mercoledì 2 dicembre 2015

I CADAVERI NON IDENTIFICATI



Sono 1.258 i cadaveri non identificati che attendono, negli obitori italiani, di poter riposare in pace in una tomba di famiglia o in un campo. Alcuni da qualche mese, altri da anni. E naturalmente, più passa il tempo e meno speranze hanno di ritrovare una mano amica che li conduca fuori dal limbo. Sono clandestini affogati in Sicilia, anziani perduti in un’escursione solitaria per funghi, e soprattutto suicidi.

Annegati, impiccati, straziati dalle ruote di un treno. Molti popoli credono che l’anima non possa allontanarsi dal corpo insepolto, specialmente se ha conosciuto una morte violenta. Resta nei pressi tormentando se stessa e chiunque rifiuta di aiutarla. Antigone sacrificò la sua vita per dare sepoltura al fratello Polinice, abbandonato ai vermi fuori dalle mura di Tebe: infranse la legge degli uomini in nome delle leggi non scritte degli dei.

Con la stessa passione di Antigone, e la stessa sete di giustizia, oggi c’è chi continua a cercare di rintracciare un filo per associare questi corpi a un nome. Sarebbe bello se bastasse incrociare il registro dei John Doe d’Italia con quelli delle persone scomparse, che sono migliaia ogni anno. A volte funziona, ma non è così semplice.

A dare un aiuto in più, accanto ad alcuni identikit c’è anche una sigla, Labanof. Sta per Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, fondato nel 1995 a Milano. Sono gli specialisti che intervengono su scene del crimine o su cadaveri in avanzato stato di decomposizione, cercando di trarne più informazioni possibile. E pubblicano le foto dei morti senza nome, immagini su cui è meglio non attardarsi, o le ricostruzioni del viso. Molti i dossier chiusi con successo, quando al posto della foto c’è la sigla “identificato” si prova un enorme senso di sollievo.

Tanti i cadaveri restituiti dalle acque. Per chi cerca la fuga o la morte, che è poi fuga anch’essa, il mare è come una calamita. È di per sé un’arma che non hai bisogno di impugnare, basta andarle incontro, e ti restituisce al liquido da cui sei nato. Molti però ci finiscono senza volerlo, e sono tanti, tantissimi. Quasi la metà dei 1.258 fantasmi sono clandestini che cercavano di arrivare alla terraferma. Le pagine di Lampedusa non finiscono mai, e spesso non ci sono neppure notizie utili, solo le parole “naufrago di colore” o “etnia africana” a ripetersi sempre uguali. Dei 366 cadaveri del “fenomeno immigratorio” del 3 ottobre 2013, invece, moltissimi sono stati riconosciuti dalle famiglie. Agli altri è stato prelevato il dna sperando che possa essere utile in futuro, per ricostruire un passato.

Vite spezzate e finite, nero su bianco, in un macabro fascicolo: il registro generale dei cadaveri non identificati.  Si tratta il più delle volte di extracomunitari, molti dei quali ritrovati in mare, naufraghi dei cosiddetti barconi, che perdono la vita nella traversata della speranza dal loro al nostro Paese. Poi ci sono i senzatetto.
I loro resti vengono spesso ritrovati in baracche e rifugi di fortuna. Della loro morte, come della loro vita, nessuno si accorge.

Altro filone è quello delle prostitute. Per loro ogni notte è una roulette russa, può andare bene ma ci si può anche rimettere la vita. Omicidi brutali, ai quali segue l’occultamento del cadavere.

Ma il registro dei cadaveri non identificati, tenuto dall’Ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse, il prefetto ci racconta altre possibili storie.



Uomini e donne italiani, a volte vittime di reati tremendi, altre di sventure accidentali. Persone alle quali non si è mai riusciti ad attribuire un’identità, nonostante il meticoloso lavoro di intreccio dati con le denunce presentate alle forze di polizia. Come se la morte avesse cancellato ogni traccia di vita vissuta.
 
Quando si tratta di morti violente, il pubblico ministero dispone l’autopsia, viene quindi prelevata materia organica dalla quale poter estrarre il dna. Conclusa la procedura, il corpo trova una degna sepoltura nei cimiteri comunali, ma ci sono salme che possono rimanere negli obitori dei dipartimenti di medicina legale anche per molto tempo.

Mesi, a volte anni. Come il caso di Bachisio Inzaina, nel 2007. Il cadavere dell’uomo è stato conservato per ben sette anni nelle celle frigorifere della sezione di medicina legale dell’azienda ospedaliero-universitaria di Pisa.
Solo dopo tutto questo tempo, è stata possibile l’identificazione grazie al confronto con il dna delle figlie.

