del male, a farlo soffrire. Se qualcosa va loro male, se non hanno il successo che speravano, se non sono promossi alla carica che agognavano, trovano sempre un responsabile e se lo ricordano per tutta la vita. Non dimenticano e non perdonano.



Gli altri, quelli che non ricordano e non cercano la vendetta, possono essere ambiziosi, ma non sono mai competitivi e invidiosi. Non se la prendono con chi li sopravanza, con chi ha successo e se qualcuno li ostacola non gli viene neppure in mente di fargli del male. Quando non ottengono il risultato desiderato o quando perdono un lavoro o una carica non continuano a ripensarci e non cercano un colpevole. Così a poco a poco diluiscono il ricordo fra gli altri ricordi e dimenticano perfino le persone che hanno fatto loro intenzionalmente del male.

Coloro che dimenticano sono più numerosi di quelli che ricordano perché la mente umana spontaneamente tende a dimenticare. Chi ci fa ricordare gli odi, i rancori, le ingiustizie è la società. Il dovere della vendetta viene trasmesso ereditariamente nel clan e anche gli odi politici sono collettivi, rinnovati dalle commemorazioni, dalle manifestazioni. Poi alla fine anche su questi scende l'oblio, ma talvolta occorrono secoli.

La motivazione a vendicarsi è presente e radicata nell’animo umano da un punto di vista biologico, psicologico e culturale. Nel regno animale diversi studi condotti su primati hanno messo in evidenza il comportamento della vendetta tra scimpanzé dimostrando la primordialità del sentimento vendicativo (McCullough et al., 2009). Anche nella storia dell’uomo, anticamente, possiamo rintracciare il comportamento della vendetta codificato nella Legge del taglione secondo la quale chi subisce un danno ha il diritto di rispondere a sua volta con il medesimo comportamento che sia uguale all’offesa ricevuta.

A un’analisi più approfondita vediamo però che la vendetta e la volontà di rivalsa anche se sono sentimenti naturali e istintivi non portano ad un effettivo risarcimento dal torto subito: la vendetta, contrariamente a quanto si possa pensare non aiuta ad alleviare il dolore provato nell’aver subito un’ingiustizia in quanto la vittima si troverà a rimanere focalizzata sull’evento negativo accaduto, a pensare e ripensare continuamente a come potrebbe farla pagare al suo trasgressore, alimentando ulteriormente le emozioni negative sperimentate (rabbia, ostilità, risentimento). Inoltre se anche la vittima risponde a sua volta con un torto verso il trasgressore, per riparare e pareggiare i conti, difficilmente la vittima si sentirà ripagata come sperava ma si andrà invece ad innescare un circolo vizioso sena fine: con la vendetta il trasgressore iniziale si trasforma a sua volta in vittima che, a prescindere da quali sono state le azioni precedenti che possono avere in qualche modo giustificato la reazione vendicativa, sentirà la punizione come eccessiva, poiché il dolore soggettivo è sentito come maggiore rispetto al torto di cui si era reso responsabile inizialmente, innescando così in un circolo vizioso senza fine e inconcludente.




La vendetta quindi non determina una soluzione di un problema né comporta un sollievo ma acuisce ulteriormente la sofferenza psicologica. Un modo per uscire da questa spirale negativa potrebbe essere il perdono.

Definire il perdono non è semplice. Innanzitutto viene definito in relazione a ciò che non è: non si tratta di negare, minimizzare, scusare l’altro o dimenticare (Toussaint et al., 2012).  Si tratta di un costrutto complesso che implica aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali (Worthington et al., 2007).

Il perdono è un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale, nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono ridotti, non negando il proprio diritto di sperimentarli, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore (McCollough & Worthington, 1995).

Da questa definizione si può capire come il perdono è un processo che implica la consapevolezza da parte della vittima di aver subito un’ ingiustizia ma si sceglie volontariamente di superare la vendetta e di porsi in una posizione diversa.

Secondo Worthington (2007) due sono le tipologie di perdono: da un lato vi è il perdono decisionale ovvero la presa di decisione da parte del soggetto di controllare i propri comportamenti (aspetto cognitivo), dall’altro il perdono emotivo ovvero le emozioni che entrano in gioco durante il perdono in quanto nel perdonare si attiva una trasformazione delle emozioni: da negative come l’ostilità e la rabbia a positive quali compassione e empatia. Tutto ciò si ripercuote nel comportamento che verrà messo in atto.

