giovedì 10 marzo 2016

LA PAZZIA

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La follia rappresenta, per la psicologia umana, una condizione innaturale ed estrema. È affascinante da studiare perché ammette tutto ciò che la condizione umana ci offre in termini di commedia, tragedia, profondità di pensiero e irriverenza, e quindi reca con sé intuizioni delle quali non vorremmo fare a meno.

« La sanità mentale necessita della follia per la propria stessa sopravvivenza e in condizioni normali chi è sano di mente cerca di conseguenza di procurarsi forme temporanee delle sue più piacevoli manifestazioni: dalla leggere euforia che si procurano feste e balli agli stati non altrettanto salutari indotti dall'alcol, dalla cocaina e da altre sostanze che alterano la coscienza »
(A. C. Grayling, La ragione delle cose).

Il termine follia deriva dal latino folle, di origine onomatopeica, significava vuoto o mantice. Nel corso dei millenni è profondamente variato sia il concetto di follia sia la sua interpretazione.

Nel mondo classico la follia era imprescindibilmente legata alla sfera sacra: il folle rappresentava la voce del divino, quindi da ascoltare per interpretarla.

Nel Medioevo, invece, il folle diventò il rappresentante del demonio, perciò bisognava liberarlo dal male, in qualche modo esorcizzarlo. Si diffuse la dicotomia spirito-corpo che, nel caso di malattia mentale, impose come primo atto l'intervento riparatorio sul corpo guasto, e proprio per questo motivo incapace di far esprimere lo spirito, e nel caso di insuccesso l'eliminazione fisica del folle.

Un'interpretazione diametralmente opposta si ebbe nel Rinascimento, basti pensare all'Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam; in questa epoca il folle venne considerato una persona diversa, sia per i valori sia per la sua filosofia di vita, e quindi andava rispettato, lasciato libero. Questa corrente di pensiero getterà le basi per la moderna fenomenologia, sviluppata dal filosofo Husserl, ma anche dallo psichiatra Jaspers che influenzerà la psichiatria trasformandola in una disciplina di incontro con l'altro (il folle), per vivere insieme con il malato e comprenderlo.

Se nel Medioevo i folli rischiavano il rogo, ancora alla metà del Settecento erano detenuti nelle carceri, poiché mancavano le strutture sanitarie specifiche; proprio in questo periodo, in Francia, in Germania e in Inghilterra si mise in moto un processo lento che consentirà entro una cinquantina di anni, grazie alla promulgazione delle prime leggi apposite, di consegnare i folli ai familiari, o in caso di mancanza, anche inserirli negli ospedali oppure nei primi istituti specializzati nascenti in quell'epoca.

Per quanto riguarda l'approccio terapeutico ai malati, solamente verso la fine del XVIII secolo, il medico chirurgo Jacques René Tenon rivoluzionò la mentalità medica dell'epoca cercando di imporre il concetto di inviolabilità della persona umana e di libertà, seppur all'interno della struttura, per il malato, distinguendo la terapia medica, da quella solamente repressiva di tipo carcerario in vigore fino a quel momento.

Un altro medico francese di fine XVIII secolo, Pierre Jean Georges Cabanis, portò avanti il lavoro di Tenon, progettando il primo regolamento degli istituti per malati di mente: tra le altre innovazioni, Cabanis, abolì le catene per sostituirle con corpetti di tela (camicia di forza), introdusse un diario medico informativo sul malato e sugli effetti delle terapie e soprattutto regolamentò l'ingresso e l'eventuale fuori uscita del malato per guarigione avvenuta. Le cronache giudiziarie di quegli anni, per la prima volta, descrissero l'arresto, per omicidio, di "infermi di mente" da indirizzare nei manicomi.

In Inghilterra, invece, la gestione dei malati di mente era stata abitualmente appannaggio dei Quaccheri, e verso la fine del Settecento, l'ospedale di York venne ristrutturato ed adibito a questo compito. Oltre all'introduzione della semilibertà vigilata, emersero due aspetti caratteristici: l'uso dei principi religiosi come metodo di cura e il lavoro come valore terapeutico.

Nello stesso periodo, invece, in Francia si impose una visione laica nella gestione dei malati di mente, e grazie all'opera fondamentale del dottor Philippe Pinel le ideologie democratiche dell'epoca si riversarono sulla mentalità e sul tipo di controllo da applicare ai folli. Questo fu il periodo in cui la conoscenza delle malattie mentali acquistò una credibilità scientifica, e le innovazioni apportate da Pinel esalteranno l'importanza del rapporto paziente/terapeuta e l'importanza del transfert nella psicoterapia.

In tempi più recenti, dall'Ottocento in poi, emerse la visione, influenzata dal Positivismo, del folle come "macchina rotta", ovverosia lesionata nel cervello.

Nel Novecento Freud con l'intuizione della guarigione perseguibile tramite una ricerca interiore ed un rapporto più umano con il terapeuta, con tutta la architettura della psicoanalisi nel suo complesso, e Jung, con la sua indagine dei contenuti simbolici degli elementi della follia e l'introduzione degli archetipi per definirla con più chiarezza, mutarono nuovamente la storia del folle e del significato della follia.

La follia nella cultura moderna ha un ruolo importante, specialmente nelle opere liriche, dove occupa grandi scene, note come appunto scene "della follia" (Lucia di Lammermoor, Anna Bolena, Il pirata, Semiramide, Nabucco).

Nella letteratura restano ancora oggi memorabili ed emblematici Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, affresco romanzesco della schizofrenia efficace quanto geniale; il dramma pirandelliano Enrico IV, nel quale si intrecciano i temi della solitudine, dell'incomprensione, dei confini assurdi tra il vero ed il falso, tra la follia e la saggezza. Le tragedie greche e quelle shakespeariane mettono in scena, talvolta, le follie vere o presunte di esseri umani schiacciati dalle forti emozioni oltre che dal destino. A rappresentare la depressione come follia, si può citare Bartleby lo scrivano di Herman Melville.

