giovedì 20 agosto 2015

COMUNICARE CON LE PAROLACCE



Dai c…!». L’espressione ripetuta e reiterata come un mantra nel film I soliti idioti ha tanto destato diversi moralisti che hanno vergato: è volgare, puro e gratuito. Del resto la volgarità è ovunque intorno a noi.

Da Omero in poi i grandi della letteratura non hanno disdegnato il ricorso all’epiteto forte. Anzi, sembrerebbe che alcuni si siano proprio divertiti a condire qua e là le loro opere con trivialità, sconcezze e un po’ di dissacrazione linguistica. Persino i greci amavano ironizzare sulla società del tempo e sui vizi dei potenti con un linguaggio colorito. Si prendano Archiloco, Eschilo o Sofocle. O il grande Aristofane, che nella commedia Gli Acarnesi fra molti passaggi coloriti ci dice: «Tu che al culo focoso il pelo radi, tanta barba, o scimmiotto, al mento avendo, cammuffato da eunuco, ti presenti?».

I Romani non erano certo da meno. Persino Cicerone non è estraneo a certe espressioni forti. Ma più di tutti il poeta e retore Giovenale, che intorno al 100 d.C. ci ha regalato con le sue Satire veri esempi di politicamente scorretto: «O ancora quando t’impone di farti in là gente che si guadagna i testamenti ogni notte, gente che la via più sicura oggi a far fortuna, la vulva d’una vecchia danarosa, porta alle stelle». E anche: «Non fidarti dell’apparenza: le strade sono piene di viziosi in cattedra. Condanni l’immoralità tu, proprio tu, che degli efebi di Socrate sei il buco più noto? Il corpo rozzo e le braccia irte di setole prometterebbero un animo fiero, ma dal tuo culo depilato, con un ghigno, il medico taglia escrescenze grosse come fichi». E così via.

Intorno al 1300 è la volta di Dante seguito poi da Boccaccio: «Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con la penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per moglie» (Decameron)
Dante nella sua Divina commedia nel canto XVII dell’Inferno, dove di parla della «sozza e scapigliata» Taide, «puttana… che là si graffia con le unghie merdose», e del suo vicino Alessio Inteminei: «E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco». Sempre nell’Inferno, il famoso verso: «Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta». Qualche libro dopo: «Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che  merda fa di quel che si trangugia».



Che dire di Pietro Aretino? A leggerlo vi è un profluvio di “cazzo” e “fica”. Anche Dante aveva usato quest’ultimo termine (sempre nell’Inferno: «Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, /gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”), ma la sua forma più diffusa la dobbiamo all’Aretino, che la usa per la prima volta nella commedia Il Marescalco del 1533. A lui piaceva molto l’oggetto stesso ed è stato l’antesignano del Benigni d’antan: da Ampolla a Bersaglio, Faccenda e Fantasia, Buca e Scodellino, Grattugia e Vergigno, si contano quasi una trentina di metafore per indicare l’organo sessuale femminile. Poi sdoganato, insieme al corrispettivo maschile, nei Sonetti lussuriosi: «Fottiamoci, anima mia, fottiamoci presto / perché tutti per fotter nati siamo; / e se tu il cazzo adori, io la potta amo, / e saria il mondo un cazzo senza questo». Ancora: «Mettimi un dito in cul, caro vecchione / e spinge il cazzo dentro a poco a poco; / alza ben questa gamba a far buon gioco, / poi mena senza far reputazione». E non abbiam scelto nemmeno i passi peggiori.

Quasi al pari del poeta Giorgio Baffo, che scandalizzò la Venezia del Settecento con una continua ode alla “mona”, che tanto bene fa: «Notte e zorno ti fa miracoloni, / che l’acqua, che trà su la to fontana, / dà vita al cazzo, e spirito ai cogioni». Degno antesignano del miglior Belli, con La madre de le sante: «Chi vò chiede la monna a Caterina, Pe ffasse intenne da la gente dotta Je toccherebbe a dì: vurva, vaccina, E dà giù co la cunna e co la potta. Ma noantri fijacci de miggnotta Dimo cella, patacca, passerina, Fessa, spacco, fissura, bucia, grotta, Fregna, fica, ciavatta, chitarrina…».