Un modo per facilitare l’identificazione è quello messo in pratica dall’istituto di medicina legale dell’Università degli Studi di Milano diretto dalla dottoressa Cristina Cattaneo, preziosa collaboratrice del prefetto Penta e del vice prefetto Agata Iadicicco.
Le foto dei cadaveri presi in carico dall’istituto sono visibili in rete.

Immagini per stomaci forti, meglio intendersi. Ma utilissime, assicurano gli addetti del settore.
Sono stati diversi, infatti, negli ultimi anni i corpi identificati proprio grazie alle fotografie on line.

Prima della creazione dell’Ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse, nel 2010, non c’era alcuna procedura obbligatoria da seguire.

I cadaveri senza nome venivano sepolti in fretta, senza autopsia e senza prelievo di materia organica. E’ questo uno degli ostacoli maggiori all’identificazione dei corpi piuttosto “datati”.
Per distinguerli, si usano i numeri. Come documenti tutti uguali da archiviare. “Non identificato” uno, due, tre, e così via..

La metà si trova in Sicilia: sono i corpi dei migranti annegati in mare durante le traversate nel Mediterraneo. A seguire c’è il Lazio: 154 corpi senza nome si trovano solo negli obitori del Comune di Roma. Sono italiani e stranieri, clochard senza documenti, immigrati irregolari e anziani malati di Alzheimer. Alcune volte ci sono famiglie che li cercano senza trovarli, altre volte sono gli “invisibili” che vivono ai margini della società e che muoiono senza che nessuno ne senta la mancanza. Persone che da vive sostano negli angoli delle stazioni e dei parchi. E che anche da morte vivono in un limbo nell’attesa che qualcuno vada a recuperarli prima di essere sepolti, di solito per mancanza di spazio negli obitori, con la scritta “sconosciuto” sulla lapide. Un problema non solo italiano, ma europeo a quanto pare. In tutta Europa, circa il 30% dei cadaveri senza nome verrà sepolto senza identità, mentre l’altro 70% verrà identificato con mesi o anni di ritardo.

«Sono persone scomparse e senzatetto andate via di casa da anni», spiega il prefetto Vittorio Piscitelli, dal 2014 Commissario straordinario per le persone scomparse del Viminale. «In molti casi, dietro ci sono storie di povertà e solitudine». Ci sono resti carbonizzati in una baracca, corpi uccisi dal freddo all’angolo di una strada, annegati in mare, fiumi o laghi, investititi da un treno o per strada. Il Registro generale dei cadaveri non identificati del ministero dell’Interno, istituito nel 2007, li descrive uno a uno, con il luogo e la data di ritrovamento, l’età presunta e i segni particolari, dai tatuaggi alle amputazioni fino ai vestiti che indossavano nel giorno della morte. «Il problema è che c’è un difetto di circolarità delle notizie», spiega Piscitelli. «Manca l’incrocio tra i dati delle persone scomparse e quelli dei corpi senza vita non identificati. Dare un nome ai corpi non identificati, però, è un dovere etico. Finché non diamo un’identità a un corpo siamo tutti un po’ in torto».

Solo a marzo 2015 a Milano è stato firmato un protocollo da adottare nel caso delle morti in ospedale di persone senza identità o di ritrovamento di corpi non identificati. E dal 2014, sempre nel capoluogo lombardo, è partito in via sperimentale il cosiddetto “protocollo Lampedusa” per mettere a punto un modello replicabile per l’identificazione dei cadaveri dei migranti annegati nel Mediterraneo.

Ma si tratta di modelli sperimentali, nati da poco e concentrati in alcune realtà. Altrove regna il caos. Può capitare che se un senzatetto di cui è stata denunciata la scomparsa a Napoli muore a Torino, il corpo finisce per non essere mai identificato. Senza contare che spesso, non essendo morti sospette, le procure non autorizzano le autopsie e altri esami per la compilazione delle schede post mortem. «Si tratta di costi che poi i magistrati devono giustificare alla Corte dei conti», dice Piscitelli. E così non si fanno. E di alcuni corpi messi male si finisce per non conoscere neanche il sesso.

Solo all’obitorio di Milano arrivano ogni anno in media cinquanta morti senza nome. «Una volta costruito il profilo biologico, l’ideale poi sarebbe poter confrontare questi dati con una banca dati di persone scomparse», spiega Cristina Cattaneo, direttrice del Laboratorio di antropologia e ontologia forense (Labanof) dell’Istituto di Medicina legale di Milano, centro di eccellenza in Italia per l’identificazione dei corpi. Ma questo non è possibile. Per cui anche se sei una persona con una vita normale e muori lontano da casa senza documenti, rischi di essere sepolto senza un nome. Figuriamoci se sei un senzatetto che vive per strada. O peggio ancora un extracomunitario con i parenti in un altro Stato o continente.

