La tortura fu introdotta da papa Innocenzo IV nella bolla Ad extirpanda del 1252, durante l'Inquisizione, come strumento da utilizzare durante i processi per estorcere una confessione. La tortura ecclesiastica ordinaria evitava di provocare fuoriuscita di sangue e quindi si svolgeva di regola con la torsione delle membra o lo stiramento del corpo sino ad arrivare allo slogamento delle membra o a strappi nei muscoli degli arti; solo in casi eccezionali il vescovo del luogo o Roma potevano autorizzare torture più invasive o la rottura sistematica delle ossa. La Chiesa applicava poi la pena di morte a chi non avesse pubblicamente ritrattato dopo aver confessato sotto tortura ovvero la pena dell'ergastolo con reclusione nella cella di una propria fortezza o di un convento (a volte con la porta murata, a volte invece la pena era accompagnata da ulteriori privazioni o castighi, di solito restrizioni alimentari), ma qualche volta anche in un'abitazione privata, anche se spesso per persone di riguardo era sufficiente una multa. Le pene più severe (rogo) erano riservate agli eretici che avessero propagandato dottrine non ortodosse, senza pubblicamente pentirsi e ritrattare (nel qual caso potevano incorrere in pene più lievi dall'ergastolo alla multa, lasciando molto arbitrio ai giudicanti, come era d'uso a quei tempi).
Si segnala che la stregoneria era perseguita sia dalle autorità ecclesiastiche (perché ritenuta manifestazione demoniaca) che da quelle civili, tanto che il maggior numero di presunte streghe fu ucciso nella Germania della Riforma dalle autorità civili. La posizione attuale del mondo cattolico e il problema della sua illiceità è espressa nel pensiero di papa Pio XII:
« L'istruttoria giudiziaria deve escludere la tortura fisica e psichica e la narcoanalisi, prima perché esse ledono un diritto naturale, anche se l'accusato è realmente colpevole, e poi perché troppo spesso esse danno dei risultati erronei.»
La Santa Inquisizione era un tribunale ecclesiastico istituito in età medioevale che si propose in forme diverse fino all’età moderna e finalizzato alla prevenzione o repressione di insegnamenti e dottrine contrarie al dogma e alla morale cattolica. Le origini dell’Inquisizione o Sant’ Uffizio vanno ricercate nel dilagare delle eresie popolari che verso la metà del XII secolo si svilupparono dell’Europa occidentale e nella necessità per la chiesa di opporvisi duramente al fine di eliminarle. Càtari, valdesi, ussiti provocarono, a partire dalla Francia e dall’Italia del nord ovest, la reazione violenta di principi e papi che iniziarono le persecuzioni nel 1162. Si distinse in quest’opera repressiva l’ordine dei frati domenicani cui il papa Gregorio IX aveva affidato nel 1235 i Tribunali della Santa Inquisizione. Famosa per efferatezza divenne in seguito l’Inquisizione spagnola che a partire dal 1478 vide il terrificante attivismo del domenicano Tomàs de Torquemada. Nel nome del Signore centinaia di migliaia di innocenti persero la vita dopo aver subito orrende torture per mano delle istituzioni ecclesiastiche e secolari. Il terrore dilagò nel 1500 nelle terre del Nuovo mondo dove i conquistadores spagnoli sterminarono intere civiltà.
Con lo scorticamento la pelle del condannato veniva tolta a strisce con svariati strumenti.
L'allungamento o cremagliera si trattava di un modo semplice per estorcere confessioni. Il condannato veniva posto su una tavola e legato ai polsi e alle caviglie con corde che venivano tirate da parti opposte con argani; in questo modo veniva “tirato” fino alla morte. In alcune varianti, dei rulli venivano passati sopra la tavola (e in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni.
Taglia lingua=la lingua del condannato veniva recisa con strumenti di vario tipo.
Si utilizzavano diverse armi con le quali il carnefice eseguiva la condanna alla mutilazione, riservata solitamente agli indigenti che non avevano i mezzi per pagare forti multe. In alcuni casi il carnefice cavava gli occhi, tagliava orecchie e nasi. Ai ladri colti in flagranza era tagliata la mano sinistra la prima volta e, in caso di recidiva, la mano destra.
La cintura spinata era un collare munito internamente di aculei. Era utilizzato come punizione per coloro che violavano la disciplina ecclesiastica o familiare, agli ubriachi, alle donne litigiose e alle prostitute. Si restava prigionieri del collare e oggetto del pubblico dileggio fino ad un periodo massimo di sei settimane. Spesso il reo era obbligato a portare sul petto un cartello sul quale era indicato il motivo della condanna.
Veniva anche utilizzato come strumento di esecuzione. L’erosione fino alle ossa della carne del collo, della mascella e delle spalle, la cancrena dilagante, la setticemia febbrile, portavano al collasso letale in breve tempo.
Di solito la sua immagine era infissa ai muri delle chiese, dei cimiteri, alle porte delle prigioni o nelle piazze frequentate dai mercanti.
La cintura di contenzione veniva applicata alla vita delle vittime, i cui polsi si serravano negli appositi anelli ai fianchi. L’imprigionato veniva così sottoposto alle torture oppure abbandonato a morire.
Sulla cintura di castità si favoleggia che servisse per assicurare le fedeltà delle mogli durante le lunghe assenze dei mariti, ed in particolare delle mogli dei cavalieri crociati che stavano per recarsi in terra santa.
In realtà, la cintura era una barriera contro lo stupro, una barriera fragile ma sufficiente in tempi di acquartieramento di soldati in paese, durante i pernottamenti in locande, in viaggio in genere. Si sa da numerose testemonianze che le donne si serravano nelle cinture di iniziativa propria.
La pera orale, rettale, vaginale nelle loro varie misure venivano forzati nella bocca, nell’ano o nella vagina della vittima ed indi espansi a forza di vite alla massima apertura dei segmenti. L’interno della cavità colpita veniva irrimediabilmente e quasi sempre dilaniato. Le punte che sporgevano dai tre segmenti servivano per straziare il fondo della gola, del retto o della cervice dell’utero.
La pera orale veniva spesso inflitta ai predicatori eretici; la pera vaginale invece attendeva le donne ree di rapporti con Satana o con uno dei suoi familiari, ed infine quella rettale gli omosessuali passivi.
Questa tortura pertanto rappresentava una sorta di punizione “del contrappasso”.
Per cavare gli occhi veniva utilizzato uno strumento apposito, di forma particolare.
