La lingua ufficiale dello Stato italiano discende storicamente dal toscano letterario, il cui uso è iniziato coi grandi scrittori Dante, Petrarca e Boccaccio nel 1300, e si è in seguito evoluto storicamente nella lingua italiana corrente. La lingua italiana era parlata solo da una piccola minoranza della popolazione al momento dell'unificazione politica nel Regno d'Italia nel 1861, ma si è in seguito diffusa, mediante l'istruzione obbligatoria e il contributo determinante e più recente della televisione di Stato, e ora la netta maggioranza dei cittadini italiani la parla come lingua madre.
Dal punto di vista degli idiomi locali preesistenti, ne consegue un processo di logoramento linguistico in cui le generazioni successive acquisiscono sempre più caratteristiche italiane - processo accelerato sensibilmente dall'ampia disponibilità di mass media in lingua italiana e dalla mobilità della popolazione. Questo tipo di cambiamenti, unito all'ignoranza ed al mancato riconoscimento ufficiale, porta molti locutori nativi a considerare il proprio idioma locale come semplice varietà dialettale della lingua italiana, senza alcuna dignità linguistica. Alcuni idiomi sono considerati in pericolo di estinzione.
Un dialetto è una varietà linguistica (o idioma) usata da abitanti di una particolare area geografica. Il numero di parlanti, e l'area stessa, possono essere di dimensione arbitraria. Ne consegue che un dialetto per un'area più ampia può contenere molti sottodialetti, che a loro volta possono contenere dialetti di aree ancora minori, ecc.
In Italia il termine "dialetto" è usato - molto impropriamente - per definire qualsiasi lingua romanza parlata in un'area geografica del paese e che non goda dello status di lingua ufficiale (per es. calabrese, ligure, napoletano, veneziano etc.). Altre lingue - romanze e non - sono riconosciute come lingue ufficiali assieme all'italiano in un'area amministrativa (per es. friulano in Friuli, sardo in Sardegna, catalano ad Alghero, tedesco in Alto Adige etc.); queste ultime in genere non vengono chiamate "dialetti".
Ovviamente tale distinzione non si basa su nessun criterio scientifico: sia le prime che le seconde sono lingue e non dialetti dell'italiano, definizione piuttosto adatta alle varietà regionali non standard (per es. l'italiano parlato in Lazio o in Campania o in Veneto).
Un dialetto è un sistema completo di comunicazione verbale (orale o a segni ma non necessariamente scritto) con un proprio vocabolario o grammatica.
Il concetto di dialetto può essere distinto da:
socioletto, una varietà linguistica parlata da un certo strato sociale,
lingua standard, che è standardizzata per la pubblica prestazione,
gergo, caratterizzato da differenze nel vocabolario (o, in gergo linguistico, nel lessico).
Varietà linguistiche quali i dialetti, gli idioletti ed i socioletti possono essere distinte non solo dal vocabolario e dalla grammatica, ma anche da differenze nella fonologia (compresa la prosodia). Se le distinzioni sono limitate alla fonologia, si parla di accento di una varietà o inflessione anziché varietà o dialetto.
Lo studio dei dialetti, affidato alla dialettologia, non si limita a confrontare, tuttavia, differenze ed affinità dei dialetti, ma ne fornisce una precisa classificazione. Inoltre, consente di definire un quadro più ampio e dettagliato su usi e costumi delle differenti popolazioni.
Quasi sempre al dialetto fa ricorso la saggezza popolare per la formulazione dei proverbi - più o meno antichi - i quali, se particolarmente articolati e impervi nella pronuncia, diventano veri e propri scioglilingua.
Talvolta per risolvere contenziosi di poco conto è più facile sostenere le proprie ragioni esprimendosi nel gergo locale: non a caso la parola dialetto condivide la radice con i termini dialogo e dialettica con cui, secondo la filosofia, si analizzano criticamente argomenti e ipotesi opposte. Quindi, anche il dialetto può essere utile per praticare la fine arte della diplomazia.
Una parte considerevole dei cittadini italiani parla altri idiomi oltre alla lingua ufficiale dello Stato; una parte tra questi parla un idioma diverso dall'italiano come lingua madre. Una minoranza non trascurabile non conosce l'italiano.
Il cinema, la radio e la Tv, nell’immediato dopoguerra, consentirono alla lingua italiana di diventare il codice linguistico usato dalla maggioranza della popolazione. L’ascesa di una specifica varietà a lingua nazionale ha relegato al rango di “dialetti” tutte le altre parlate. Ma prima che, tra Cinque e Seicento, il fiorentino si imponesse sugli altri, tutti i volgari avevano lo stesso ruolo di lingua.
I dialetti dunque, anche se sono stati a lungo considerati lingue di second’ordine, sono in realtà lingue a tutti gli effetti, esattamente come l’italiano. Che poi i vari dialetti abbiano avuto vicende storiche diverse, e che alcuni non abbiano prodotto documenti letterari, limitandosi ad essere mezzo di comunicazione fra gli abitanti di un’area circoscritta, non lo si può negare; da una pari dignità iniziale, ciascuno ha poi avuto la sua storia, e alcuni sono arrivati più in alto di altri, come il siciliano del Duecento, che ha prodotto la prima grande scuola poetica in Italia.
Al di là di questo, per un linguista non c’è differenza tra parlare di lingua o di dialetto: i dialetti non sono forme alterate e corrotte della lingua nazionale, quanto piuttosto, derivando anch’essi dal latino, sono “lingue sorelle” dell’italiano, che, al pari della lingua standard, posseggono un lessico e una grammatica codificabili in trattazioni scientifiche, e si prestano ad essere usate con finalità letterarie.