Kefka Palazzo, celebre personaggio di Final Fantasy VI, è un ottimo esempio della follia nel panorama dei videogiochi.

Nell'antichità e presso i primitivi la pazzia fu ed è concepita talvolta come una vera e propria possessione demoniaca, talvolta invece come una trasformazione della persona psichica (individuo pensante, senziente e operante) per opera di spiriti maligni, ma anche della divinità che punisce in tal modo una colpa. Ma Ippocrate diceva già: hac parte (cervello) sapimus et intelligimus et hac ipsa insanimus. Le varianti al concetto di alienazione mentale con l'andare dei tempi si sono moltiplicate, ma non furono così radicali come in generale si ritiene. Si può dire che, malgrado il concetto psicologico di pazzia cui tutti aderirono, da J.-E.-D. Esquirol a J. Guislain, da P. Zacchia a G. S. Bonacossa, a F. Bonucci, ad A. Verga, ecc., tutti la considerarono come un'affezione cerebrale senza alcun riguardo alle proprie convinzioni filosofiche. Vincenzo Chiarugi, che si può dire il fondatore della psichiatria in Italia, la definisce un delirio cronico permanente con offesa primitiva dell'organo cerebrale (1808). Lo Esquirol (1838) fu più esatto nella sua definizione, ma in pari tempo confermò il concetto somatico di pazzia. Andrea Verga trattò della definizione della pazzia nel suo discorso inaugurale dell'anno 1873-74. Egli confermò anche nella definizione che la pazzia è un'affezione del cervello, ma fu ancora più esplicito e più completo perché distinse le affezioni cerebrali, in congenite e acquisite, primarie e secondarie, che portano alterazioni nella sensibilità, nell'intelligenza, nella volontà dei malati.
Aumentate le conoscenze anatomiche e fisiologiche del sistema nervoso, nessuno più dubitò dei rapporti necessari fra pazzia e cervello; ma siccome si erano venute precisando le localizzazioni delle funzioni psichiche sulla corteccia cerebrale, come in altri segmenti si erano precisati già i centri motori, sensitivi e sensoriali, così la pazzia fu definita da Th. Meynert una malattia o un'anomalia del cervello anteriore. Tale definizione però non fu accettata che da una piccola minoranza, perché essa si basava sulla convinzione che l'attività psichica avesse il proprio organo specifico e separato nei lobi prefrontali del cervello; convinzione che fu condivisa da parecchi biologi, alienisti e medici generali oltreché da Th. Meynert; per es. da P. E. Flechsig, da C. Lombroso, da L. Bianchi, ma che ben presto subì una revisione ragionevole anche da parte dei neuropsichiatri che l'avevano prima sostenuta. E così i lobi frontali restarono nella mente degli psichiatri come una parte del cervello funzionalmente privilegiata ma non esclusivamente costituenti l'organo psichico.



Maggiore consenso poté raccogliere un'altra definizione certamente più larga e meno compromettente, e cioè: la pazzia è un'affezione diretta o indiretta, stabile dei centri corticali detti psichici e delle loro connessioni cerebrali (centri di associazione di Flechsig).

Però, malgrado la grande fortuna che ebbero la dottrina di Meynert e quella di Flechsig, in Italia prevalse, per impulso di Enrico Morselli, l'opinione che nella definizione della pazzia dovesse essere implicito il concetto di "personalità". La pazzia dunque è un'alterazione di tutta la personalità psichica, dipendente da originaria anomalia, ovvero da processi morbosi primari o secondari, intrinseci o estrinseci (fattore causale), istologici o biochimici, a carico del mantello cerebrale e interessanti comunque il complicato apparecchio corticale e neuro-umorale, la cui attività comprende il concomitante organico necessario dell'attività psichica.