Il condannato veniva posto all’interno di una botte opportunamente modificata per permettere la fuoriuscita della testa e delle braccia. La botte poteva pesare anche 40 kg e il torturato era costretto ad andare in giro con questo peso sulle spalle. Come per gli altri strumenti di tortura atti a mortificare il condannato, con questo metodo lo si esponeva al pubblico ludibrio.
L’aureola del tonto si trattava di una forma di disprezzo pubblico, applicato in particolare a coloro che si erano comportati in modo stupido, assurdo o sciocco al punto di aver causato disagi alla comunità. La punizione consisteva nell’essere incatenati per ore alla gogna, o comunque in un luogo pubblico come una piazza, portando sulla testa una corona ridicola, e a volte si veniva costretti ad indossarla durante la vita di tutti i giorni. Può sembrare sopportabile ma la ferocia della gente nei confronti del condannato portava all’umiliazione pubblica, alle percosse e alla lapidazione.
Le maschere d’infamia infliggevano allo stesso tempo due tipi di supplizio: quello psicologico e quello fisico.
Rendeva ridicoli ed umiliava di fronte al pubblico, ma allo stesso tempo provocava un dolore tremendo poiché stringeva la testa. Questi congegni, che nell’arco 1500 – 1800 esistevano in vaste profusioni di forme fantasiose ed a volte addirittura artistiche, venivano usati per punire le donne ritenute “bisbetiche” e “litigiose” perché stremate dalla schiavitù domestica e dalle perenni gravidanze.
Venivano esposti al pubblico ludibrio anche i non conformisti ed i disobbidienti di piccola tara; ed il potere ecclesiastico retribuiva in tal modo una lunga serie di infrazioni minori.
La stragrande maggioranza delle vittime consisteva in donne, il principio motivante essendo stato da sempre quello di “mulier taceat in ecclesia” , “la donna taccia in chiesa”, “chiesa” significando le gerarchie regnanti sia laiche che religiose, entrambe costituzionalmente ginecofobiche; il vero senso quindi era “la donna taccia nella presenza del maschio”.
Molte maschere erano munite all’interno di congegni che entravano nella bocca della vittima ed alcuni di essi mutilavano la lingua con aguzzi aculei e con lamette taglienti. Le vittime, serrate nelle maschere ed esposte in piazza, venivano anche malmenate dalla folla con percosse dolorose, imbrattamenti con sterco ed orina, e ferimenti anche gravi specie ai seni e al pube.
La cicogna di storpiatura immobilizzava totalmente la vittima ed era costituita da un’asta che bloccava il collo, polsi e caviglie. Pur sembrando, dalle prime apparenze, solo un altro metodo di incatenamento, ossia di costrizione, la “cicogna” induce nella vittima, spesso dopo pochi minuti, forti crampi, prima nei muscoli addominali e rettali, ed in seguito in quelli pettorali, cervicali e degli arti.
La condannata (adultera o prostituta) veniva legata ad un’asse e quindi immersa nel punto del canale in cui confluivano gli scarichi delle fogne; questa tecnica è stata in seguito migliorata mettendo la poveretta in gabbia.
La garrotta serviva allo strangolamento dei condannati e nella sua forma più diffusa un meccanismo tirava indietro l’anello messo al collo della vittima fino a procurarne l’asfissia. Ma molte furono le varianti apportate sia per scopi di torture inquisitorie che di morte. In Ungheria venne usato, sino a qualche anno fa, il “gibetto”, del tutto simile alla garrota spagnola: era composto da un palo al quale il condannato veniva fissato con un cappio cortissimo.
Le tenaglie roventi erano per lo più adoperate per amputare e contemporaneamente cauterizzare le ferite, così da evitare il rapido dissanguamento delle vittima.
Tutto quello che era asportabile veniva rimosso per mezzo di pinze roventi, a cominciare dalla lingua, per continuare con gli occhi e via di seguito senza, naturalmente, tralasciare i genitali.
Spesso le torture rendevano storpi e sciancati per il resto della loro vita coloro che le avevano subite, se era loro concesso di vivere. Più spesso, quelli che alla fine confessavano anche colpe che non avevano commesso, preferendo la condanna al protrarsi dei tormenti, venivano condotti al rogo legati a una scala, che svolgeva le funzioni di barella, perché ridotti a un insieme di membra slogale, spezzate e piegate, e incapaci di articolare un solo movimento.
Lo straziatoio di seni erano degli strumenti appositi formati da quattro punte che penetravano le carni delle povere torturate condannate per eresia, bestemmia, adulterio, “atti libidinosi”, aborto autoprocurato, magia bianca e molto altro.
Spesso “l’operazione” (eseguita con tenaglie arroventate) veniva preceduta dall’ustione dei capezzoli. In diversi luoghi e tempi – in alcune regioni della Francia e della Germania, fino all’inizio dell’ottocento – un “morso” con zanne roventi veniva inflitto ad un seno delle ragazze madri, sovente mentre le loro creature si contorcevano ai loro piedi.
Violoni delle comari soprannominato anche “Violino dell’igniminia” esisteva in diversi modelli: di ferro o di legno, per una o più donne, ma la sua destinazione era sempre la stessa. Più che uno strumento di tortura vero e proprio, rappresentava un istituto della giustizia punitiva medioevale ed era usato pubblicamente nei confronti di quelle signore che avessero dato luogo a scandalo o fossero state troppo bisbetiche o litigiose.
In un primo momento il condannato veniva lacerato per mezzo di una sega al livello dell’addome ma ben presto questa metodologia venne abbandonata per lasciar spazio alla segatura del condannato appeso a testa in giù, con le gambe divaricate, iniziando a tagliare in due verticalmente, partendo dai genitali fino ad arrivare alla testa. In questo modo si aumentava la quantità di ossigeno apportata al cervello e si diminuiva la possibilità che il condannato svenisse o perdesse conoscenza, in modo tale da prolungarne la folle agonia: i nervi si scorticavano immediatamente, le ossa si fracassavano schiantandosi e le arterie, lacerate, zampillavano sangue. Talvolta la vittima rimaneva cosciente finché la sega arrivava allo sterno stando a testimonianze del primo Ottocento. Inoltre segare un condannato era una tecnica di tortura facile da eseguire e che necessitava di uno strumento reperibile in qualsiasi casa.
Venivano puniti con la sega coloro che si erano macchiati di ribellione, coloro che avevano disubbidito agli ordini militari, coloro che venivano accusati di stregoneria, oltre agli omosessuali a cui venivano devastati i genitali.
