venerdì 20 novembre 2015

ISLAM E ISIS

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Dopo i tragici fatti di Parigi, il presidente iraniano Hassan Rouhani, come riporta l'Independent, parla apertertamente di "crimini contro l'umanità" mentre il ministro degli esteri del Qatar, Khaled al-Attiyah, definisce gli attentati "un'atrocità". Joko Widodo, leader indonesiano, ha condannato a nome di tutto il Paese la violenze di Parigi.

Forse, il leader islamico che ha espresso con più vigore una condanna nei confronti dei terroristi parigini è Shuja Shafi, capo del Consiglio musulmano della Gran Bretagna: "I miei pensieri e le mie preghiere sono rivolte alle famiglie delle vittime e dei feriti e a tutti i francesi, nostri vicini. Questo attacco è stato rivendicato da un gruppo che si fa chiamare 'Stato islamico' . Non c'è nulla di islamico di queste persone e le loro azioni sono il male e al di fuori dei confini stabiliti dalla nostra fede".

Una dichiarazione che dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che la guerra mossa dall'Isis è una guerra rivolta anche contro tutti i musulmani moderati.

“Ci sono le torture e le crocifissioni. I bambini decapitati e sepolti vivi. L’Isis non è l’Islam. Abbiamo paura in questo periodo, noi musulmani. Paura di essere confusi”. Lo dice Housam Najjair, ex foreign fighter di religione islamica e nazionalità irlandese, reduce dai combattimenti in Libia nel 2011 (era nel gruppo che ha assaltato il compound di Gheddafi) e in Siria nel 2012 contro Bashar Al-Assad.

“La dittatura e il terrorismo sono la stessa cosa – dice Mokrani – il terrorismo è una dittatura dal basso. Solo con la libertà possiamo riformare il pensiero religioso. La democrazia, dunque, non è solo una necessità economica e politica ma anche una necessità religiosa”. Housam Najjair ha un viso da ragazzotto dublinese che tutto racconta tranne il suo passato da sniper. “Volete sapere perché un ragazzo parte per andare a combattere? Io ho deciso di non aspettare più una mattina in cui ho visto un gruppo di mercenari di Gheddafi che stupravano una donna libica – dice lui – ero in un internet café vicino a casa mia, stavo parlando con un mio amico della situazione. Poi lui mi ha mostrato quel video e la mia vita è cambiata”. Poi Housam Najjair è entrato nelle brigate. “Ho fatto di tutto per diventare un bravo soldato – dice – ero nella brigata che è entrata nel compound di Gheddafi quel 20 agosto. Non potrò mai dimenticarlo”.

“Non si può prestare a Dio una volontà di violenza e non è legittimo dire difendo Dio con la violenza – dice Padre Samir Khalil Samir, teologo gesuita – Dio non ha bisogno di difesa. La violenza in nome di Dio è la peggiore violenza pensabile”. Ma non è l’unica. “Ci sono cittadini di serie A, di serie B ma anche di serie C – chiude Adnane Mokrani – e sono quelli di cui nessuno si occupa. Quelli oppressi dai dittatori. Non si possono condannare solo l’Isis e non le bombe della Nato”.



La notte di guerriglia urbana scatenata da Isis a Parigi segnala un mutamento di strategia dell’organizzazione terroristica del Califfato e induce mutamenti irreversibili nella politica europea e nella guerra in Iraq e Siria. Chiama l’opinione pubblica e la classe dirigente a una migliore comprensione degli avversari che fronteggiamo e che, fin qui, assai male abbiamo compreso. In mancanza di analisi razionali, scevre da propaganda, populismo rabbioso e ingenui sentimentalismi, resteremo in balia della violenza.
 
L’attacco di Parigi è stato il gesto militare più sanguinoso in Francia dalla fine della guerra 1945, con Papa Francesco a parlare, saggiamente, di «III guerra mondiale». Isis, che dai pozzi petroliferi ricava secondo il «Financial Times» un milione e mezzo di dollari al giorno, esporta ora i blitz. Prima di Parigi, 129 morti, ha colpito il 10 di ottobre Ankara, in Turchia, oltre 100 vittime, il 31 ottobre ha abbattuto il jet civile russo sul Sinai, 224 morti, peggiore strage aerea nella storia di Mosca, il 12 novembre ha seminato morte a Beirut, in Libano, oltre 40 caduti, un massacro come non si ricordava dagli anni della guerra civile.