Il termine follia, come il suo sinonimo pazzia, indica uno stato generico di alienazione mentale. Di difficile definizione da parte del sapere medico e psicologico, attualmente il suo impiego è estremamente ridotto in ambito scientifico, dove si fa ricorso a nozioni più specifiche, più rigorose e anche meglio verificabili per definire disturbi mentali e organici tradizionalmente compresi sotto la denominazione di follia. Una diversa pregnanza assume invece il termine nella sua accezione socioculturale: la coscienza contemporanea coglie nel concetto di follia non soltanto il particolare stato psicofisico di determinati individui, ma più in generale l'espressione di una condizione di 'diversità', rispetto a modelli di 'normalità' socialmente stabiliti, che è imputabile non tanto a un disturbo interno a un soggetto sofferente, quanto da un'interazione squilibrata tra il soggetto stesso e il suo ambiente.
Esporre in breve il significato e le implicazioni del concetto di follia è un'impresa ardua. Né la sua difficoltà diminuisce in maniera apprezzabile anche quando si intenda esplorarne non già le accezioni direttamente mediche, bensì quelle di carattere più teorico-culturale o, se si preferisce, più storico-antropologico. In effetti, fin dai primordi dell'uso di tale nozione appare evidente che quest'ultima viene interpretata nei modi più diversi e secondo criteri di giudizio spesso assai contrastanti. Sotto il profilo etimologico, follia deriva dal latino follis, che indicava approssimativamente un qualche sacco o contenitore "pieno d'aria". Riferire tale termine ai (cosiddetti) folli, nel senso più moderno e ordinario della parola, risulta già un'operazione metaforica più in grado di aprire ulteriori interrogativi che non di offrire risposte chiarificatrici al problema in questione.
Che cos'è, in effetti, 'pieno d'aria'? L'uomo nella sua totalità? O forse la sua testa, considerata già nell'antichità la sede delle facoltà intellettive? E perché l'aria dovrebbe evocare in modo immediato una condizione di anormalità avvicinabile alla penosa situazione del pazzo? Si è detto pazzo come se fosse un quasi sinonimo di folle, e la cosa appare per più versi legittima. Ma proprio questa dualità terminologica richiama alla mente che la cultura dell'Occidente ha elaborato un numero estremamente ampio di parole denotanti uno stato di follia. La lingua latina possedeva almeno insania: un termine che esprime in maniera assai chiara la natura "non sana", patologica della follia.
Ma oltre a follia, a pazzia e a insania la nostra cultura ha impiegato anche alienazione, demenza, disordine (sovente accompagnato dai qualificativi mentale o morale), mania, devianza. E l'elenco potrebbe ancora continuare. Certo sarebbe possibile osservare che ognuna di queste parole ha, almeno per noi oggi, un'accezione abbastanza specifica, non completamente coincidente con quella delle altre. Ma ciò non cancella il problema storico-teorico suggerito da questa sovrabbondanza terminologica. Riassunto nel modo più schematico, il problema è il seguente: il sapere antico e moderno non ha mai potuto o saputo (o voluto) definire univocamente la follia e, con essa, i folli. Le ragioni di questa impotenza sono molteplici. Indichiamone, per ora, una delle principali e delle più inquietanti: il sapere di cui sopra non ha mai stabilito una volta per sempre se la follia sia uno stato/fenomeno esclusivamente corporeo, o uno stato/fenomeno di altro genere (mentale, spirituale, comportamentale, sociale). Ma c'è di più: per una parte cospicua del pensiero antico, e per un filone non irrilevante di quello moderno e contemporaneo, non si è mai stabilito (o non lo si è stabilito senza forti esitazioni, dubbi e ambiguità) se la follia sia una condizione umana negativa o positiva, patologica o fisiologica, inferiore o superiore alla (cosiddetta) normalità.
La cosa non può sorprendere. È ben noto che in varie comunità cosiddette primitive ancor oggi il cosiddetto folle, ben lungi dall'essere considerato un malato, viene spesso visto come un soggetto 'abitato' da forze particolari, che potrebbero anche essere segni o veicoli di poteri soprannaturali. Ma, anche a voler restare nell'ambito della civiltà e del pensiero occidentale, è altrettanto noto che una parte del sapere psichiatrico contemporaneo, nonché le concezioni solitamente chiamate 'antipsichiatriche', hanno proposto un'immagine della follia e del folle assai lontana da connotazioni patologico-diminutive. Su quest'ultimo punto torneremo nella parte finale della trattazione. Qui converrà sottolineare con forza che già nell'età antica la follia - spesso espressa con il termine mania (poi ampiamente ripreso, anche se con accezioni diverse, dalla scienza moderna) - veniva sovente concepita come una condizione privilegiata sotto diversi punti di vista. A tale proposito, senza inoltrarsi in periodi più arcaici, basterà fermarsi a Platone. In uno dei suoi dialoghi maggiori, il Fedro, il filosofo distingue una follia buona da una follia cattiva; e della pazzia non esita a dire che "i maggiori beni ci sono elargiti per mezzo d'una follia che è un dono divino". Le forme buone di follia sono, per Platone, quella profetica, che consente di antivedere il futuro; quella purificatoria, che consente all'uomo di distanziarsi da determinati mali; quella poetica, ispirata direttamente dalle Muse; e quella amorosa, suscitata dal ricordo della bellezza ideale. Questo rapido riferimento a Platone è sembrato per più ragioni necessario. In primo luogo, le pagine del Fedro attestano quanto la follia potesse essere considerata una condizione per nulla patologica, ma, al contrario, generatrice e/o espressione di stati privilegiati. In secondo luogo, bisogna sottolineare che l'interpretazione platonica (che in realtà non è soltanto di Platone) ha continuato nei secoli successivi ad alimentare un approccio alla follia profondamente diverso da quello clinico-medicalizzante affermatosi, sia pure con rilevanti eccezioni, nella nostra modernità.



Quando, nel 1509, Erasmo da Rotterdam scrive il suo celebre Elogio della pazzia, egli ha certo in mente anche Platone. In ogni caso, indipendentemente da qualsiasi esegesi filologica, il testo erasmiano rappresenta un'altra tappa miliare di quella che potrebbe essere chiamata l'interpretazione della follia in ambito culturale. Anche nel pensiero di Erasmo la follia è tutt'altro che una malattia. Essa è piuttosto una diversità: una diversità, va subito aggiunto, rispetto alla normalità giudicata dal grande umanista olandese iniqua e assurda, anzi essa sì realmente 'pazza'. La follia erasmiana si configura in sostanza come ironia smascheratrice, come dissenso critico nei confronti di realtà ingiuste e di costumi corrotti. Se, come sembra dire Erasmo, la ragione ha prodotto il mondo che vediamo intorno a noi, allora ben venga la follia: una follia capace, paradossalmente, di essere più saggia e avveduta della realtà sociale convinta di ispirarsi al logos. Platone nell'Evo Antico, Erasmo nel Rinascimento, alcuni romantici nel primo Ottocento, alcuni (o molti) 'decadenti' tra la fine del 19° secolo e l'inizio del 20°: anche in questo caso l'elenco dei lodatori della follia potrebbe continuare a lungo.
Tuttavia, il punto che qui preme mettere in evidenza è, in fondo, soltanto il seguente. La coscienza occidentale ha considerato la follia, molto frequentemente, in modo non patologico e tantomeno medico. Anzi, l'ha considerata una sorta di alternativa a un universo individuale/sociale per più versi insoddisfacente. Oppure, magari, si è spinta a vederla come una protesta, più o meno eloquente, contro tale universo. Dall''idiota' di F. Dostoevskij a certi protagonisti 'inetti' (o pazzi tout court) sia della narrativa sia della cinematografia contemporanee, tutta una cultura critica, o 'alternativa', ha scorto nel folle il diverso che sovverte le gerarchie canoniche dell'ordine normale, che testimonia l'esistenza (magari solo potenziale) di altri ordini, di altri valori. Nell'individuo alienato a causa di una sua difficoltà relazionale con il mondo, l'individuo 'normale' - in realtà anch'egli fortemente alienato da una realtà socioeconomica disumana - vede, quasi con una punta di invidia, l'essere che è in qualche modo legittimato a vivere fuori dal sistema, e indipendentemente dalle sue angustie e dalle sue più o meno visibili barbarie.