La Bibbia ci insegna (II Samuele 12, 31) che Davide, re giudeo e santo cristiano, sterminò le popolazioni della città di Rabba e di tutte le altre città degli Amminiti, assoggettando chicchefosse “alla sega, ai rastrelli di ferro, alle scuri di ferro e alla fornace di mattoni”. Questa specie di beneplacito poco meno che divino ha contribuito molto al diletto che la sega, la mannaia ed il rogo hanno da sempre suscitato in ambienti benpensanti. In Spagna, “la sierra” costituiva un metodo di esecuzione militare fino a tutto il Settecento. In Catalogna durante le campagne peninsulari di Napoleone e di Wellington nel 1808-14, i guerriglieri catalani assoggettarono alla sega decine e forse centinaia di ufficiali francesi, spagnoli ed inglesi. Nella Germania luterana la sega attendeva i capi dei contadini ribelli, ed in Francia anche le streghe accusate di essere state ingravidate da Satana.
Flagelli, fasci di catene, da due fino a otto, inframmezzate da punte o stelle taglienti, che dove colpivano laceravano pelle e carne. Oppure il nerbo di bue, che con pochi colpi era in grado di tagliare la carne di una natica fino all’osso, o ancora il “solletico spagnolo“.
L’ingegno alchemico dei torturatori aveva inoltre partorito la “gatta”, che non era un animale mostruoso, un mostruoso aggeggio, fatto con una cinquantina di corde di canapa bagnate d’acqua, zolfo e sale, che veniva applicato sulla schiena, sull’addome, sui genitali. Il risultato era che la carne dell’interrogato, per effetto del miscuglio con il quale erano imbevute le corde, si riduceva lentamente, scoprendo polmoni, fegato, reni, intestino.
La zampa di gatto o Solletico spagnolo, grande circa quanto le dita di una mano, questi arnesi di ferro simili a zampette di gatto, montati su un manico di legno, riducevano in brandelli la carne in qualsiasi parte: viso, addome, schiena, arti, seni, genitali.
Il fuoco sotto ai piedi era uno dei chiodi fissi dei giudici. Si procedeva in questo modo: dopo aver legato l’interrogato a un’asse, in posizione seduta, gli si ungevano i piedi di lardo, vi si accendeva sotto un fuoco e lo si teneva per la durata della recitazione di un Credo. Spesso, dopo, non si potevano più usare i piedi, come testimoniano gli atti di un processo del 1587 dove una presunta strega ne perde l’uso. Nonostante l’evidenza dei fatti il vicario vescovile di Albenga, suo inquisitore, affermerà: “il fuoco ai piedi fu dato solo a quattro gagliardissimamente indiziate, et a tutte con misura; né è vero che alcuna habbi per questo perso li piedi ma non è anco guarita forse piuttosto per colpa di mala cura che per l’estremità del tormento“.
Comunque sia, a Palermo, nel 1684 e 1716 due condannati all’impiccagione vennero portati sul luogo dell’esecuzione legati a una sedia perché incapaci di reggersi in piedi in seguito al tormento del fuoco. Il boia sarà costretto a strangolarli anziché sospenderli.
Una variante al fuoco a diretto contatto con le carni degli inquisiti erano le uova sode, non da mangiare, ma da applicare, appena tolte dall’acqua bollente, sotto le ascelle o fra le cosce; i tribunali più raffinati e con maggiori mezzi economici sostituivano le uova con sfere di ferri incandescenti, ma i posti di elezione dove metterle restavano gli stessi. Un carnefice grossolano poteva anche adoperare piccole dosi di olio bollente, da versare goccia a goccia sull’imputato, naturalmente nei suoi punti più sensibili.
La lingua di capra era un tormento particolarmente diabolico. L’innocuo animale, tenuto a digiuno per diversi giorni, veniva condotto al cospetto dell’accusato, al quale si erano spalmate di sale le piante dei piedi. La capra, affamata, cominciava a leccare la pelle salata e spesso non si fermava finchè la sua lingua ruvida, dopo aver consumato la pelle e lo strato muscolare, non arrivava all’osso!
Culla di Giuda o la “Veglia”: all’imputato veniva stretta una cintura all’altezza dell’addome, gli si poneva una stecca all’altezza delle caviglie in modo che si potessero muovere le gambe soltanto simultaneamente e tramite un complesso sistema di corde, veniva tenuto sospeso al di sopra di un cuneo appuntito sostenuto da un cavalletto. Allentando la corda principale e tirando in avanti le gambe, la punta veniva posizionata nell’ano, nella vagina, sotto i testicoli o sotto la base della colonna vertebrale. Il carnefice poteva variare la forza del peso gravante dal nulla alla totalità. La vittima poteva essere dondolata o fatta cadere sulla punta ripetutamente.
Questa tortura era tanto più terribile dal momento che implicava una veglia continua. La “veglia” era il risultato di una applicazione malefica dell’ingegneria atta a determinare il complesso sistema di corde e di movimenti. La penetrazione del cuneo era preordinata in modo tale da non provocare la morte, ma svenimenti o dolori indicibili. Un medico e un notaio dovevano assistere all’operazione, il primo per far ristabilire la vittima in caso di prossimità alla morte, onde poter far ricominciare la tortura, il secondo per verbalizzare ogni singolo momento degli accadimenti.
Il condannato veniva posto a cavalcioni in una struttura a V, come su un cavallo; venivano poi posti dei pesi ai suoi piedi affinché egli venisse tirato sempre più giù. Questa tortura faceva si che le articolazioni del condannato si slogassero e che tutte le sue membra venissero disarticolate dalle giunture.
L'impalamento consisteva nel conficcare un palo appuntito nell’ano del condannato per poi farlo fuoriuscire dalle spalle, usando una particolare attenzione a non ledere gli organi vitali. In questo modo, l’agonia durava anche giorni, e la sorte delle vittime poteva essere utilizzata come ammonimento per coloro che volevano trasgredire le regole dell’ordine costituito. Spesso, per rendere il tormento più atroce, l’impalato veniva posizionato a testa in giù.