La capacità di perdonare in ognuno di noi cambia nel corso della vita e non si mantiene stabile negli anni. Kohlberg (1976) distingue tre stadi di sviluppo del perdono in cui le ragioni per cui una persona è motivata a perdonare si diversificano a seconda del momento di vita (McCullough et al., 2009):

il perdono è possibile solo dopo che la vittima ha ottenuto vendetta, quindi ci deve essere prima una restituzione del torto subito che rende possibile il perdono;
il perdono è possibile in quanto ci sono delle regole morali, religiose e sociali che creano pressione e condizionano il soggetto nel modo di reagire a un’ingiustizia;
il perdono è utile in quanto permette di vivere in armonia nel contesto sociale e perdonare significa esprimere il proprio amore in modo incondizionato.
Quando si parla di capacità di perdonare non si fa riferimento solamente a quel comportamento, atteggiamento di compassione e benevolenza che la vittima di una ingiustizia decide volontariamente di riservare al trasgressore, ma riguarda anche il comportamento e l’atteggiamento che una persona può avere verso se stesso qualora sia il responsabile di un’azione dannosa verso altre persone. Bisogna distinguere infatti il perdono in relazione alla fonte della trasgressione: si può essere vittime di un torto e quindi in questo caso il perdono sarà rivolto verso terzi, ma si può anche essere i responsabili di un torto e sentirsi colpevoli del proprio comportamento, in questo caso il perdono deve essere rivolto a se stessi.



Non bisogna dimenticare che il responsabile di un comportamento dannoso per altri è una persona con emozioni e sentimenti, e spesso ci si può rendere responsabili di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale. In questi casi il trasgressore può sentirsi in colpa per quanto commesso e non perdonarsi di aver causato dolore. Esempi di questi casi si rintracciano proprio nei veterani di guerra i quali al rientro da una missione continuano a rimanere focalizzati sugli orrori della guerra di cui essi stessi sono i responsabili, anche se in maniera indiretta. L’incapacità di perdonare se stessi per aver commesso una trasgressione si associa a sentimenti molto dolorosi di colpa, vergogna, rammarico e imbarazzo mentre nella vittima che subisce un’ingiustizia le emozioni più frequenti sono rabbia e ostilità. Secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero connesse ovvero l’incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata a una incapacità di perdonare se stessi (Berit et al., 2010).

A prescindere dalla fonte del perdono, diversi studi hanno messo in evidenza gli effetti del perdono e del non perdono sia sulla salute fisica che mentale.

L’interesse della psicologia per il perdono è andato aumentando negli ultimi decenni, in particolare a patire dagli anni ‘90 del secolo scorso quando diversi studi hanno iniziato a rilevare una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico e per questo l’attenzione si è sempre più concentrata proprio sulla comprensione dei possibili benefici del perdono sulla salute psico-fisica. Saper perdonare potrebbe essere un mezzo per favorire il benessere psicologico, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, ovvero riducendo la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni negative che non aiutano a superare positivamente un’ingiustizia subita ma al contrario ne peggiorano la salute psico-fisica.

Ovviamente non tutti sono disposti a perdonare. Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale.

Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo e complesso processo di elaborazione di un evento negativo accaduto.

Essere capaci di perdonare si associa a minori livelli di depressione e di ansia (Touissaint et al., 2012), di ideazione paranoide, di psicoticismo, di senso di inferiorità o di inadeguatezza. L’incapacità di perdonare se stessi si associa invece a un peggior benessere psicologico, disturbo da stress post-traumatico, depressione, ansia (Witvliet et al., 2004; Dixon et al., 2014).

Perdonare l’altro di quanto accaduto aiuterebbe la vittima a superare veramente la trasgressione e il dolore connesso, evitando la ruminazione ossessiva sull’evento accaduto (Thompson et al., 2012). La ruminazione infatti è una strategia di fronteggiamento dello stress maladattiva, che si associa negativamente al perdono, sia di sé che degli altri (Dixon et al., 2014).

Un interessante modello sulla relazione tra incapacità di perdonare, ruminazione e sintomi depressivi è stato avanzato da Touissant & Webb (2005) in cui si suggerisce una relazione indiretta tra non-perdono e scarsa salute psicologica, mediata appunto dalla ruminazione. La ruminazione, il pensare continuamente al passato e ai propri errori gioca quindi un ruolo centrale nel mediare il rapporto negativo tra capacità di auto-perdono e benessere psicologico (Touissaint et al., 2001).



Secondo il modello l’incapacità di perdonare se stessi si associa, in modo indiretto, a maggiori sintomi depressivi, alienazione sociale e mancanza di sostegno da altre persone (Berit et al., 2010) e aumenterebbe il rischio di mortalità (Hirsch et al.,2011).