Il discorso svolto fin qui si proponeva soltanto di far rilevare che non dovunque, non sempre (e neppure qui e ora, nel mondo cui apparteniamo), la follia è stata giudicata nel senso in cui viene usualmente giudicata: una malattia che differenzia chi ne è affetto dall'uomo che si sente sano; una devianza rispetto a una normalità considerata l'unica possibile o ragionevole.
Alludiamo alla follia vista come malattia, o almeno come disturbo. A questo proposito, grande sarebbe la tentazione di tornare ancora una volta agli antichi. In Ippocrate, in Galeno, in Celso e in tanti altri studiosi greci e latini riscontriamo una somma straordinaria di dati e di osservazioni, di ipotesi e di congetture sulla natura e sull'eziologia di quella particolarissima condizione d'essere che è, appunto, la follia. A volerlo esprimere in modo sintetico, l'interrogativo è il seguente: la follia si riferisce al corpo o all'anima? Nasce da cause endogene o esogene? È curabile o non curabile? Si sono evocate queste tre domande soprattutto per mostrare quanto la questione della follia si correli con una ben più ampia problematica, riguardante in fondo la natura stessa dell'uomo. Appare infatti ben chiaro che le risposte ai quesiti sopra richiamati richiedevano il possesso di una conoscenza preliminare: quella, appunto, relativa all'organizzazione generale dell'essere umano. Una conoscenza, bisogna aggiungere, che per la sua vastità era percepita come filosofica.
A quest'ultimo proposito non è certo un caso che sullo scenario del sapere sia antico sia moderno riguardante la follia compaiano assai spesso studiosi dotati, per così dire, di una doppia preparazione: medica e, appunto, filosofica. Il momento più peculiare di questa situazione si colloca nel 18° secolo. In questo periodo, e non senza la significativa riscoperta del più grande medico-filosofo dell'antichità, Ippocrate, una figura intellettuale che acquista un particolare prestigio è quella del cosiddetto médecin-philosophe. È a questa figura che la cultura dei Lumi chiede di chiarire non solamente la struttura psicofisica dell'uomo ma anche la causa dei disturbi connessi alla follia, ovvero all''alienazione' delle sue facoltà intellettuali e morali. È proprio nell'età illuministica (o, più precisamente, tardoilluministica) che molti studiosi collocano la genesi di una moderna scienza della follia e degli altri disturbi a essa apparentati. Dietro questo evento sta un cammino assai complesso, il quale, di nuovo, conferma l'organico intreccio tra tale scienza e la più generale scienza dell'uomo. Il termine scienza ricorre assai spesso nei testi dei médecins-philosophes e rivela in essi l'esistenza di un progetto teorico ben definito.