Tra lingua e dialetto c’è semmai una differenza di status: la lingua è, in un certo senso, un dialetto che “ha fatto carriera”. Il dialetto ha invece una diffusione geografica più limitata, è ristretto per lo più entro l’uso orale, e non è mai utilizzato per impieghi formali o istituzionali (scuola, amministrazione).
A grandi linee, si può dire che i dialetti italiani si suddividano in due gruppi principali: quelli settentrionali e quelli toscani e centro-meridionali; una linea di confine ideale che va da La Spezia a Rimini divide i due gruppi. I dialetti settentrionali sono chiamati anche gallo-italici, perché le zone in cui si sono diffusi erano abitate dai Galli, prima della conquista romana. Sono accomunati da alcune caratteristiche, come ad esempio la caduta delle vocali in fine di parola, a parte la a (e ad eccezione del Veneto), per cui matto diviene mat, gatto gat, buono bon; altri elementi tipici sono la caduta della doppia consonante, l’uso prevalente del passato prossimo invece del remoto, l’articolo determinativo davanti ai nomi di persona (il Carlo). I dialetti delle zone centrali, tra cui il toscano, sono più conservativi e mantengono più legami con il latino. Ad esempio, sanctus diviene santo, e il gruppo consonantico nt si mantiene, senza diventare nd come avviene nel “sando” dei dialetti meridionali. Nei dialetti centrali della linea Roma-Ancona, nd diventa nn: quando – quanno. Le consonanti sorde, dopo nasale, diventano sonore: bianco – biango; inoltre il possessivo è postposto: mia madre – matrema. In Sicilia, Calabria, Salento, nei dialetti meridionali estremi, le vocali sono sempre aperte: catèna, professòre, e si utilizza in prevalenza il passato remoto. Queste naturalmente sono solo alcune delle tante caratteristiche morfosintattiche che accomunano i vari gruppi dialettali.
A fronte di un generale consolidamento dell’uso dell’italiano, si ha una diminuzione dell’uso esclusivo del dialetto. Tale decremento è però compensato dall’aumento di chi dichiara di usare il dialetto frammisto all’italiano (mistilingua). Per effetto della diffusione ormai generalizzata dell’istruzione scolastica, oggi il dialetto non è più sentito come la varietà di lingua dei ceti bassi, simbolo di svantaggio sociale e di ignoranza. Sapere e usare un dialetto oggi è considerata una risorsa comunicativa in più, di cui servirsi quando occorre, per il suo potenziale espressivo. Il dialetto compare in ambiti d’uso diversi rispetto al passato, per esempio nei fumetti, alla radio, nella pubblicità, nei testi delle canzoni di band, nella narrativa, nella comunicazione mediata dal computer, utilizzato spesso tra i giovani con finalità ludiche. Il dialetto in Rete è interessante sia perché coinvolge le giovani generazioni, che dei dialetti dovranno essere le custodi, sia perché qui se ne fa un uso scritto, mentre in genere è relegato all’oralità. Se in passato molte parole sono penetrate nell’italiano dai dialetti (vedi ciao che deriva dal veneto s’cìao, schiavo, servo vostro), oggi sono i dialetti che mutuano dall’italiano parole provenienti da sfere semantiche per le quali mancano di risorse proprie (tecnica, politica, economia). Il dialetto, come tutte le lingue, si evolve, ma non sta morendo, almeno non a breve, soprattutto dove, come in Veneto e al Sud, i vernacoli sono più diffusi e parlati. Del resto, oltre ad essere un modo di parlare, testimonia anche un modo di pensare, una visione delle cose, è l’espressione di una certa cultura e di valori e tradizioni che senza di esso si perderebbero per sempre.
Ricerche sociolinguistiche hanno dimostrato che l’atteggiamento dei parlanti in Calabria è spesso improntato a una specie di vergogna per la dialettofonia, a differenza dei parlanti dialettofoni del centro-nord, che mostrano un certo senso di language loyalty e di orgoglio linguistico. Opera ancora nei dialettofoni calabresi un complesso d’inferiorità che ha radici remote e meriterebbe di essere approfondito. La svalutazione dei dialetti, e delle lingue delle minoranze, è stata sempre attuale nei dialetti meridionali, e in Calabria ha raggiunto momenti di parossismo. Ciò spiega la forte tendenza all’obliterazione, in favore della lingua egemone, l’italiano della scuola e dei mass-media, malgrado i notevoli sforzi di recupero degli ultimi decenni.
Paradossalmente, le nozioni di lingua e dialetto non sono nozioni linguistiche, ma piuttosto geografiche, politiche, sociali, culturali.
E che sia così ci si rende conto andando a pescare nella memoria tante espressioni che ci sono state familiari, ma di cui non conoscevamo l’origine, e che ci restituiscono la “tracciabilità” di un passato storico. Parole, per esempio, come faddali - grembiule, oppure schina - schiena, il prof. Martino le classifica come “longobardismi”. “Arabismi” invece parole come sciarra - zuffa, lite, gèbbia - vasca, cisterna.
Di enorme interesse storico culturale sono le cosiddette ‘rimesse’ lessicali degli emigrati, per lo più americanismi: sichinenza ‘poco valore’, ‘scarto, pessima qualità’: rrobba d’a sichinenza (ingl. second hands) ‘di seconda mano’; carru ‘automobile’ (car); checca‘torta’ (cake); farma ‘fattoria’ (farm); nghella ‘ragazza’ (girl):pulìsi ‘poliziotto’ (police); sanguìcciu ‘panino imbottito’ (sandwitch):tichetta ‘biglietto’ (ticket).
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