venerdì 11 marzo 2016

I PANINARI



Il "movimento" paninaro nacque nei primi anni ottanta e fu piena espressione dell'ondata di riflusso e disimpegno che seguì il turbolento e politicizzato decennio precedente. Lo stile di vita dei paninari rifiutava di occuparsi degli aspetti angoscianti dell'esistenza e, più in generale, di ogni forma di impegno sociale: l'obiettivo primario dei paninari era godersi la vita senza troppe preoccupazioni e in tal senso si trovavano perfettamente a loro agio nell'adeguarsi ai modelli del cinema statunitense di consumo e ai consigli degli spot pubblicitari trasmessi dalle televisioni commerciali. I prodromi del fenomeno si osservarono a Milano in un periodo storico di assestamento della valuta italiana e di importanti segnali di ripresa economica, cui fecero seguito un relativo benessere e maggior disponibilità di merci.

Con l'espansione della moda, fu naturale la formazione di gruppi e comitive, ciascuna dotata di una propria "base" costituita da un bar e da un relativo territorio nel quartiere; gruppi comunque aperti le cui frequentazioni potevano raggiungere anche l'ordine del centinaio. Il sabato pomeriggio e la sera erano il luogo deputato al ritrovo in massa con successivo trasferimento in una delle discoteche che ben si prestavano a sfruttare questo fenomeno. Alcuni di questi gruppi, quelli più importanti, disponevano di "capi", ovvero leader di grande popolarità locale, solitamente dotati di soprannome.

I locali di frequentazione avevano periodo di vita effimero o mutavano nome e ragione sociale in tempi brevi, in base alla tendenza ed il gusto dei frequentatori.

In breve tempo i paninari divengono fenomeno di costume acquistando una discreta notorietà a livello nazionale.

Nel vestiario e per gli accessori erano d'obbligo la griffe e la sua autenticità, quale indice di ricchezza familiare reale o presunta. Proibite rigorosamente le imitazioni e le merci contraffatte pena il disconoscimento sociale con appellativo di gino o truzzo, quindi miserabile.

Alla moda seguì la fioritura di riviste dedicate, tra esse "Il Paninaro", con una tiratura che raggiunse 100.000 copie cessando le pubblicazioni col numero 48 a dicembre del 1989. Seguono Wild Boys - tormentone ed inno del movimento dall'omonimo successo musicale dei Duran Duran- Zippo Panino, Il Cucador, Preppy e la testata femminile Sfitty - dal gergale sfitinzia, ragazza.

La moda paninara si esaurì a Milano tra il 1987 e il 1988 e nel resto dell'Italia di lì a poco, sostituita da altre sottoculture che riflettevano la fine di un decennio consumato all'insegna dell'edonismo e della superficialità. In generale può dirsi come la moda dei paninari sia stata legata ai giovanissimi delle scuole medie inferiori e superiori. Perlomeno, a Milano i paninari erano quasi totalmente assenti nelle università. L'intestazione sulla testata principale, Paninaro, inizialmente I veri galli, accomiata il periodo d'uscita di scena con Pochi, duri, giusti.

Come per qualsiasi moda passata, specialmente a Milano si tengono serate di revival presso discoteche, dove i frequentatori sono dei reduci oramai adulti, esortati a presentarsi con indumenti della moda dell'epoca.

Lo stile si diffuse al di fuori della Lombardia (dapprima nelle zone direttamente confinanti), mescolandosi a tendenze comunque già in atto in altre città.

A Bologna, per esempio, già da tempo si chiamavano zanari i gruppi di ragazzi - omologhi dei paninari milanesi - che si ritrovavano regolarmente in centro al bar Zanarini, poco distante dal palazzo dell'Archiginnasio, mentre a Verona erano curiosamente definiti bondolari (dal termine "bóndola", che in dialetto veronese indica la mortadella, cibo povero da mettere nel panino per recuperare i soldi spesi nel costoso abbigliamento firmato).

A Roma vi erano i tozzi. Questi ultimi erano abbigliati con piumino Moncler, Millet o Ciesse Piumini, giacca in pelle da aviatore di marca Schott, pantaloni jeans Levi's "Mod. 501", camicia dello stesso tessuto (tutti rigorosamente blu scuro), cintura da mandriano dalla vistosa fibbia El Charro, scarponcini da boscaiolo Timberland (molto utilizzate anche le Clarks) e, caratteristicamente, incedevano con le punte dei piedi all'infuori, sembrando l'antitesi della ricercatezza degli amici milanesi. Come l'aggettivo inglese tough, il termine "tozzo" dava l'idea di prestante, gagliardo, ma anche di rozzo, prepotente. L'abbigliamento di molti tozzi ricordava l'uniforme dei detenuti nelle prigioni americane, portato alla notorietà dalle interpretazioni "carcerarie" di attori come Clint Eastwood e Burt Reynolds.