Uno dei tormenti prediletti dagli inquisitori, e al quale raramente gli accusati sfuggivano, era la sospensione alla corda. Consisteva nel ripiegare le braccia del malcapitato dietro la schiena, legargliene una ai polsi e sollevato da terra per mezzo di una carrucola. Già da solo questo era un supplizio. La pena però non si esauriva qui, perché, quando la vittima era stata sollevata ad una certa altezza, si allentava improvvisamente la tensione in modo da lasciarla cadere con uno strappo, ma non fino a farle toccare terra. Il risultato è che l’omero fuoriesce dalle sue legature con la scapola e con la clavicola, una distorsione questa che crea orrende deformazioni del torace e della schiena, spesso permanenti. Il supplizio era particolarmente gradito agli accusatori perché la corde era si pericolosa, in quanto un inquisito vi poteva morire o uscirne irrimediabilmente disarticolato ma, nelle mani di un abile carnefice, che sapesse dosare gli strappi, il sistema era molto efficace per far confessare anche i più reticenti. E, nel caso di un accusato particolarmente cocciuto, presentava l’innegabile vantaggio di potervi inserire degli optional, come per esempio acqua gelida sulla schiena, sui muscoli e i nervi stirati e contratti. Se nemmeno l’acqua gelata sul suppliziato appeso aveva ragione sulla sua testardaggine nel rifiutarsi a confessare, si provvedeva ad appendergli ai piedi dei pesi, così da rendere più dolorosi gli strappi in caduta e, se ancora persisteva nel suo “errore”, gli si poteva sempre accendere il fuoco sotto le piante dei piedi. Alcune varianti potevano essere le seguenti:
- al condannato, appeso per i piedi, veniva agganciato un pesante masso al collo; la vittima veniva strangolata e tormentata finché la colonna vertebrale non si schiantava.
- il prigioniero veniva cosparso di miele ed altre sostanze dolci e lasciato in balia di molesti insetti come api, vespe e calabroni.
- il condannato, sospeso per un piede, ha una gamba legata al ginocchio dell’altra mentre l’altra è appesantita da un oggetto metallico.
Vicino a Lindau, in Germania, un malfattore fu appeso al patibolo con delle catene di ferro e con ai piedi due grossi cani che, essendo tenuti senza cibo, se lo divoravano prima che egli stesso morisse di fame.
Lo schiacciatesta già conosciuto nel Medioevo ha avuto largo uso anche in tempi più recenti, specialmente nella Germania del Nord. La sua funzione è di estrema semplicità e non ha bisogno di commenti: sulla testa appoggiata alla barra veniva lentamente calata (a mezzo vite) la calotta sino a spezzare le ossa del cranio.
I ferri per marcare erano una serie di strumenti in ferro utilizzati per bruciare la vittima e imprimergli nelle carni determinati simboli.
Gli anelli spaccatesta venivano collocati intorno alla testa, gli aculei, sotto forza della stringitura a vite, intaccavano l’osso cranico, atto questo che, con la forza bilaterale congiunta ad aculei grossi, portava all’incrinamento e al distacco della calotta cranica.
La Gogna era considerato uno strumento obbligatorio nel Medioevo, sorgeva nei luoghi di mercato o all’entrata della città ed era un castigo per lo più riservato ai ladri, gli ubriaconi e le donne litigiose. Il condannato alla gogna era esposto nei luoghi di mercato e sottoposto al pubblico dileggio per ore o per alcuni giorni. Inoltre le vittime potevano venire torturate da chiunque desiderasse fargli del male e umiliarle. Il ceppo, composto da due travi di legno, chiuse a cerniera, prevedeva due o quattro fori, dove venivano assicurate le caviglie dei condannati.
Una donna fu sottoposta a gogna nel 1555 per aver picchiato il figlio e nel 1566 una donna fu posta alla gogna per aver “procurato prostitute ai cittadini”.
Un tipo di gogna di moda nei paesi anglosassoni consisteva nel legare il prigioniero a due legni flessibili, possibilmente degli alberi. Mentre il prigioniero si trovava così bloccato, veniva frustato con uno scudiscio a tre corde, o con un gatto a nove code. In alcuni casi venivano tagliate le corde degli alberi cosicché il condannato dovesse soffrire un dolore estremo mentre si lacerava. Il ceppo, come la gogna, fu utilizzato fino ai primi decenni del XIX secolo.
A differenza delle armi tradizionali che servivano ad offendere, le armi in asta erano riservate solamente per gli individui che erano già prigionieri e disarmati. Il più conosciuto è l’ “acchiapacollo”.
Il rogo era usato ai tempi della caccia agli eretici ed alle streghe, quando esse non venivano condannate all’impiccagione. Il martire veniva appeso molto in alto in modo che al suo orribile spettacolo tutta la popolazione venisse colpita dal terrore, e nel frattempo gli si straziavano i fianchi e le costole con dei pettini e degli uncini sino a renderlo una massa deforme che veniva incenerita.
Alcune vittime patirono terribili sofferenze, come risulta dal resoconto di un rogo scritto da un reverendo nel XVI sec: “Poiché il fuoco” si legge “era stato appicato senz’arte, e poiché il vento era contrario, la strega soffrì una tortura indicibile.”
In seguito divenne normale strangolare il prigioniero prima di affidarlo alle fiamme, ma spesso succedeva che l’operazione non riuscisse “in tempo” e che la vittima subisse ugualmente l’orripilante fuoco sul suo corpo.
La forcella dell’eretico si componeva di due forche, una posta sul torace e l’altra sotto il mento.
Un collare veniva legato intorno al collo del prigioniero e gli si legavano le mani dietro la schiena.
Il condannato risultava così impossibilitato anche del minimo movimento per non pregiudicare i punti vitali, ma infine doveva cedere per stanchezza.
Lo schiaccia pollici veniva utilizzato per spappolare i pollici dell’accusato. I pollici venivano serrati tra due sbarre metalliche dotate di aculei e strette per mezzo di viti.
La sedia inquisitoria detta “ungherese”, rappresenta uno degli innumerevoli strumenti inquisitori utilizzati nei secoli XVI e XVII per ottenere la confessione di donne accusate di stregoneria. Si trattava di una sedia di ferro, irta di punte acuminate sulle quali veniva fatto sedere l’imputato che, è inutile ricordarlo, era completamente nudo e legato in modo da non potersi alzare. Si procedeva poi accendendo il fuoco sotto la sedia che, in breve, cominciava a scottare, spingendo l’imputato a dimenarsi. I contorcimenti del poveretto sopra le punte di ferro gli laceravano la pelle e il fuoco sotto la sedia gli ustionava le ferite. Strumento essenziale nell’operare dell’inquisitore, la sedia era in uso nel centro Europa specialmente a Norimberga dove venne usata fino al 1846 durante regolare istruttorie giudiziarie.