Si potrebbe continuare con Shakespeare, de Sade, Hugo e Baudelaire fino a Céline, Artaud e Prévert (senza considerare i nostri italiani novecenteschi). Forse aveva ragione nell’Ottocento Carlo Porta, che diceva che qualsiasi linguaggio può esser bello o brutto a seconda di chi lo usa. Insomma, volgari non sono mai le parole stesse. Possono esserlo, ma dipende dalla maestria, l’intelligenza e la cultura di chi le usa.

Aveva proprio ragione Cesare Pavese quando scriveva che «nulla è volgare di per sé, ma siamo noi che facciamo volgarità secondo che parliamo o pensiamo».

Tempo fa, usare una certa tipologia di linguaggio contenente parole poco educate e addirittura volgari, era usanza decisamente maschile. Questo fenomeno era collegato al ruolo della figura del uomo che predominava nella società su quella della donna. Inoltre, i ragazzi facevano e fanno tuttora uso di queste parole per vari motivi: per imporsi nella società, per dimostrare un’età più matura di quella effettiva, per attirare l’attenzione delle ragazze, creando una sorta di corazza attorno a sé. Anche colui, di carattere tranquillo e pacato, che magari proveniva da una buona famiglia, fuori dall’ambiente di casa ci teneva ad essere rispettato, notato o tenuto in considerazione.

Certo, il rispetto non si ottiene con l’arroganza o con i cattivi modi nell’espressione ma, chissà perché, c’è sempre stato questo intento sbagliato sul comunicare. Al contrario, chi usava per comunicare un linguaggio corretto, privo di “parolacce”, veniva considerato come uno dal carattere debole.

Negli ultimi decenni, questa tipologia di linguaggio ha preso dimensioni più ampie del dovuto, comprendendo la sfera familiare, il linguaggio tra marito, moglie e figli. Da notare è che le donne si sono appropriate “comodamente” di tutto il vocabolario che, fino a poco tempo prima, a loro era di accesso negato o “censurato”. Dal loro canto, le donne, sottoposte a una vita stressante e frenetica, dovendo conciliare il ruolo di moglie o madre con quello della lavoratrice, spesso usano certi termini come tentativo di essere ascoltate, rispettate o aiutate. Nella loro vita scorre tutto in maniera così frettolosa che, forse senza accorgersene, certe parole sfuggono e i figli sono i primi ad assorbire e a rispecchiare queste reazioni. I figli imitano i termini peggiori che i genitori dicono in momenti di stanchezza fisica e psicologica.

C’è anche da sorprendersi su come la televisione abbia influenzato negativamente la diffusione di questo fenomeno. In essa, è da ritenersi “abituale” questo linguaggio nei reality e talk - show di un certo livello educativo e culturale. Anche qui, i telespettatori sono suddivisi in due gruppi: in quelli pro e in quelli contro. Chi non li ritiene di suo gradimento non li guarda neanche, ma chi invece li preferisce, li imita pure prendendoli come esempi nella propria vita quotidiana.

Addirittura in cartoni animati di determinate serie, è presente un linguaggio “ricco” di un tranquillo uso di parolacce, che per i colossi cinematografici porta dell’audience in più, ma ai ragazzi porta solo dei cattivi esempi. I ragazzi di oggi sembra che abbiano cancellato dal corretto vocabolario le giuste parole, da sostituirle con parole volgari, ma che stranamente sono di forte effetto, di un effetto immediato, sul quale non ci si può discutere. Si è persa la voglia di ascoltare il prossimo, c’è impazienza di concludere il discorso in maniera forte, chiamandola “di tendenza”.



Il peggio arriva quando si vedono costretti a usare un tale linguaggio i giovani che non condividono ciò, ma che lo fanno per non andare contro la corrente attuale, per non sfigurare, per non mostrarsi “deboli”. Si adeguano semplicemente, ma nella maniera sbagliata. È certo che in questi casi si salva solo chi, facendosi guidare da un’educazione familiare di forti radici e di un carattere ferreo, ne prende le distanze. Un’abitudine questa che ha preso un’ampia diffusione per il fatto che la società di oggi è la tipica società del consumismo, dove l’uomo è diventato un piccolo ingranaggio di una catena infinita, dove dovrebbe mantenere un certo ritmo che implica una certa tipologia di comportamento e linguaggio. Ciò, se non vuole che questa catena si fermi oppure si spezzi, rimettendoci lui stesso in prima persona. È una società che perde i principi e i valori fondamentali, dove la superficialità ed il materialismo dettano legge. Aiuta il mezzo di rapida diffusione, la tivù commerciale, a ingrandire certe figure o personaggi – che potrebbero essere senza alcun valore, ma che per i loro modi di comunicare “colorati”, ricchi di termini forse per molti inconcepibili, ma per la maggior parte delle persone, termini considerati divertenti e di successo – a diventare chiave di lettura del comportamento trai i giovani di oggi.