L’incapacità di vedere il dispiegarsi degli attacchi nella loro continuità, volta a volta ipnotizzati dall’ultimo evento in tv e sui social media, ci disarma. La rete televisiva Al Jazeera dava risalto alle lamentele del mondo arabo, che accusa Facebook di non avere permesso ai libanesi di usare la ricerca automatica di vittime e superstiti a Beirut, come ha fatto, lodevolmente, a Parigi. Facebook nega il doppio standard, e i blogger libanesi ricordano come nel loro Paese, con comunicazioni precarie, a poco sarebbe servito lo strumento. Non importa, la polemica divide «Noi» da «Loro» e semina amarezze.
 
In realtà Isis, nei territori occupati e nei raid terroristici, non discrimina tra cristiani e musulmani, colpendo chi non si unisce alla campagna per il Califfato, e il generale Michael Nagata, comandante americano in Medio Oriente, ammette umile quello che troppe concioni demagogiche tacciono: «Non abbiamo sconfitto le idee di Isis, in realtà non riusciamo nemmeno a comprenderle». Battere un nemico che non si comprende è, ricordano gli studiosi di strategia da Sun Tzu a Clausewitz, Delbruck e Keegan, impossibile. Il presidente Obama paragonava dapprima Isis a «una squadra di dilettanti», oggi ne nega il carattere islamico, dichiarando che la religione non c’entra nella campagna del Califfato.  
Nella notte di sabato, al dibattito per le primarie verso la Casa Bianca del partito democratico, la stessa afasia ha colpito prima il senatore socialista Sanders, che ha minimizzato la minaccia del terrore preferendo parlare di economia, mentre anche la favorita Hillary Clinton ha confermato che, a suo avviso, la religione non c’entra con la guerra in corso. È, da parte dei politici, una comprensibile prudenza per evitare di seminare odio verso i cittadini di religione musulmana, ma impedisce di analizzare le motivazioni e la cultura che permettono a Isis di reclutare, online, migliaia di seguaci, donne incluse, ammoniscono gli studiosi Erin Marie Saltman e Melanie Smith.

Isis è un movimento politico, culturale, militare che usa terrorismo e guerra, radicandosi nell’interpretazione radicale dell’islam. Nemico della modernità, Isis proclama un islamismo che risale ai tempi precoloniali, affascina i giovani con il credo antidemocratico, fautore di un mondo dove gli individui, maschi o femmine, credenti e no, hanno il destino segnato alla nascita. Non comprendere, o offuscare per cautela, questo dato non ci permette di fare passi avanti contro i terroristi: Isis è un esercito politico islamista, la religione non solo c’entra ma è cruciale nell’analisi. Lo stesso errore di timidezza ideologica fu commesso agli esordi delle Brigate Rosse, quando tanti osservatori negarono la radice comunista di Curcio e adepti, finché sul Manifesto, con spietata lucidità, Rossana Rossanda non scrisse di «album di famiglia», legando per sempre Br e sinistra. Un «album di famiglia» altrettanto diretto lega Isis alla storia dell’islam. Milioni di comunisti italiani combatterono le Br, come miliardi di musulmani si oppongono al terrorismo in nome della loro religione, ma la contraddizione politica esiste e va compresa per recidere le radici estremistiche.
 
Non farlo lascerà campo a populisti, xenofobi e razzisti che già, in America, Europa ed Italia, operano con efficacia. La notte di sangue a Parigi offre argomenti di propaganda al Fronte Nazionale della Le Pen e ai movimenti gemelli, e già porta la Polonia a chiudere le frontiere, mentre in Germania Horst Seehofer, presidente della Csu, chiama a confini più controllati, intorno all’Unione Europea e tra gli Stati membri. Dopo la strage a «Charlie Hebdo» Seehofer aveva preso la linea opposta, restando pro «confini aperti», oggi cambia idea e con lui milioni di europei. Un solo infiltrato tra tanti infelici profughi siriani, purtroppo, cambia il clima politico e serve ora intrecciare rigore a compassione.




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