Nella tortura dell’acqua l’accusato veniva disteso supino su un’asse orizzontale e gli si versava sullo stomaco, per mezzo di un imbuto il cui becco era cacciato fino in gola, da 5 a 15 litri d’acqua. Già questo era un tormento sufficiente a generare il panico nell’accusato, perché il terrore di soffocare, causato dall’imbuto e dall’impossibilità di respirare mente l’acqua gli veniva versata in gola, era terribile.
Quando lo stomaco era teso come un otre si inclinava l’asse in modo che l’interrogato venisse a trovarsi con la testa in basso: la pressione dell’acqua contro il diaframma e il cuore provocava dolori lancinanti che, se non erano sufficienti a farlo confessare, venivano aggravati da brutali percosse sul ventre. La tortura dell’acqua fu tanto in voga e per così lungo tempo che, sotto il regno di Luigi XIV, era ancora in auge: così infatti venne interrogata e con successo, la marchesa di Brinvilliers, che confessò di aver avvelenato tre quarti della sua famiglia, anche se inizialmente si era dimostrata tanto brillante e spiritosa da esclamare, alla vista dei secchi d’acqua che dovevano servire alla tortura: “Di certo serve per farmi il bagno! Non posso pensare che la beva tutta”.
Secondo la tradizione, la mordacchia era adoperata per punire le donne litigiose e calunniatrici. Più probabile, invece, la tesi che la briglia fosse utilizzata per le donne accusate di stregoneria.
La vergine di ferro consisteva in una sorta di sarcofago femminile fatto di legno o ferro, scavato dentro e riempito con chiodi appuntiti. La vergine di ferro veniva aperta e il condannato vi veniva inserito. Quest’ultimo, alla chiusura del portello, veniva “abbracciato” dalla vergine e veniva trafitto dai chiodi.
Le fonti storiche riferiscono che questo strumento era utilizzato prevalentemente in Germania. Il prototipo della terribile macchina fu rinvenuto nel castello di Norimberga, edificio dove, in passato, aveva sede il Tribunale Segreto della città. Il condannato era condotto sul luogo del supplizio passando attraverso sette porte. Alla fine di un lungo corridoio si trovava al cospetto della macchina di morte, una sorta di armadio di ferro che riproduceva vagamente le sembianze di una figura femminile, con due ante sul davanti che, aprendosi, mostravano affilatissime punte di ferro. Lo sventurato veniva rinchiuso nella macchina andando incontro a una morte atroce.
I resti della vittima erano gettati, attraverso un canale sotterraneo, nel fiume che scorreva sotto la sede del Tribunale Segreto.
A Monaco, secondo alcune testimonianze, durante il governo del principe Carlo Teodoro, era utilizzato un simile strumento di supplizio, situato nella cosiddetta via della Donzella. La prima testimonianza di un’esecuzione avvenuta con la Vergine risale al 1515 ed è riportata da Gustav Freytag nel suo “Bilder aus der deutschen Vergangenheilt” e racconta la pena inflitta ad un falsario che rimase all’interno del sarcofago (tra spasmi atroci) per ben tre giorni. Chi veniva accusato di eresia o di atti blasfemi contro Dio o i Santi, se si rifiutava ostinatamente di confessare la propria colpa, veniva condotto in una cella, il cui lato estremo ospitava numerose lampade, posizionate intorno al recesso, che gettavano una luce variegata sull’aureola dorata, sulla testa della figura e sul vessillo che questa teneva nella mano destra.
Su un piccolo altare, il prigioniero riceveva i sacramenti; in seguito due ecclesiastici lo esortavano insistentemente a confessare in presenza della Madre di Dio. “Vedi” dicevano “quanto amorosamente la Vergine ti apre le braccia! Sul suo petto si scioglierà il tuo cuore duro; lì confesserai!”. Tutto a un tratto, la figura cominciava a tendergli le braccia: il prigioniero, sopraffatto dallo stupore, veniva all’abbraccio ed ella se lo portava sempre più vicino, arrivando a stringerselo al petto finché i pungiglioni e gli aculei lo trafiggevano.
Tenuto fermo in quella stretta dolorosa, il prigioniero veniva interrogato e se si rifiutava di confessare, le braccia della statua stringevano sempre più il suo corpo, inesorabilmente e lentamente, ammazzandolo.
La parte anteriore di questo marchingegno, consisteva in due porte che si chiudevano. C’erano una gran quantità di pugnali inseriti sia nella parte interna del petto che dentro alla statua in modo da trafiggere con precisione il fegato, i reni e gli occhi.
Chi subiva l’abbraccio della vergine di ferro dopo essere stata stritolato rimaneva attacato alle punte dei chiodi e delle lame quando la Vergine riapriva le braccia.
Durante l'impiccagione in gabbia la vittima, spesso nuda, veniva rinchiusa in una gabbia ed appesa. Moriva di fame e di sete, di gelo e di scottature solari; spesso era stata anche torturata e mutilata. Il cadavere in putrefazione rimaneva appeso fino al distacco delle ossa.
La decapitazione con spada o mannaia è forse il più antico dei supplizi capitali, quello universalmente conosciuto ed usato in ogni parte del mondo. L’esecuzione con questo strumento era riservata solo ai condannati nobili, mentre i plebei venivano giustiziati con procedure che comportavano lunghe agonie. Un boia, generalmente incappucciato, tagliava la testa del condannato con un’accetta. Molto diffusa in Inghilterra nel 1500-1600. Lo shock provocato alla colonna vertebrale poteva comportare l’immediata perdita dei sensi, ma potevano rendersi necessari parecchi colpi per provocare il distacco della testa. L’accetta usata per l’ultima decapitazione, avvenuta nel 1747, può essere vista alla Torre di Londra.
Lo spezzamento con la ruota ferrata, utilizzato soprattutto in Germania ed in Francia, consisteva in due fasi: la prima pubblica, per fornire gli opportuni esempi, in cui alla vittima venivano spezzati degli arti, la seconda in cui, legata la persona alla ruota e issata su un palo, veniva lasciata in balia di volatili e roditori.
L’eviscerazione era un metodo di esecuzione largamente diffuso.
L’addome veniva inciso e un capo degli intestini agganciato ad un ferro e lentamente avvolto sul tamburo del legno. La vittima rimaneva cosciente per lunghe ore e alcune volte la richiesta di giustizia veniva soddisfatta facendo ingoiare al prigioniero le sue stesse viscere, appena estirpate dal ventre.