Il fenomeno fu "importato" anche a Napoli dove, sul finire degli anni ottanta, era piuttosto frequente sentir parlare dei chiattilli (l'origine del termine fa riferimento alle piattole). Appartenenti in gran parte ai ceti benestanti, si riunivano nei pressi dei più importanti licei del centro, in particolare il Liceo classico Umberto I, il Pontano e il Mercalli, tutti nel quartiere Chiaia. I chiattilli imitavano i paninari soprattutto per atteggiamenti e abbigliamento: immancabili l'occhiale Ray-Ban e la cintura firmata El Charro. Tra i luoghi di ritrovo più noti c'erano piazza Amedeo e piazza San Pasquale, nei pressi del My Way, la prima cornetteria notturna della città (ha aperto nel 1989). Erano anche gli anni d'oro della discoteca La Mela e di altri rinomati locali della zona. I chiattilli erano poi soliti "emigrare" in massa nelle stesse mete estive: tra le preferite c'erano le isole di Panarea, Capri, Ponza e più avanti la greca Paxos. Il fenomeno si è poi ridimensionato negli anni novanta: i "fratelli minori" dei chiattilli già da tempo si erano dati come punto di ritrovo i locali alla moda della zona flegrea, su tutti l'Arenile di Bagnoli.
Il gergo dei paninari è modellato sul linguaggio giovanile dei giovani milanesi, spesso antitetico agli omologhi più coloriti e triviali delle altre regioni, in un rifiuto dell'iperbole e in un ricorso al prosaico. Per fare un esempio, "Sono fuori come un citofono... come un'antenna..." per intendere uno stato confusionale da stanchezza.

Sono frequenti le abbreviazioni (es. Le Timba, Faccio il week a Curma, La squinzia ha imposto il cappuccio), talora combinati agli accrescitivi (es. Panozzo), così come i continui ricorsi, spesso maccheronici, all'inglese (es. Una sfitinzia arrapation, Very original, Il mio boy, Arrivano i ciàina, deformazione dell'inglese chinese, cinese ovvero militante di sinistra o più esteso, appartenente ai gruppi antagonisti) o ad altre lingue (I sapiens, Mi gusti mucho).

Merita far presente che il cosiddetto "linguaggio dei paninari" non milanesi è stato spesso profondamente influenzato dalle invenzioni degli autori delle riviste paninare e dal personaggio comico televisivo di Enzo Braschi, ritenuto (a torto) un "ideologo" del movimento. Nella realtà ben pochi utilizzavano quello slang, divenuto, negli anni, uno dei tanti stereotipi sulle culture giovanili.

Non improbabile da questo processo, una diffusione nazionale di alcune espressioni triviali meneghine, esempio tangibile quelle relative alla sessualità, sostituendo via via quelli tradizionali locali.

La squinzia è definibile come una ragazza smorfiosa, poco intelligente, civettuola, spesso patita della moda. Secondo la definizione originale (del 1986, scritta da Lina Sotis), la squinzia è: "La categoria femminile più diffusa del momento. Hanno tutte un imprinting, quello televisivo degli show della seconda serata, vestiti, toni di voce, lunghezze, cortezze e tacco a spillo: nella squinzia tutto, tranne il cervello, è esagerato. La squinzia è quella che vorrebbe beccare di più e becca di meno, è l'eterna tacchinata e mai presa." (Lina Sotis)

Il paninaro coltivava una maniacale attenzione per il proprio stile, rigorosamente di marca. L'abbigliamento del paninaro prevedeva giacconi imbottiti (es. Ciesse Piumini, Moncler, Henry Lloyd), stivali da mandriano (es. Frye o Durango), le prime scarpe da barca Docksides by Sebago, & Sperry Topsiders, jeans (es. Armani, Levi's, Uniform, Rifle in velluto millecoste, Avirex, Americanino, Stone Island), tra le felpe (American System, Best Company), maglioni (es. Marina Yachting), cinture di pelle (es. El Charro), camicie a quadri (es. Naj-Oleari), calzini decorati a rombi della Burlington per i ragazzi, colorati della Naj-Oleari per le ragazze, scarponcini (es. Timberland), Celini oppure scarpe sportive (Superga colorate, Vans rigorosamente senza stringhe e, più tardi, New Balance e Nike).