Si trattava, per dirla in breve, di accostare determinati fenomeni - quelli relativi ai modi d'essere che oggi chiameremmo devianti - secondo il rigoroso metodo empirico-analitico elaborato dalla rivoluzione intellettuale del Seicento. Per porre in essere tale programma occorreva, peraltro, soddisfare una 'precondizione' estremamente impegnativa che potremmo definire la 'naturalizzazione dell'uomo', anzi di tutto l'uomo. In effetti, solo in tal modo si sarebbe giustificata l'applicazione ai fenomeni umani (sia fisiologici sia patologici) del metodo di cui sopra, ritenuto riferibile solo alla realtà naturale (o, almeno, non metafisica). Una precondizione, come si è detto, estremamente impegnativa. Non è un caso che il grande rivolgimento epistemologico avvenuto nel Seicento avesse un po' trascurato l'universo umano. Se, in particolare, un sapere convincente relativo alle funzioni cognitive, affettive e comportamentali dell'uomo appare in certa misura assente nel 17° secolo è perché gli studiosi dell'epoca si trovavano dinanzi a due interpretazioni di tali funzioni parimenti insoddisfacenti: un'interpretazione che manteneva la credenza nell'esistenza di una sfera spirituale, letteralmente meta-fisica, dell'uomo, contrapposta a un'interpretazione materialistica che riconduceva tutte quelle funzioni a mere conseguenze di processi meccanici prodotti dalla macchina-uomo.
La prima interpretazione escludeva evidentemente a priori la possibilità di costituire una scienza empirica delle funzioni psicocomportamentali; la seconda, al contrario, la ammetteva, ma arrivava, dato anche il modesto livello delle conoscenze fattuali sull'organismo umano nel Seicento, a risultati del tutto inadeguati. Per questo motivo, un approccio nuovo e affidabile allo studio della follia e degli altri disturbi psicocomportamentali richiedeva preliminarmente una risoluta messa tra parentesi di qualsiasi referente metafisico, a cominciare dall'anima, e un'interpretazione radicalmente nuova della corporeità. In un certo senso questo secondo obiettivo risulterà il più importante. In effetti, solo la dimostrazione che l'organismo corporeo è una realtà autosufficiente e capace di generare da solo anche stati/processi 'superiori' poteva dare la necessaria credibilità al rifiuto filosofico dell'anima (e di altri enti empiricamente inverificabili) espresso dai matérialistes. Orbene, una parte del sapere settecentesco si propone esattamente questo secondo obiettivo, spesso (anche se non sempre) con l'intenzione di cogliere anche il primo. Gli studi dei tessuti, delle ghiandole e soprattutto del sistema nervoso (a questo proposito almeno una rapida menzione del grande scienziato svizzero A. von Haller, fondatore della neurologia e della fisiologia moderna, è d'obbligo) portano il sapere illuministico a delineare un'immagine in larga misura inedita del corpo umano. Esso appare infinitamente più dinamico e più complesso di quanto non si fosse pensato in precedenza. L'opinione che potesse produrre funzioni che un tempo erano state attribuite a facoltà spirituali si allargherà rapidamente: forse l'intero 'modo di essere e di agire' dell'uomo, e anche i suoi stati di salute e di sofferenza, potevano essere ricondotti alla dimensione corporea.
A questo punto, non può certo sorprendere che anche l'interpretazione della follia e dei fenomeni a essa in qualche modo avvicinabili (a ragione o a torto) muti profondamente. Ancora nel Seicento la follia era considerata spesso una condizione più spirituale che fisico-naturale. Molti la definivano un 'disordine' o una 'sregolatezza' da giudicare (e da condannare) in sede essenzialmente etico-sociale. Nel secolo successivo gli stessi disordini e sregolatezze vengono rubricati, almeno in sede interpretativa, in modo assai diverso. Forse questi stati o comportamenti vanno connessi a determinate condizioni del corpo, del 'nuovo' corpo ricco di forze e pulsioni empiricamente accertabili scoperto nel secolo dei Lumi. Forse il sapere più legittimato a occuparsi di certi problemi era il sapere medico. Nel 1744, il medico A. Le Camus pubblicava un libro intitolato La médecine de l'esprit. L'opera non è certo un capolavoro, ma il titolo appare per più versi emblematico. La scienza medica si sente ormai in grado di esaminare condizioni e problemi che un tempo sarebbero stati accostati da altri studiosi, e in altro modo.
Nella seconda metà del 18° secolo quella che potremmo definire la 'medicalizzazione della follia' guadagna strada rapidamente. Un potente ausilio viene fornito dallo sviluppo delle indagini sull'apparato nervoso e dalle prime ricerche sull'organo cerebrale. Nel 1802 il medico-filosofo P.-J.-G. Cabanis scriveva: "Ritornando ancora, a più riprese, sulle dissezioni di soggetti morti in stato di follia, e non stancandosi di esaminare il loro cervello, degli anatomisti esatti sono finalmente giunti, toccando i diversi stati di quest'organo, ad alcuni risultati abbastanza generali e costanti. Hanno trovato, per esempio, il cervello di una mollezza straordinaria in certi imbecilli; di una durezza contro natura in certi pazzi furiosi; di una consistenza assai disuguale, cioè secco e duro in un punto, umido e molle in un altro in persone colpite da deliri meno violenti" (Rapports du physique et du moral de l'homme). Si tratta di un passo estremamente significativo. Dopo essere stata considerata un disordine morale e poi la malattia di un generico e ambiguo esprit, ora questa stessa malattia viene non solo ancorata al corpo, ma collegata a un suo organo specifico, precisamente al cervello. Non basta. Il riferimento a Cabanis ci permette di accennare senza altri indugi a Ph. Pinel, che è considerato, insieme a V. Chiarugi e a J.-Ch. Reil - tutti vissuti tra il 18° e il 19° secolo -, uno dei padri fondatori della psicopatologia e della psichiatria moderna: Pinel è stato infatti amico di Cabanis e ne ha condiviso in larga misura l'interpretazione dell'uomo sia normale sia patologico. Anche per lui l'uomo è un essere essenzialmente materiale. Di conseguenza, tutte le sue condizioni di vita dipendono in ultima analisi dalle condizioni del suo organismo.
A lungo direttore dei manicomi parigini di Bicêtre e della Salpêtrière, egli poté verificare empiricamente la validità di certe tesi. Una parte della sua fama è legata, più che alla sua riflessione scientifica, a un gesto pratico: Pinel sarebbe stato il primo ad aver liberato i folli dalle catene con le quali erano spesso legati. Indipendentemente dalla sua piena attendibilità, questo gesto - e l'atteggiamento assunto in generale da Pinel nei confronti dei ricoverati nei suoi ospedali - ha un grande rilievo. Un rilievo che assume un preciso spessore teorico, in quanto il medico francese ha condensato il proprio pensiero in un volume organico, dedicato in gran parte proprio alla follia, e intitolato Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale ou la manie (1801; seconda edizione ampiamente riveduta 1809). Per comprendere appieno l'importanza storica dell'opera di Pinel (e anche di Chiarugi) occorre tener presente che, ancora nei loro anni, i sofferenti dei disturbi che chiamiamo neurocerebrali, mentali e psicocomportamentali erano considerati non tanto dei soggetti bisognosi di cure quanto dei 'diversi', classificati essenzialmente in rapporto al loro presunto grado di pericolosità per sé e per gli altri. Di conseguenza, i luoghi nei quali erano custoditi non solo avevano ben poco a che fare con degli ospedali, ma ospitavano gli individui più eterogenei: delinquenti, alcolizzati, malati contagiosi ecc. Da questo punto di vista, il primo merito di Pinel è di aver cercato di definire in modo più attento e specifico i soggetti affetti da determinati disturbi o difficoltà. Dopo Pinel, insomma, il folle non è più equiparato a un delinquente, e l'intervento richiesto dal primo non ha nulla a che fare con le misure da adottare con il secondo. È anzitutto per realizzare questo obiettivo che il direttore di Bicêtre ha medicalizzato la follia.