Una variante era lo squartamento coi cavalli cui fu sottoposto Robert-François Damiens nel marzo 1757, per avere attentato alla vita di Luigi XV. L’esecuzione più in voga nel medioevo consisteva però nel seguente procedimento: il prigioniero veniva legato con una grossa fune, sia all’altezza delle braccia che delle gambe; le funi erano poi assicurate a una grossa sbarra di legno o di metallo che a sua volta veniva legata a dei cavalli, uno per ogni estremità della vittima. Poi li si costringeva a dare dei piccoli strattoni che l’obbligavano ad implorare pietà. Quando i carnefici si ritenevano infine soddisfatti, frustavano le bestie contemporaneamente, incitandoli in direzioni opposte, in modo da fare a brandelli le membra. Spesso e volentieri il corpo della vittima opponeva resistenza, cosicché i boia lo facevano a pezzi con delle accette, come fa un macellaio con la carne, fino a quando le membra si staccavano dal busto del prigioniero ancora vivo.
Il piffero del baccanaro è uno strumento di ferro (anche di ottone e legno) a forma di tromba, trombone, flauto dolce, oboe, ecc di probabile origine olandese conosciuto già nel seicento come risulta da alcune stampe dell’epoca.
Veniva altresi usato per coloro che disturbavano le funzioni religiose oppure per punire i musicisti “rei” di cattive esecuzioni.
L’anello di ferro veniva serrato dietro il collo della vittima e le sue dita, dopo essere stati inseriti sotto gli archetti dell’apposita morsa in atteggiamento di suonatore, venivano strette a forza di vite secondo il piacere del boia, fino allo stritolamento totale.
Essenzialmente questo supplizio era una specie di berlina, con tutte le solite conseguenze penose e talvolta fatali, inflitta per delitti e peccati relativamente minori: litigiosità, bestemmia del primo grado, turpiloquio, disturbo della pace pubblica, e così via.
In Italia, veniva spesso riservato a chi faceva baldoria e baccano davanti alla chiesa durante le funzioni; il termine “piffero del baccano” si riscontra in alcuni documenti bolognesi del primo Settecento. Nella Repubblica Veneziana, pesanti pifferi ferrosi e qualche grado di schiacciamento delle dita attendevano chi aveva fatto denuncia anonima infondata contro altri al Consiglio dei Dieci, “spinto da malizia, stizza o invidia“.
La ghigliottina era una macchina per decapitazione, così chiamata dal nome del fisico francese Joseph-Ignace de Guillotin, che ne propose l’adozione nel 1789: siccome la decapitazione era considerata il metodo di esecuzione meno doloroso e più umano, Guillotin suggerì la costruzione di una macchina apposita.
Essa consiste di due travi parallele issate verticalmente, incavate al centro e unite in alto da una traversa, e di una lama obliqua, legata con una fune alla traversa. Il condannato pone il collo in una struttura tipo gogna dalla quale passerà la lama obliqua; liberata la fune, la lama svincola lungo le due travi e cade sul collo del prigioniero, tagliandoli di netto la testa, che cade nel cesto posto davanti alla ghigliottina.
Versioni diverse e rudimentali erano usate già nel ‘300 per l’esecuzione di nobili.
L'annegamento o ordalia dell’acqua il condannato veniva buttato in acqua legato, in modo che non riuscisse a nuotare. Questo sistema era usato soprattutto nei luoghi di mare. Veniva utilizzato per verificare la colpevolezza di una presunta strega: se essa annegava, era considerata innocente; se l’acqua la respingeva ed essa galleggiava, era considerata colpevole e veniva messa al rogo.
Un’altra tecnica, la tortura delle barche, può essere così descritta: si prendevano due piccole barche esattamente della stessa misura e della stessa forma. La vittima veniva fatta stendere dentro una delle due, di schiena, lasciando fuori la testa, le mani e i piedi. Poi si capovolgeva la seconda barca sistemandola sulla prima. In questo modo il corpo del condannato veniva rinchiuso nelle due barche, mentre i piedi, le mani e la testa rimanevano fuori. Poi gli si offriva del cibo e nel caso lo rifiutasse, veniva torturato o punzecchiato in altro modo, fin quando accettava l’offerta.
Il passo successivo consisteva nel riempirgli la bocca con una mistura di miele e di latte, e nello splalmargliela sul volto. Poi lo si esponeva ai raggi cocenti del sole, ed in breve tempo mosche ed insetti cominciavano a posarsi sul viso del prigioniero e a pungerlo, fino a portarlo alla pazzia. E nel frattempo, poiché la natura proseguiva il suo corso, all’interno della barca il cumulo degli escrementi emanava un lezzo terribile ed iniziava a marcire. Quando sopraggiungeva la morte e si sollevava la barca superiore, si trovava il cadavere divorato dai parassiti e si vedevano degli sciami di rumorose creature che gli divoravano la carne, e così pareva, crescevano dentro le sue viscere.
Un’altra forma di tortura consisteva nel rinchiudere in un sacco la vittima, assieme a delle bestie come un gatto, un gallo, una scimmia o un serpente ed annegarlo.
La pulizia dell’anima si faceva ingerire al condannato acqua bollente o sapone, per mondare la sua anima corrotta.
La bollitura e la friggitura dei prigionieri rappresentavano due torture dal modus operandi molto semplice: si riscaldava un enorme calderone pieno d’acqua o, preferibilmente, olio fino alla bollitura, dopodiché vi si immergeva la vittima, molto spesso inserendo prima la testa.
Un’altra modalità d’esecuzione era friggere in una vasca o su una griglia il condannato.
Ancora, quando i carnefici desideravano prolungare l’agonia del prigioniero, lo legavano e lo immergevano in una vasca colma d’acqua od olio, cosicché rimanesse fuori la testa, dopodiché si accendeva un fuoco.
Un recipiente di ferro veniva posto sullo stomaco del reo con l’apertura in basso, poi veniva alzato affinché entrassero alcuni topi; quindi veniva riscaldato e i topi, per uscire, non potevano fare altro che rosicchiare lo stomaco del condannato.
Il condannato era gettato giù da una montagna o da un alto muro. Non c’è dubbio che questo tipo di esecuzione fosse comune tra i popoli primitivi ed antichi, che avevano a disposizione precipizi o rocce adatti allo scopo.