Si resta così in balia della buona volontà di magistrati, poliziotti o trasmissioni televisive, spiega Cristina Cattaneo. Per questo motivo, al Labanof hanno deciso di pubblicare online l’identikit dei morti senza nome passati dal laboratorio per aumentare la possibilità di dare un’identità ai soggetti. Grazie a questo metodo, è stato possibile restituire un’identità a diverse persone. In alcuni casi, i parenti sono capitati per caso sulla lista aggiornata dallo staff della dottoressa Cattaneo; altre volte è stato fondamentale l’incrocio con le segnalazioni della trasmissione Chi l’ha visto?.

“È capitato che abbiamo effettuato gratuitamente una cremazione perché i parenti non avevano i soldi per rimpatriare il corpo intero in Bulgaria. In questo modo almeno potevano tenere le ceneri a casa”
Anche la pubblicazione online del registro dei corpi senza cadavere è servita per risolvere alcuni casi. «Abbiamo identificato due corpi rimasti per anni custoditi nelle celle frigorifere», racconta Piscitelli. «Una ragazza inglese, leggendo sul registro le circostanze in cui era stato trovato un corpo, ha riconosciuto il suo fidanzato. Mentre un altro lo abbiamo identificato grazie alle impronte lasciate ai tempi del militare».

Le famiglie spesso non ci sono, non vogliono o non possono farsi carico delle spese di sepoltura. «È capitato con un padre marocchino», racconta Cristina Cattaneo, «che non ha riconosciuto il corpo del figlio morto perché non aveva i soldi per fargli il funerale».

“Vivono nell’anonimato per tutta la vita, senza una famiglia. Noi vogliamo dar loro un nome e la dignità anche nella morte. Il terrore di molti di loro è proprio quello che nessuno li ricorderà più”
Ma se i corpi non vengono reclamati e negli obitori c’è bisogno di spazio, non resta che la sepoltura senza nome. A Roma a occuparsene è l’Ama, l’azienda municipale per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Nel cimitero di Prima Porta, nello spazio dedicato alle tombe dei senza nome, vengono sepolti ogni anno oltre 200 corpi. Ma grazie ai volontari della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio negli ultimi anni è stato possibile dare un nome e un funerale a molti dei senzatetto morti per le strade della Capitale. Le due associazioni hanno stipulato una convenzione con l’Ama per garantire un funerale gratuito alle persone che frequentavano le mense e i dormitori. «Il funerale però può essere celebrato solo dopo che sia stata stabilità una identità certa», spiega Carlo Santoro, volontario della Comunità di Sant’Egidio. «A tutti la prima volta che arrivano da noi diamo un tesserino su cui è scritto un nome fornito da loro stessi e, a volte, anche una foto». Così capita che molti dei senza fissa dimora trovati morti per le strade di Roma abbiano il tesserino della mensa in tasca. «Noi stessi collaboriamo con la polizia per identificare le persone che vengono nelle nostre strutture», racconta Santoro. «Facciamo una dichiarazione in chi diciamo che li conosciamo, che sono non abbienti e che non c’è nessuno che si faccia carico della loro sepoltura». Tramite la polizia e le ambasciate si prova anche a rintracciare le famiglie, ma molte non vogliono essere contattate. «E con gli stranieri la ricerca è ancora più difficile».

Ogni anno, a fine gennaio, in una cerimonia nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, a Roma, i volontari della Comunità di Sant’Egidio pronunciano uno a uno i nomi di tutti coloro che hanno perso la vita per strada. «Vivono nell’anonimato per tutta la vita, senza una famiglia», dice Carlo Santoro, «noi vogliamo dar loro un nome e la dignità anche nella morte. Il terrore di molti di loro è proprio quello che nessuno li ricorderà più». Ma a quell’elenco pronunciato ogni sfugge sempre qualche nome. «Ogni anno in tutta Roma noi veniamo a conoscenza della morte in strada di circa 30-40 persone, ma ci rendiamo conto che potrebbero essere molti di più. Chi lo saprà mai?». Tanti senzatetto vengono caricati in ambulanza e ricoverati senza nome negli ospedali. E la legge sulla privacy, se non sei un parente, non permette di accedere alla lista dei ricoverati. Oltre al fatto che, per mancanza di posti letto, spesso i senza dimora vengono trasferiti negli ospedali fuori città. Così piano piano si perdono le tracce, e la possibilità di dare un nome a un malato prima e a un corpo senza vita poi si riduce fino a renderli invisibili. Anche da morti.
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