Tale medicalizzazione ha suscitato nel nostro tempo critiche assai aspre: sia perché solo pochi folli sarebbero dei veri malati, sia perché la prassi terapeutica voluta da Pinel avrebbe in sostanza conservato molti dei vecchi sistemi repressivi. Pinel è stato anzi considerato da qualcuno il promotore non già della liberazione bensì di una reificazione del folle, perfino più grave di quella prodotta dalle pratiche inumane in uso nei vecchi lazzaretti. Una più attenta disamina storica della questione non può non giungere a conclusioni assai diverse, e ciò non solo per il già notato sforzo pineliano di far uscire il folle dal magma eterogeneo di un'umanità distinta ed esterna rispetto a un determinato ordine sociale. In verità Pinel, pur sottolineando il carattere patologico della follia, tratta poi i folli in modi assai differenziati. Il traitement moral da lui più volte evocato include una gamma di ausili - non esclusi quelli che oggi chiameremmo i 'colloqui d'appoggio' - assai lontani dalla durezza repressiva che qualche studioso gli ha attribuito. Anche l'interpretazione della follia fornita dal grande medico francese è più complessa di quanto sia stato detto da alcuni. Per Pinel la follia è essenzialmente uno "smarrimento" (égarement) o una "perdita" (aliénation) di un'equilibrata pratica di vita. Certo, alcune di queste pratiche sono a vario titolo inique, e dunque l'allontanamento del folle potrebbe essere giudicato positivamente. Resta il fatto che una linea maestra della psichiatria moderna ha scorto proprio nel recupero da parte del folle di un rapporto ragionevole con la realtà l'obiettivo del proprio lavoro. In tale prospettiva, anche l'imposizione pineliana di una certa disciplina nell'esistenza quotidiana dell'égaré assume un significato diverso da quello indicato da certi esegeti. Ciò che Pinel si propone attraverso determinate procedure è di sollecitare nel folle il pur parziale risveglio dell'attenzione, dell'autocontrollo, del rispetto di sé e dell'altro. La riacquisizione di un ordine sia interiore sia interpersonale è per lui un traguardo terapeutico prezioso che, naturalmente nella misura del possibile, è indispensabile cercare di raggiungere.
Malgrado quanto si è detto sui meriti di Pinel, va senza dubbio riconosciuto ch'egli non ha adeguatamente colto l'intrinseca vaghezza del concetto di follia, ha inclinato più volte a privilegiare le 'lesioni' cerebrali nell'eziologia di certi disturbi, e ha contribuito a istituzionalizzare la differenza tra normalità e anormalità entro l'esperienza psicocomportamentale degli uomini. Alcuni suoi allievi o eredi, ben lungi dal riflettere criticamente su certi limiti della lezione pineliana, tenderanno talvolta ad accentuarli.