Vittime illustri che subirono questo destino furono il matematico Putuanio, l’imperatore Zenone, lo scrittore Esopo.
Non si hanno tracce di una sua inclusione nel codice penale in epoca più tarda, anche se è stato detto che nelle persecuzioni del XVI sec. in Piemonte molte vittime andarono incontro a questa morte.
La tortura che spesso si associava a questo tipo di esecuzione consisteva nelle sofferenze che si dovevano sopportare prima di morire. La vittima giaceva impotente, con gli arti fracassati, fino a quando moriva letteralmente di fame.
La morte da insetti :ci sono molte variazioni di questa pratica. In genere il condannato veniva fissato al suolo, poi cosparso con una sostanza dolce (ad esempio miele), e abbandonato per essere mangiato da insetti.
La condannata (adultera o prostituta) veniva legata ad un’asse e quindi immersa nel punto del canale in cui confluivano gli scarichi delle fogne; questa tecnica è stata in seguito migliorata mettendo la poveretta in gabbia. Pratica molto usata nel Medioevo.
Il pendolo era una tortura dell’inquisizione di Spagna che procurava una lenta e tormentosa agonia. La vittima veniva legata su un tavolo molto accuratamente, in modo che potesse muovere solo gli occhi, mentre incombeva su di lei un pendolo grande e pesante con il lato inferiore curvo e tagliente. Ma poi, nell’oscillare avanti e indietro, gradualmente ma in manniera costante, l’asta del pendolo si allungava e il prigioniero in preda al terrore e costretto contro la sua volontà ad osservare i movimenti della lama che scendeva, sopportava l’orrore di vedere il tagli avvicinarsi sempre di più al volto. Alla fine la lama affilata gli squarciava la pelle, continuando inesorabilmente a tagliare fino ad ucciderlo. Ma nella maggior parte dei casi, prima che la lama facesse uscire del sangue, il prigionero cadeva in balia della pazzia.
La ruota è un supplizio dalle antiche origini, sembra che si rifacesse a dei significati religiosi. Il criminale veniva steso di schiena su una comune ruota di carro e veniva legato stretto ai raggi; successivamente il boia gli fracassava le ossa una a una. Una variante faceva si che il corpo della vittima, legato ad una grande ruota, venisse lanciato per un dirupo irto di rocce appuntite.
Lo sbranamento da animali: il condannato veniva gettato in un’arena insieme a leoni. Questo metodo era usato soprattutto nell’antica Roma. Torturare i condannati con le bestie era un antico supplizio, che nel medioevo andò via via a scomparire, senza mai sparire però del tutto.
Il condannato veniva sotterrato vivo e lasciato a morire. Questo metodo è stato largamente usato in tutti i secoli. In India, ad esempio, sotterravano le donne fino al collo, poi le lasciavano, con solo la testa all’esterno, a cuocere al sole.
Trafissione con frecce: il condannato veniva legato ad un palo o ad un muro e degli incaricati gli tiravano delle frecce. Questa pratica era usata fra Indiani e Vichinghi, che miravano alle parti non vitali del corpo per prolungare l’agonia il più possibile.
Una delle vittime più note della trafissione è San Sebastiano, vissuto nel III sec. d.C., che fu martirizzato con frecce; essendo queste simbolo della peste, il santo fu assunto come protettore contro tale epidemia.
La crocifissione inizialmente praticata su alberi, questa pratica era riservata agli schiavi dell’antica Roma. Tempo di sopravvivenza: incalcolabile
Il condannato viene inchiodato a polsi e caviglie ad una croce e lasciato morire fra atroci sofferenze.
Con la lapidazione venivano tirati sassi contro il condannato finché non moriva; spesso la comunità assisteva e partecipava allo “spettacolo”. È ancora praticata nei paesi islamici. Anche la Bibbia e il Vangelo vi facevano riferimento per quanto riguarda la pena da comminare alle adultere.
Il condannato viene solitamente sepolto nel terreno fino al collo, o bloccato in altri modi. La morte può essere causata da danni al cervello, da asfissia o da una combinazione di ferite. La persona può essere colpita più volte senza perdere conoscenza: di conseguenza la morte può essere molto lenta. Spesso la comunità assiste o partecipa alla lapidazione. E’ comminata prevalentemente nei casi di adulterio.
Il codice penale iraniano descrive minuziosamente le modalità dell’esecuzione (“le pietre non devono essere così grandi da far morire il condannato col lancio di una o due di esse; non così piccole da non poter essere definite come pietre) e, a dimostrazione di una millenaria discriminazione, dispone che le donne siano seppellite fino alle spalle, gli uomini invece fino alla vita.
Durante l'impiccagione il condannato viene fatto penzolare da una corda posta intorno al collo ed è ucciso dalla pressione esercitata dalla corda stessa contro il corpo, spinto verso il basso dalla forza di gravità. Lo stato di incoscienza e la morte sono provocati da lesione alla colonna vertebrale o da asfissia. Talora si rende necessario tirare le gambe del condannato. Sebbene privo di sensi, il corpo può avere degli spasmi ed il cuore può continuare a battere per alcuni minuti.
Con il dissanguamento, il condannato (spesso una presunta strega) veniva dissanguato fino alla morte, in quanto si riteneva che il “Male” risiedesse proprio nel suo sangue. Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato dal dissanguamento o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le streghe condannate erano “segnate sopra il soffio” (sfregiate sopra il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.
Stivaletto spagnolo: le gambe venivano legate insieme e inserite in una sorta di stivale di ferro, che il boia stringeva fino allo spappolamento delle ossa. Lo stivale era considerata dai testimoni dell’epoca la tortura piu’ violenta e crudele al mondo, cosi’ spaventosa che quando qualcuno doveva essere infilato nello stivale, tutti i membri del Consiglio che lo ordinava chiedevano di andarsene. Consisteva in un contenitore di ferro a forma di stivale progettato per racchiudere l’arto nudo, dal piede al ginocchio; tra la gamba e lo strumento venivano inseriti con un martello dei cunei di legno o di metallo. La carne veniva cosi’ lacerata e spesso le ossa si schiantavano, frantumandosi in modo spaventoso e disgustoso, mentre il castigo proseguiva finche’ la vittima confessava. Era inoltre raro che chi sperimentava questa tortura non rimanesse storpio a vita.
Tortura dell’animale: un insetto, per lo più un tafano (a volte anche una o più api) veniva messo nell’ombelico dell’imputato, chiuso da un bicchiere di vetro. Alternativamente, si poteva inserire la testa del malcapitato in un sacco pieno di bestie inferocite (spesso gatti).
