sabato 21 novembre 2015

I MOTIVI PER CUI GLI IMMIGRATI FUGGONO

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Mai così tanti migranti sono arrivati sulle coste dell’Europa del sud come nel 2015.

I principali paesi di provenienza dei migranti sbarcati in Europa nel 2015 sono Siria, Afghanistan, Eritrea, Nigeria e Somalia.

La Siria è sconvolta da quattro anni da una confusissima guerra civile da cui, semplicemente, la gente scappa. Dall’inizio del conflitto nel 2011 sono morte più di 200 mila persone, e 11 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case. Di queste, circa 7 milioni si trovano ancora in Siria, mentre 4 milioni hanno lasciato il paese. La grande maggioranza di questi esuli si trova in Turchia (2 milioni di persone), Libano (1 milione) e Giordania (600 mila). Gli altri sono sparsi tra Iraq ed Egitto, oppure sono in viaggio per l’Europa. Finora nel 2015 ne sono arrivati 126 mila, il 43% del totale degli arrivi nel 2015.

L'Afghanistan, tutt’altro che stabilizzato dopo la guerra avviata nel 2001, è entrato in una nuova profonda crisi nel 2014. L’instabilità politica seguita alle incerte elezioni di giugno 2014 ha dato nuova linfa ai talebani, che hanno incrementato gli attacchi alla popolazione civile (+24% rispetto al 2013). A questo si aggiungono i cronici problemi del paese: abusi delle forze di sicurezza (che comprendono il massiccio ricorso alla tortura), minacce alla libertà di espressione, negazione dei diritti delle donne. Oltre 700 mila afghani sono profughi all’interno del loro paese, circa 2,5 milioni hanno lasciato il paese, di cui la grande maggioranza vive in Iran e Pakistan. Sono 35 mila gli afghani sbarcati in Europa (praticamente tutti in Grecia) nel 2015.

Nel 2015 sono arrivati in Europa circa 29 mila eritrei, 15 mila nigeriani e 9 mila somali, quasi tutti in Italia. Più che a motivi interni quindi il massiccio arrivo di migranti da questi tre paesi sembra dovuto all’efficienza raggiunta dal traffico di esseri umani.

Il continente africano è composto da 54 paesi, molti dei quali attraversano crisi profonde, umanitarie, politiche o nella sfera dei diritti umani.

In cima alla lista, c’è la Somalia. Dopo il crollo del regime di Siad Barre, nel 1991, è piombata nel caos, trasformandosi in un Paese senza Stato, in cui si sono avvicendati governi deboli incapaci di mantenere il controllo del territorio. Una guerra civile, di cui in tanti hanno approfittato, poi la pirateria (ora quasi del tutto sconfitta), l’estremismo che è passato dalle Corti islamiche agli Al Shabaab, che oggi, respinti nella zona a sud del paese, sconfinano sempre più spesso in Kenya. La crisi più acuta è passata,  ma la situazione resta difficilissima, gli attentati nella capitale continuano a mietere vittime e tutta l’intellighentia e la classe media del paese è fuggita tra Europa e Nord America. Chi scappa ora ha certamente diritto all’asilo. E ha un nucleo familiare a cui ricongiungersi. La diaspora somala è tra le più nutrite al mondo.
Ma la Somalia disastrata di cui parliamo è la parte sud del paese, dove si trova la capitale Mogadiscio. Per intenderci, l’ex colonia italiana. La parte nord, quella che fu colonia inglese, vive una relativa normalità: il Puntland e il Somaliland, dichiaratisi autonomi dalla capitale, anche se non riconosciuti dalla comunità internazionale, sono paesi relativamente tranquilli.

La Libia del post Gheddafi è un altro paese in guerra, con due governi in carica e zone al di fuori di ogni controllo statuale, cui si aggiunge la porzione di territorio sotto il controllo di ISIS. Punto di raccolta delle rotte migratorie che convergono sia dall’Africa subsahariana che dal Medio Oriente, da qui partono i barconi che affollano da tempo il mar Mediterraneo. Curiosamente, però, i libici non partono. Non verso l’Europa, almeno. Sono in tanti ad aver varcato i confini con la Tunisia e l’Egitto, in fuga temporanea. Ma sui barconi no, non arrivano. Forse perché sono i primi a sapere quanto alti siano i rischi.