Il linguaggio giovanile risulta ordinariamente infarcito di espressioni volgari, di termini coprolalici o legati alla sessualità: le cosiddette “parolacce”. Questo dato, sotto gli occhi di tutti, viene ora confermato anche da una ricerca condotta su un campione di 20 centri giovanili dell’Emilia Romagna, frequentati da giovani tra gli undici e i venti/ventidue anni. L’indagine è stata effettuata registrando il parlato giovanile a insaputa dei giovani, con il sistema candid tape. Questa ricerca copre una lacuna a livello informativo sul linguaggio giovanile in Italia. L’unico precedente a nostra conoscenza era stata un’indagine a Trento, Milano e Genova sulla conoscenza ed uso dei linguaggi giovanili.
Queste ricerche confermano molte delle intuizioni di coloro che vivono abitualmente a contatto con i giovani, ma permettono di fare alcune osservazioni più precise anche ai fini di un intervento educativo.
 
Ad una prima osservazione dalla ricerca risulta che, dopo i termini generici più comuni (“cosa”, “cosare”, “dire”, “fare”, “molto”, “bene”, “niente”, “cioè”...), i lemmi che appaiono con più frequenza nel linguaggio giovanile sono di genere sessuale, coprolalico e blasfemo. Tuttavia questi termini, nell’uso che ne fanno i giovani, hanno perso gran parte del loro significato originario: nel contesto dei loro discorsi essi hanno prevalentemente funzione rafforzativa o sono usati come semplice intercalare.

Il gusto per le espressioni gergali, per i significati reconditi e soprattutto per la coprolalia, la parolaccia, che caratterizza il linguaggio dell’adolescente maschio, diventa un mezzo socializzante. Esso funge da “parola d’ordine” all’interno del gruppo, dell’ambiente. L’impiego del turpiloquio in particolare agisce sulla socializzazione del gruppo, contribuendo a formare un atteggiamento di consenso tra i partecipanti: con la parolaccia detta ed accettata in comune viene esaltata la forza del gruppo e i singoli elementi si liberano da eventuali complessi di colpa che la dissacrazione di tabù sociali o sessuali comporta. Ma il turpiloquio cementa il gruppo anche quando viene usato contro elementi esterni al gruppo stesso: la donna, l’omosessuale, l’handicappato, che assumono la funzione di capro espiatorio. La stessa funzione che aveva durante il regime fascista il turpiloquio (tra cui il ben noto “me ne frego”) e la violenza (verbale e non) contro bersagli gratuiti.

La parolaccia ha quindi una funzione socializzatrice, fa da collante del gruppo. L’uso di essa rappresenta un tentativo di differenziazione dal mondo adulto e dell’infanzia. Rappresenta un segno di rottura dal clima di dipendenza e ossequio finora vissuto. Perciò essa è funzionale anche alla formazione dell’identità del singolo, che trova nelle espressioni tipiche del gruppo gli strumenti per definire la propria identità. L’adolescente apprende nel gruppo quelle regole del linguaggio che conserverà anche al di là dell’influenza diretta del gruppo. Tenderà perciò a riprodurre-ripetere le stesse forme verbali anche al di fuori della stretta cerchia del gruppo.

L’uso della parolaccia rappresenta inoltre una liberazione da un tabù, da una interpretazione magica della parola, quasi che il nominarla contagiasse. L’adolescente, nel suo cammino di esplorazione della realtà e appropriazione di significati, prova a nominare quella parola e s’accorge che essa non produce nessun accadimento. Perciò il rifiuto dell’oggettività della parola sta ad indicare la presa di possesso del linguaggio, l’affrancamento dalla dipendenza genitoriale, la gestione in proprio (sganciata dalla tradizione) delle parole e dei suoi significati.
Secondo alcuni psicanalisti, l’uso della parolaccia o dei discorsi a contenuto sessuale, rivela anche il tentativo di dominare, verbalizzandoli, i complessi processi intrapsichici in cui l’adolescente si trova immerso, afferenti sovente la sfera sessuale.


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