Veglia: l’accusato veniva costretto a una veglia continua, che poteva durare anche giorni. Era costretto a restare in piedi, tra due sentinelle che si davano il cambio, e che si adoperavano per non farlo addormentare.
La culla della strega, come dice il nome stesso, questa tortura veniva applicata soprattutto alle donne accusate di essere serve di Satana. Esse venivano poste in un sacco, appese al soffitto o a un albero e fatte dondolare indefinitamente. Sebbene non sembri una vera e propria tortura, questo metodo, in realtà, causava disorientamento totale e spesso allucinazioni.
Le metodologie di messa al palo erano le torture per eccellenza nell’antichità, amata soprattutto dai popoli del Mediterraneo, ma veniano utilizzate spesso e volentieri anche durante il medioevo.
La morte sopraggiungeva lentamente, dopo un’agonia indescrivibile e che si protraeva per giorni. Si poteva aumentare la sofferenza del condannato in svariati modi, a seconda della malvagità del boia: a volte venivano fratturate le gambe con dei forti colpi, oppure si laceravano il volto, o i seni, con strumenti spinosi o uncinati; in altri casi s’infilavano stecche o bastoni nel condotto uretrale od anale della vittima.
I Romani solevano lasciare i corpi a marcire sulla croce finché non rimanessero solo le ossa nude, mentre gli Ebrei li toglievano non appena sopraggiungeva la morte e li seppellivano il giorno stesso. Alcuni tipi di crocifissione e messa al palo: Sospensione per una gamba, Sospensione a due gambe, Crocifissione a testa in su, Crocifissione a testa in giu, Torturato appeso per entrambe le braccia con pesanti oggetti appesi ai piedi,Donne sospese per i capelli, Torturati appesi per un solo braccio, con pesanti pietre appese ai loro piedi.
Il toro di bronzo si trattava di un’altra modalità di tortura per mezzo del fuoco.
Arrostiti vivi nel toro di bronzo: l’ingegno di questa macchina da tortura consisteva nella predisposizione ad arte di alcuni flauti cosicché quando la vittima, inserita nel congegno che si scaldava a dismisura, gridava dal dolore per mezzo di questi condotti sapientemente studiati il toro emetteva un musicale muggito. La leggenda vuole che il suo inventore, il greco Perillo, alla presentazione del diabolico marchingegno al suo sovrano, fu costretto dal sovrano stesso a venir arrostito nel toro, fornendo, citando Ovidio “…la prima prova del suo crudele mestiere“.
In una terribile esecuzione avvenuta in Francia nel 1757, il prigioniero accusato di parricidio subì le seguenti torture: “fu portato su un’impalcatura eretta per l’occasione e gli vennero bruciate con delle tenaglie roventi il petto, le braccia e i polpacci; la mano destra, con la quale commise il delitto di parricidio, gli fu bruciata nello zolfo; dell’olio bollente, del piombo fuso e della resina e della cera mischiata allo zolfo, gli furono versati nelle ferite; dopo tutto ciò il corpo venne lacerato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo arsi vivi furono sparsi al vento”.
I guanti di ferro venivano legati ai polsi del prigioniero che tramite una vite venivano gradualmente stretti. Il prigioniero poi veniva fatto salire su dei blocchi di legno e incatenato al soffitto tramite questi “guanti”; rilasciato il supporto di legno, tutto il suo peso gravava sui polsi e i guanti penetravano in profondità la carne gonfiando le braccia.
I prigionieri venivano rinchiusi in prigioni umide e maleodoranti. Ma non era tutto. Con l’acqua giungevano orde di ratti affamati; dormire significava concedersi a queste bestie fameliche. E così, in questa cella buia e fetida, il prigioniero combatteva da un lato contro i ratti e dall’altro contro il sonno, fino a che, stanco e finito, non lottava più.
Con la tortura tedesca si legava un grosso gatto selvatico, chiuso in una gabbia, sull’addome nudo del prigioniero; poi la bestia veniva tormentata e punzecchiata finche preso dalla furia e dalla disperazione strappava con le unghie e con i denti la carne della vittima sotto di sé, rosicchiando fino alle budella.
La tortura olandese è una variante della tortura tedesca, ma più disgustosa. La vittima, spogliata, veniva legata a mani e piedi e posta supina su un piano rigido; un vaso di ferro, pieno di ghiri e ratti, veniva capovolto sullo stomaco del prigioniero. Il passo successivo consisteva nell’appiccare un fuoco a questo contenitore metallico, cosicché le bestie, rese frenetiche dal calore e impossibilitate a scappare, dovessero scavarsi dei tunnel attraverso le viscere del condannato.
L'annodamento era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente i capelli delle streghe a un bastone. Quando l’inquisitore non riusciva ad ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini ruotavano l’attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto. Questa tortura era usata in Germania contro gli zingari (1740-1750) e in Russia con la Rivoluzione Bolscevica nel 1917-1918.
Prima di iniziare l’ordalìa del fuoco tutte le persone coinvolte dovevano prendere parte a un rito religioso. Questo rito durava tre giorni e gli accusati dovevano sopportare benedizioni, esorcismi, preghiere, digiuni e dovevano prendere i sacramenti. Dopodichè si veniva sottoposti all’ordalìa aveva inizio: gli accusati dovevano trasportare un pezzo di ferro bollente per una certa distanza. Il peso di questo pezzo era variabile: si andava da un minimo di circa mezzo chilo per reati minori, fino a un chilo e mezzo.
Un altro tipo di ordalìa del fuoco consisteva nel camminare bendati e nudi sopra i carboni ardenti. Le ferite venivano coperte e dopo tre giorni una giuria controllava se l’accusato era colpevole o innocente. Se le ferite non erano rimarginate l’accusato era colpevole, altrimenti era considerato innocente. Si poteva aver salva la vita però: corrompendo i clerici che dovevano officiare la prova si poteva fare in modo che ferro e carboni avessero una temperatura sufficientemente tollerabile.
Il Forno, questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le vittime erano uccise prima di essere cremate. Nel diciassettesimo secolo più di duemila fra ragazze e donne subirono questa pena nel giro di nove anni. Questo conteggio include anche due bambini.
Le Turcas erano usato per lacerare e strappare le unghie. Dopo lo strappo, degli aghi venivano solitamente inseriti nelle estremità delle falangi.
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