In tanti fuggono da paesi schiacciati da dittature spietate. In primis, l’Eritrea, altra ex colonia italiana, da cui fuggono tutti quelli che possono, in particolare i giovani. Sono spesso loro ad affollare i barconi, insieme ai somali. Scappano da un dittatore, Isaias Afewerki, al potere dal 1993, che opprime ogni spazio di libertà personale, che obbliga ragazze e ragazzi al compimento dei 18 anni ad un servizio militare infinito, che appena avverte aria di dissenso sbatte gli oppositori reali o presunti in carceri da cui è difficile uscire vivi. Tutto è in mano al governo. Anche le vite delle persone. Non tanto diversa è la situazione del Gambia, piccola striscia di terra incuneata nel Senegal, paese anglofono dominato da Yahya Jammeh, un padre-padrone che non ammette dissenso. Al potere con un golpe dal 1994, soffoca ogni libertà personale e reprime il dissenso con veri e propri squadroni della morte. Situazione aggravatasi dopo il tentativo di colpo di stato dello scorso dicembre, a cui ha fatto seguito un’ulteriore ondata repressiva, fatta di arresti e torture. Il presidente ha annunciato l’aumento dei reati punibili con la pena di morte. Per questo il Gambia è il più piccolo paese africano e ha solo due milioni di abitanti, ma attualmente è il 3° paese di provenienza dei richiedenti asilo.



Molti altri sono i regimi autoritari in Africa, ma non tutti generano flussi migratori verso l’Europa, anche se chi ci prova ottiene in genere asilo. Citiamo il caso del Burundi, situazione che è rapidamente degenerata: il presidente uscente ha violato la costituzione facendosi votare per un terzo mandato, nonostante mesi di proteste, e ora il paese è in bilico fra la dittatura e la guerra civile. Sono circa 150mila i burundesi fuggiti nei confinanti Rwanda, Congo e Tanzania. Arrivi che invece continuano da altri paesi dove non si può parlare di vere dittature, ma di regimi non democratici, in genere frutto di golpe, che non rispettano i diritti umani. È il caso della Guinea e della Guinea Bissau, da cui in tanti approdano sulle nostre coste.

Vari sono i paesi che escono da conflitti sanguinosi. Alcuni di questi attraversano la fase dei regolamenti di conti. Ad esempio, la Costa d’Avorio, paese ora pacificato, ma il cui ex capo di stato è sotto processo alla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Chi era dalla sua parte ora lascia il paese, per sfuggire a possibili ostracizzazioni e vendette.

Esistono Boko Haram e gli Al Shabaab, ma anche altri gruppi (quasi tutti di matrice islamica) che infestano intere regioni, in particolare nella zona del Sahel. Gruppi feroci, che radono al suolo vite, tradizioni, cultura. Boko Haram e la follia del suo capo Abubakar Shekau seminano il terrore non solo nel nord della Nigeria, ma ormai anche nel nord del Camerun, nel sudest del Ciad e nel sudovest del Niger, gli Al Shabaab che dalla Somalia terrorizzano sempre più il Kenya (ultima, la strage al campus di Garissa), ma ci sono altri gruppi di cui sentiamo meno parlare ma che non per questo sono meno virulenti: c’è Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico), che dall’Algeria si è spostato in Mali, dove troviamo anche Ansar Eddine che infesta il nord del Paese, cui vanno aggiunti i gruppi armati che rivendicano l’indipendenza del nord del paese, un caos che la missione Onu Minusma fatica a fronteggiare. E tanti sono i maliani che approdano sulle nostre coste, così come i nigeriani, i nigerini e in misura minore i ciadiani e i camerunesi. In questi casi, alle autorità spetta un compito non facile, per discernere chi fugge da una zona di pericolo da chi proviene da zona tranquilla ed è dunque da considerarsi migrante economico. Dalla Nigeria, per esempio, arrivano in tanti, ma non tutti dalle zone sotto la longa manus di Boko Haram.

Tra i richiedenti asilo compaiono anche altre provenienze: ci sono molti senegalesi e ghanesi, ci sono egiziani, marocchini e tunisini. Intanto, anche chi giunge dalla Nigeria o dalla Costa d’Avorio può essere un semplice migrante economico, così come in aumento sono gli africani della classe media che vendono tutto per cercare fortuna da noi. Ma al contrario anche da paesi non in guerra e non oppressi da regimi possono arrivare persone che ottengono asilo o protezione umanitaria. Ad esempio, le minoranze religiose perseguitate o emarginate, o gli omosessuali che in alcuni paesi sono anche puniti col carcere.

Poi ci sono i minori non accompagnati, in gran parte nordafricani: un vero e proprio investimento fatto dalla famiglia, che vende i propri beni per mandare il figlio ragazzino a cercar fortuna.
Situazioni complesse e variegate molto più di quanto sembri, che spiegano tra l’altro (almeno in parte) perché sia così lungo e laborioso il processo di esame delle varie richieste d’asilo. Così come è chiaro che per molte di queste crisi che generano flussi migratori la soluzione non sarebbe tanto umanitaria, quanto politica.

Mentre siriani e afghani arrivano soprattutto in Grecia e da lì proseguono seguendo la rotta balcanica, in Italia, oltre a eritrei, nigeriani e somali arrivano persone anche da molti altri paesi africani, anche se in numero minore: Sudan, Gambia, Senegal, Ghana, Mali. Le motivazioni sono sempre quelle: instabilità interna ai limiti della guerra civile, presenza di gruppi islamisti radicali, estrema povertà.