È soltanto molto più tardi, negli anni a cavallo tra Otto e Novecento e poi nel corso del Novecento, che il pensiero medico e psicoantropologico ha riaffrontato con adeguata radicalità alcune questioni concernenti il tema che ci interessa. Che cos'è propriamente la follia? Ha ancora un senso porsi tale domanda, e a chi va posta? Se è un disturbo o una sofferenza, qual è la sua natura e quale la sua origine? La si può definire in modo univoco, al singolare, oppure il termine si riferisce a una gamma di stati e di problemi assai diversi tra loro?
Le risposte a questi e ad altri interrogativi sono numerosissime e assai eterogenee. Né si può dire che il sapere contemporaneo si senta attualmente più vicino che nel passato alla scoperta di verità definitive. Sono semmai da registrare preliminarmente due dati: 1) il termine/concetto di follia è usato in misura estremamente ridotta dalle scienze mediche; 2) la problematica della follia è invece assai presente in una vasta area della cultura odierna. Le ragioni di tutto ciò sono abbastanza chiare. Da un lato, il sapere medico rigoroso richiede nozioni più puntuali e meglio verificabili della nozione di follia. Dall'altro, la coscienza contemporanea coglie nel concetto di follia qualcosa di estremamente importante: l'espressione di una 'differenza' che non riguarda soltanto il particolare stato psicofisico di determinati individui, ma si estende anche a più generali concezioni relative al benessere e al malessere in senso sia individuale sia sociale. Da quest'ultimo punto di vista, esaminare l'immagine e la valutazione della cosiddetta follia nel nostro tempo implicherebbe una ricognizione amplissima, che dovrebbe includere sostanzialmente tutte le aree dell'esperienza umana. Nell'ovvia impossibilità di operare tale indagine in questa sede, converrà limitarsi a una serie di notazioni introduttive a una riflessione e a un dibattito ancora aperti. In primo luogo occorre comprendere a fondo che il termine follia non designa alcuno stato universale-oggettivo. Esso è piuttosto un costrutto teorico, elaborato per caratterizzare determinati modi d'essere e di agire dell'uomo.
Da tale punto di vista 'follia' appare l'espressione sintetica di un giudizio formulato in diretto rapporto con principi relativamente convenzionali e assai mutevoli. Proprio perciò un comportamento descritto come folle in una comunità A può non essere considerato tale in una comunità B o C. Approfondendo questo tema, molti studiosi hanno sottolineato il carattere non tanto naturale quanto culturale della follia. Ciò non significa escludere a priori la possibile esistenza di componenti organiche in certi disturbi psicorelazionali. È anzi ovvio che alterazioni a vario titolo somatiche sono in grado di produrre tali disturbi. Ed è altrettanto ovvio che qualsiasi seria analisi di essi deve tener conto di tutte le dimensioni dell'essere/agire umano. In realtà l'approccio culturalistico (o meglio socioculturalistico) alla follia mira non certo a separare quest'ultima dal corpo, bensì a impedire una sua riduzione a una mera malattia del corpo medesimo.
In effetti, se è vero che la follia può essere principalmente l'esito in sede psicocomportamentale di una condizione patologica, è anche vero che in un elevatissimo numero di casi l'organizzazione neurocerebrale (e corporea in genere) del folle non presenta alcun tipo di lesioni o disfunzioni. Anche per questo le scienze mediche hanno preferito ridurre drasticamente l'impiego della nozione di follia nello studio della cosiddetta vita mentale dell'essere umano. Così, mentre i disturbi nevrotici, psicotici, schizofrenici ecc. (oltre, evidentemente, alle malattie propriamente neurocerebrali) sono rimasti, a ragione o a torto, all'interno dell'area controllata dalla medicina, la follia è potuta uscire da ben precisi recinti categoriali/disciplinari e usufruire di interpretazioni e interventi di natura non esclusivamente medica.
Chi è, in effetti, il folle e perché è definito tale? La prima risposta da dare a questo proposito è che anche all'interno di una stessa comunità il folle è un tipo umano tutt'altro che univoco. La follia è una figura concettuale così elastica e ambigua da poter comprendere un panorama di casi e di modalità estremamente vario. L'unico suo minimo comune denominatore pare essere, come si è già notato, la diversità: la diversità soprattutto in relazione a modelli d'essere e di agire assunti come i soli sani e normali. Per questo, 'folle' può essere chiamato, di volta in volta, l'individuo sistematicamente aggressivo e violento e l'individuo sistematicamente passivo e assente (quello di cui si dice che 'la sua mente è sempre altrove'), l'individuo solitamente definito caratteriale e l'individuo abitualmente e, in apparenza, immotivatamente trasgressivo. A tale riguardo non andrebbe mai dimenticata la frequenza con cui certe élite dirigenti hanno bollato come folli soggetti che semplicemente si rifiutavano di inserirsi nell'ordine sociale costituito, o preferivano una vita solitaria e precaria (si pensi ai cosiddetti barboni), o tendevano a disobbedire alle norme proprie della comunità di appartenenza. Non a caso una delle denominazioni oggi più diffuse per connotare i diversi non è tanto la parola follia quanto la parola devianza. Il folle, in effetti, è anzitutto colui che esce da una determinata via, che è poi semplicemente la strada percorsa dalla maggioranza.
Il folle è poi anche percepito come uno 'sbandato': di nuovo un termine che allude al reiterato allontanamento da un percorso giudicato il solo giusto. In fondo, anche la più antica parola delirio indicava non tanto manifestazioni scomposte e assurde quanto l'uscita da un certo 'solco' (in latino lira), di nuovo quello più familiare e accreditato dalla maggioranza degli uomini. Probabilmente è proprio questa costitutiva diversità, questa spesso clamorosa e ostentata propensione a tenersi lontani dalle regole della vita associata che ha spinto i gruppi di potere di tante comunità a condannare, e spesso a perseguitare, i folli. In prima approssimazione si potrebbe ritenere che tale comportamento repressivo e discriminatorio sia stato originato dal timore di rischi e turbative nell'ordine pubblico, e in buona misura tale interpretazione è corretta. Ma forse l'indagine critica dovrebbe spingersi oltre, arrivando a cogliere ragioni più profonde e inquietanti rispetto a quella ora evocata. Forse la durezza nei confronti dei folli, lo sforzo di allontanarli dallo spettacolo della vita visibile (attraverso la loro reclusione in istituti manicomiali) esprime un sottile e più o meno inconscio disagio da parte dei cosiddetti normali. È come se questi ultimi scorgessero nei folli l'incarnazione disinibita di desideri pulsanti, ma temuti e repressi, anche nella loro stessa coscienza di 'normali'. È, ancora, come se questi ultimi vedessero nei folli una libertà e delle potenzialità nello stesso tempo paventate e agognate. E allora del folle è meglio liberarsi, o nel senso forte di eliminarlo dalla vita pubblica recludendolo in luoghi appartati (ospedali, manicomi, case 'protette') oppure, quantomeno nel senso debole di definirlo un diverso, nel significato negativo di un inferiore. Il pazzo, infatti, nell'immaginario collettivo, è essenzialmente un 'povero diavolo', uno 'che non ce la fa': un esempio imbarazzante e fastidioso di inettitudine e, appunto, di inferiorità. A proposito di queste ultime espressioni, bisogna cominciare con il cogliere in esse l'elemento di verità che contengono.
In anni ancora recenti vari studiosi hanno considerato i cosiddetti pazzi essenzialmente come le vittime di un sistema socioculturale repressivo o, magari, come i rappresentanti (spesso inconsapevoli) di forme di vita alternative, protesi verso uno stato di distanziamento liberatorio da quel medesimo sistema. Bisogna dire che si tratta di una rappresentazione assai discutibile dei folli. Quando venga accostato in modo meno ideologico, l'universo della follia appare ben lungi dall'offrire prospettive o spiragli verso un nuovo mondo liberato e libertario. Al contrario, tale universo appare, in più sensi, chiuso, anzi autorecluso. La pazzia non è né libertà né la sua promessa o vigilia: è invece, spesso, prigionia, povertà relazionale, solitudine sociale.