Tra i meccanismi che sembrano mediare questo rapporto vi sarebbe il perfezionismo e l’incapacità di accettare le proprie imperfezioni. Due forme di perfezionismo, una maladattiva (autovalutazione di se negativa) e una invece adattiva (coscienziosità, scrupolosità), possono essere presenti e associarsi in modo diverso alla psicopatologia. La forma maladattiva si associa a depressione, mentre la seconda è una forma di perfezionismo più positiva e adattiva, ovvero quella che sostiene, ad esempio, la motivazione a raggiungere successi scolastici (Dixon et al., 2014). Il perfezionismo è un costrutto molto complesso che presenta diverse dimensioni e non può essere considerata in modo univoco come una caratteristica totalmente positiva o totalmente negativa.
Lo studio di Dixon (2014) ha indagato in modo particolare la possibile relazione tra perfezionismo, ruminazione e benessere/malessere psicologico rilevando che la forma di perfezionismo maladattiva correla in modo indiretto con la capacità di perdonarsi, mediato oltre che dalla ruminazione anche dalla accettazione di sé: maggiore è la tendenza al perfezionismo (nel senso di autovalutazione negativa), maggiori saranno i livelli di ruminazione, associato a una minore capacità di auto-accettarsi e auto-perdonarsi.
L’incapacità di perdonare se stessi è stata rilevata in diversi studi su soggetti reduci di guerra, veterani che non riuscivano a perdonarsi di aver commesso delle violenze verso altre persone legate al loro impegno in scenari di guerra. Tra i soldati che avevano sviluppato un Disturbo Post Traumatico da Stress si sono riscontrati infatti livelli molto bassi di auto-perdono (Berit et al., 2010), oltre a livelli elevati di depressione e ansia (Witvliet et al., 2004).

La capacità di perdonare oltre a mostrare benefici sul benessere psicologico, sembra avere effetti positivi anche sulla salute fisica. Diversi studi hanno infatti dimostrato come lo sperimentare per lungo tempo emozioni negative quali rabbia, ostilità, risentimento aumenti l’incidenza di disturbi cardiovascolari (Friedberg et al., 2009). Friedman e Rosenman (1974) furono i primi a notare come le persone con un disturbo cardiovascolare fossero accomunate da un aspetto caratteriale, ovvero una ostilità liberamente fluttuante, ostilità pervasiva e duratura che si attiva in risposta anche a stimoli banali in diverse situazioni quotidiane (Grandi et al., 2011). Il modo in cui il perdono potrebbe promuovere la salute psicologica è proprio attraverso la riduzione di rabbia e ostilità favorendo emozioni positive quali compassione, benevolenza e amore.

Se da un lato pensare continuamente la possibile vendetta, rimanendo per lungo tempo focalizzati sull’evento negativo può aiutare il soggetto a nascondere il sentimento di perdita e di depressione che possono emergere quando si viene lesi moralmente, nel lungo termine non aiuta il soggetto a superare il trauma (Stoia-Caraballo et al., 2008).

La depressione infatti può emergere proprio in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati successivamente la trasgressione, come risultato di valutazioni cognitive negative sull’evento.

La rabbia e l’ostilità rappresentano importanti fattori di rischio per la mortalità a causa dell’aumento della pressione sanguigna che si registra durante tali emozioni negative, aumentando la probabilità di sviluppare, nel lungo termine ipertensione e malattie coronariche. In uno studio sperimentale condotto da Witvliet et al. (2001) sono stati messi a confronto due gruppi di soggetti e a entrambi è stato chiesto di immaginare quale sarebbe stata la loro reazione, la loro risposta ad un torto subito. Nello specifico è stato chiesto loro se avrebbero perdonato o meno il trasgressore: coloro che immaginavano di perdonare colui che li aveva offesi mostravano livelli di stress fisiologici più bassi (frequenza cardiaca e pressione arteriosa) rispetto a chi invece non perdonava il torto subito (Worthington et al., 2007).

La ruminazione continua su un evento in cui si è sperimentato rabbia comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno: diversi studi hanno messo in evidenze come tra le persone con disturbi del sonno vi fossero livelli di ruminazione alti (Stoia-Caraballo et al., 2008). Anche una qualità del sonno scarsa va ad incidere negativamente sullo stato di salute generale del soggetto.

Dagli studi analizzati emerge coma la capacità di perdonare rappresenta una modalità positiva e adattiva di affrontare situazioni di vita dolorose ed evitare che tali situazioni intrappolino il soggetto in un vortice di emozioni negative che compromettono poi la salute e il benessere della persona.

Attraverso un percorso di psicoterapia il soggetto può essere aiutato nel modo di affrontare le situazioni e di reagire ad esse: non necessariamente di fronte a un torto subito si deve reagire con la vendetta, così come non necessariamente il soggetto colpevole di avere arrecato dolore deve continuare a colpevolizzarsi e autocriticarsi continuamente. E’ possibile prendere un’altra strada: da un lato cercare di empatizzare e di essere benevoli con il trasgressore, così da superare l’ingiustizia subita e interrompere il circolo vizioso della ruminazione rabbiosa. Dall’altro accettare di essere imperfetti e che nella vita si possono commettere degli errori. Non si può tornare indietro ed evitare quanto accaduto, è possibile solo accettarsi nella propria vulnerabilità e perdonarsi.

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