Al di là delle specifiche condizioni dei paesi di partenza, ad influire sull’effettivo numero di migranti che arrivano sulle coste europee è anche quello che succede nei paesi di transito, dove alcune condizioni possono rendere più facile, o più difficile, l’accesso alle coste europee.

Ci riferiamo principalmente a Libia, Sudan e Turchia, snodi cruciali per i flussi migratori verso l’Europa. Questi paesi sanno di svolgere un ruolo strategico che all’Europa sta molto a cuore, e utilizzano questa loro posizione in maniera strumentale per negoziare accordi favorevoli con l’Europa o con singoli paesi europei. Come? Aprendo o chiudendo i rubinetti delle partenze.

Era una strategia spesso utilizzata da Gheddafi, che dava l’ordine di far partire i barconi quando voleva ottenere qualcosa dall’Europa e di fermarli quando lo otteneva. È una strategia che tuttora la sgangherata Libia tenta di portare avanti, e che anche la Turchia sta imparando a seguire.

Negli ultimi tempi poi sta emergendo il Sudan come luogo cruciale per la gestione del traffico di migranti provenienti dal Corno d’Africa, in particolare da Eritrea e Somalia. A Khartoum si concentrano una serie di servizi per i migranti, tra cui molte agenzie che offrono viaggi in Libia dove hanno già accordi con gli scafisti per il proseguimento del viaggio verso l’Europa. I migranti acquistano un pacchetto completo, al costo base di duemila euro.

Una simile organizzazione sta accorciando i tempi degli spostamenti e rendendo più facile (se così si può dire) i viaggi per un numero crescente di persone. Si riesce ad arrivare dal Sudan alle coste italiane in un paio di settimane, per un viaggio che fino a qualche tempo fa richiedeva mesi se non anni, perché bisognava attraversare tutto il Sudan e ci si ritrovava poi nel caos della Libia, nei famigerati centri di smistamento, come quello di Kufra, dove si restava rinchiusi anche per mesi subendo stupri, violenze, estorsioni.

Questo non significa che il viaggio è migliore, è solo più corto e efficiente. Le jeep che viaggiano nel deserto continuano ad essere stracolme e pericolosissime, i barconi vetusti e insicuri, gli scafisti spietati e pronti a sparare su chi si ribella o a rinchiudere i migranti nella stiva per ottenere più soldi.

Un altro fattore che spinge i migranti a muoversi e ad andare da una parte piuttosto che da un’altra è quello che li aspetta nei paesi di arrivo. Ci riferiamo a condizioni economiche, politiche e sociali.

Dal punto di vista economico è ovvio che i migranti si muovono per andare dove ci sono più opportunità lavorative e di avere un reddito per mantenersi e mandare i soldi ai propri familiari rimasti nel paese di origine. Per questo nei periodi di crisi, e nei territori in crisi, si assiste anche ad una regressione del fenomeno. Al netto di questi recenti afflussi di migranti comunque per lo più in transito, in molte zone d’Italia colpite dalla crisi il numero di stranieri residenti sta diminuendo.

A livello politico, i migranti si muovono se intravvedono possibilità di ottenere una qualche forma di protezione politica, che garantisca loro la possibilità di restare nei paesi di arrivo. Il caso più eclatante è quello di questi giorni relativo ai siriani, che verranno accolti indiscriminatamente dalla Germania. È chiaro che questo è un elemento che sta portando moltissimi siriani a dirigersi verso quel paese.

Il muro in costruzione sul confine con la Serbia e le politiche annunciate dal premier Orban sono invece chiaramente dei fattori che influiranno negativamente sui flussi in arrivo in Ungheria, paese che finora nel 2015 ha ricevuto moltissime domande di asilo, ma che è visto più come un luogo di transito sulla strada verso Austria e Germania.

La Svezia è un altro paese che, oltre ad essere ricco, è storicamente molto accogliente con i richiedenti asilo, ed infatti ospita grosse comunità di immigrati siriani, iracheni, somali, eritrei. Chi proviene da questi paesi ha dunque un’elevata probabilità di ricevere lo status di rifugiato in Svezia, e vale dunque la pena affrontare un viaggio lungo e rischioso per una così alta ricompensa.

Qui si inserisce il famoso dibattito sulla distinzione tra rifugiati e migranti economici.

Ovviamente non ci sono solo motivazioni politiche ed economiche a muovere le persone. Un ruolo molto importante è spesso giocato dalle reti familiari e sociali eventualmente già presenti nei paesi di arrivo, così come dalle scelte dei singoli, che spesso tendiamo a dipingere semplicemente come dei disperati, ma che in realtà mantengono un’elevata capacità di indirizzare la propria vita, nonostante tutto.



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