Il folle è colui che non ha potuto attivare appropriatamente tutte le sue funzioni; è colui che non conosce adeguatamente sé stesso e, tantomeno, gli altri; è colui che non riesce a intrattenere relazioni attive e feconde con il mondo che lo circonda. Per queste ragioni il pazzo è realmente un 'povero diavolo' che 'non ce la fa' e di conseguenza egli ha bisogno di un aiuto, spesso non facile, da parte della società di cui fa parte. Il discorso cambia invece radicalmente se ci si interroga sulla 'genealogia' della condizione di insania. Qui, a questo riguardo, emerge tutta la dirompente validità dell'approccio socioculturale alla follia. Lo si è già notato più volte, ma ora occorre ripeterlo: la follia, nelle sue forme più standard e frequenti, deriva solo assai raramente da una mera patologia organico-endogena. Né il corpo né la mente sono necessariamente le sorgenti generative primarie della follia.
Folle, solitamente, non lo si è: lo si diventa. Lo si diventa dietro la pressione (o l'oppressione) dei più diversi fattori individuali e sociali. Una storia privata segnata da vicende dolorose o drammatiche (abbandoni, gravi mancanze affettive, reiterate violenze psichiche e/o fisiche), una storia di relazioni interpersonali e microsociali profondamente negativa, un contesto incapace di favorire lo sviluppo nell'individuo di funzioni positive e capace invece di isolarlo, frustrarlo, offenderlo in più modi: queste e altre vicende - vicende, come si vede, lato sensu culturali - sono nel maggior numero dei casi le sorgenti generative della follia. Il soggetto devia, si aliena, si disadatta quando la via giusta è chiusa e impraticabile; quando l'adattamento è reso impossibile dall'ostilità del mondo circostante. È allora che si impazzisce: soprattutto se l'organizzazione psicofisica interna del soggetto già in partenza soffriva di qualche carenza o fragilità. È stata proprio la graduale scoperta della centralità di questa genesi della follia che ha prodotto l'ipersensibilità della coscienza moderna nei confronti della follia medesima. Si è infatti compreso che la sua esistenza è indisgiungibile dall'esistenza di una patologia segretamente inscritta nelle pieghe della più specchiata normalità individuale e sociale. Insomma pazzia e ragione, ben lungi dall'appartenere a due mondi incomunicabili, sono state percepite per più versi congeneri, appaiono anzi nate e cresciute insieme, in quanto la pazzia è, per tanti aspetti, essenzialmente la rivelazione che qualcosa nella ragione (o nella civiltà da essa prodotta) non funziona sempre e ovunque in maniera corretta; e il primo a farne le spese è il singolo individuo, partito magari da personali condizioni di svantaggio.
In conclusione, le indagini più attente e aggiornate tendono anzitutto a sottolineare la palese genericità del concetto di follia già più volte notata sopra. Rilevano inoltre quanto diversi siano gli usi di tale concetto. In effetti, nel linguaggio ordinario follia può indicare anche solo il singolo atto anomalo o sorprendente rispetto a una norma. 'Sei pazzo' può significare non tanto che un certo soggetto è realmente e permanentemente immerso in una determinata condizione esistenziale, quanto che un certo suo atto o comportamento fuoriesce da certe attese. La stessa locuzione può invece esprimere una valutazione che investe (a ragione o a torto) l'essere/agire complessivo di quel soggetto. Le indagini di cui sopra tendono anche a respingere ogni sbrigativa identificazione della follia con malattie sia mentali sia organiche (per alcune di esse, ammesso che siano tali, si impiegano termini più specifici). Si orientano, invece, a concepire la follia come un 'processo' cagionato non solo e non tanto da un disturbo oggettivo-fattuale interno a un soggetto sofferente, quanto da un'interazione squilibrata e difficilmente sopportabile tra esso e il suo contesto. Condizioni prolungate di carenze materiali e affettive, di isolamento esistenziale, di stress sociale, di mancanza di scopi e fini ragionevoli e gratificanti minano duramente la struttura di ogni personalità. La diversa incidenza dei relativi contraccolpi è connessa alla diversa resistenza dell'Io che ne è vittima. Non sorprende che una parte del sapere contemporaneo esplori con particolare impegno soprattutto le complesse relazioni istituibili tra la pressione potenzialmente patogena dell'ambiente e l'essere/agire dell'Io.
In questa prospettiva, a partire dagli anni Sessanta del 20° secolo tutto un settore degli studi psicologico-psichiatrici, definito con qualche discussa approssimazione 'antipsichiatria' (basti qui ricordare i nomi di Th. Szasz, R. Laing, D. Cooper e F. Basaglia), ha enfatizzato in modo estremo, radicale, l'origine primariamente sociale di molte delle cosiddette malattie mentali, ivi compresa la follia. Indipendentemente da un giudizio su tale orientamento, esso ha alimentato in maniera vigorosa una rinnovata riflessione sulla natura della follia e sulla sua dipendenza da criteri di valore non solo genericamente culturali, ma anche propriamente politici. Se talune conclusioni sono apparse ad alcuni un po' sbrigative (a cominciare dall'affermazione di Szasz che la malattia mentale è un 'mito'), indubbiamente il movimento antipsichiatrico ha riproposto un dibattito di cruciale importanza non solo sulla follia in sé e sui suoi rapporti con la razionalità e la 'normalità', ma anche sui modi di trattare i soggetti tradizionalmente considerati folli. La critica delle istituzioni manicomiali è solo uno dei fronti sui quali gli antipsichiatri - o forse meglio i nuovi psichiatri - si sono impegnati più intensamente e con i risultati più significativi. La tesi di fondo sostenuta da tale orientamento è costituita da due assunti. Il primo ripropone, ma con particolare forza e passione, la natura non fisico-organica ma socioculturale di molte malattie mentali (a cominciare proprio dalla follia), che dunque non dovrebbero neppure esser chiamate tali. Tale interpretazione, in sé non nuova, di determinati disturbi e sofferenze viene poi precisata e sviluppata in una prospettiva lato sensu politica. Sotto il profilo socioculturale, il cosiddetto folle risulta essere ora un più o meno potenziale avversario di una ben precisa ideologia egemone, ora un soggetto cresciuto in modo particolarmente anomalo entro l'universo dei poveri e dei diseredati, dei diversi e dei 'dannati della terra'. Un soggetto che proprio per ciò appare di volta in volta un peso nello sviluppo tecnologico-economico del sistema, o (come si è accennato sopra) la fastidiosa e imbarazzante testimonianza che, nella 'società opulenta' o nella società ad 'amministrazione totale' (H. Marcuse), non tutto funziona nel modo disciplinato, razionale ed efficace che ci si sarebbe aspettati. Il secondo assunto cui si è alluso riguarda invece i luoghi e i modi della cosiddetta cura o tutela dei folli. Una delle più influenti e clamorose denunce culturali della realtà manicomiale è il celebre saggio Asylums (1961) di E. Goffman.
Successivamente vari altri studiosi - in Italia con particolare vigore Basaglia - hanno aspramente criticato non solo le violenze palesi commesse nei manicomi, ma la validità scientifico-clinica della stessa organizzazione manicomiale. A questo riguardo, si è osservato che i principi di disciplina autoritaria, di equiparazione coatta tra sofferenti di disturbi assai diversi in sede terapeutica e, ancor più, la recisione dei rapporti tra questi sofferenti e la vita vissuta degli affetti e delle relazioni sociali, tutto questo e altro fa del manicomio un'istituzione assolutamente negativa per la cura e la stessa sopravvivenza dei sofferenti. Di qui è scaturita la richiesta (anche in Italia) di chiudere i manicomi sostituendoli con più appropriate forme di assistenza sociale.
Non è questa la sede per illustrare appieno una vicenda, per certi versi ancora aperta, che pur vede i folli protagonisti, troppo spesso indiretti e inascoltati, di un dibattito scientifico e civile estremamente complesso. E qui è necessario anche concludere il discorso sul concetto di follia nei suoi aspetti storico-teorici generali: un discorso che più di altri potrebbe un giorno richiedere aggiunte e integrazioni, se è vero che la riflessione sulla follia coincide in buona misura con il proposito di mettere in discussione le presunte 'normalità' del vivere razionale, di allargare i confini della comprensione del cosiddetto 'diverso' e di esplorare i lati che restano ancora enigmatici e oscuri (ma, talvolta, semplicemente occultati e rimossi) dell'esistenza umana.



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