Vi erano alcune marche di moto solitamente associate al mondo dei paninari: ad esempio, inizialmente, i motocicli Zündapp 125 (con scritta "175" sulla fiancata per andare in autostrada), successivamente Laverda con motore Zündapp, e Gilera KZ. Il modo di vestire paninaro variava da città a città; così mentre a Milano si usavano le felpe Best Company, a Roma andava per la maggiore il jeans marchiato Americanino. Altri capi di abbigliamento erano il berrettino delle armate americane sudiste e i guanti in pelle scamosciata Ocean Star, e ancora occhiali rigorosamente Ray-Ban e Vuarnet di svariati modelli, dai Wayfarer di Tom Cruise in Risky Business - Fuori i vecchi... i figli ballano del 1983 ai Caravan di Top Gun. E ancora, camicie Controvento e tutto l'abbigliamento di C.P Company e Stone Island. Anche i negozi erano un culto: ad esempio, a Roma la meta era Energie di via del Corso, mentre a Milano si andava al Pharmacia di via Durini. La moda dei paninari nasce in ogni caso partendo dal fondo. Il primo indumento comune ai primi paninari furono gli scarponcini di lavoro in pelle scamosciata della Timberland, seguiti poi dal giubbotto da aviatore bomber della Avirex, poi dal giubbotto di jeans foderato di finto pelo all'interno della Levi's, dal Moncler, dal Ciesse Piumini, da altri tre tipi di giubbotti da aviatore (Schott, bomber canadese e RAF), dalla giacca da vela Henri Lloyd. Per circa tre anni impazzarono anche le toppe sui jeans di Naj-Oleari e Fiorucci, così come le sue borse e parecchi accessori per le ragazze. Il negozio di El Charro in via Monte Napoleone divenne una sorta di paradiso degli acquisti, importando dozzine di indumenti in stile texano, prodotti principalmente dalla Lyntone Belts Inc. (Edmond - Oklahoma). Altri negozi di riferimento erano Di Segni e Conforti.

Il vero feticcio dei paninari era il cibo consumato presso alcune catene di ristoranti a ristorazione rapida, che proprio in quegli anni iniziano a diffondersi in tutta Italia. A Roma, ad esempio, la nascita del primo ristorante McDonald's, nel 1986, a Piazza di Spagna, fu un evento memorabile per i paninari della capitale italiana. A Milano, al contrario, la maggior parte delle varie compagnie di paninari si ritrovavano in normali bar sparsi in tutta la città, e le decine di ristoranti a ristorazione rapida di Burghy (ad eccezione di quello di piazza San Babila e di Corso Re Vittorio Emanuele II), Wendy's e King Burger (da non confondere con Burger King approdato in Italia solo nel 1999), le due cosiddette "seconde scelte", venivano poco frequentati dagli appartenenti a questa sottocultura giovanile.

Quella dei paninari è stata la prima sottocultura italiana a poter eleggere i propri idoli musicali attraverso la televisione. La rete televisiva Videomusic e il programma di Italia Uno DeeJay Television diffondevano i videoclip di alcuni gruppi e solisti pop, in gran parte britannici, su cui conversero i gusti dei paninari italiani: sorse, ad esempio, un'agguerrita competizione tra gli ammiratori dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. Parliamo comunque di una fase dove i suddetti autori abbandonavano la New wave, cara agli altri gruppi antagonisti. Tra gli altri musicisti preferiti dai paninari c'erano gli Wham!, i Simple Minds, i Frankie Goes to Hollywood, Boy George e naturalmente i Pet Shop Boys, che pubblicarono addirittura un brano, chiamato Paninaro. Il paninaro, solitamente, non amava la musica italiana, sebbene brani in inglese di Tracy Spencer, Taffy, Gazebo ed Albert One fossero scritti da Claudio Cecchetto.



I gusti cinematografici dei paninari si orientavano sulle pellicole campioni d'incasso statunitensi: erano molto apprezzate, ad esempio, le saghe di Rocky, Rambo ed il romantico d'azione Top Gun. Nel 1986 venne girata una pellicola tratta da un libro dell'adolescente milanese Clizia Gurrado dal titolo Sposerò Simon Le Bon, che descriveva gli sforzi della protagonista (che vive nel periodo di massima esplosione del movimento paninaro) per incontrare il suo idolo Simon Le Bon. Un altro film italiano ispirato al fenomeno - e figlio del programma televisivo Drive In - è Italian Fast Food, il quale vedeva come punto di snodo delle sue vicende un fast food nel centro di Milano, frequentato da varia umanità.

Giubbotti Schott e Moncler, jeans Americanino, scarpe Timberland, anche una vecchia moto Zundapp («Uno dei tre esemplari ancora in circolazione a Milano») per ricordare i bei tempi che furono, gli anni Ottanta: «Anni di disimpegno, voglia di divertirsi ma anche un’epoca dove c’era grande fiducia nel futuro», dice Marco Beltrami, l’organizzatore del raduno. Beltrami ha aperto la pagina Facebook “Paninari la company”, 1.400 iscritti: «Tanti reduci di quei giorni, oggi sulla cinquantina. Ma anche diversi ventenni che vivono nel culto del movimento paninaro. Ci ritroviamo due volte l’anno, qui in San Babila, anche se i luoghi di aggregazione dei paninari non esistono più». E cosa fanno gli ex paninari quando si ritrovano? «Prima di tutto non siamo ex, siamo ancora paninari anche se abbiamo un’età adulta. È l’occasione per rispolverare il linguaggio di quegli anni, di scambiarci capi d’abbigliamento e altri oggetti che ci riportano indietro e negli anni. E testimoniare che, al contrario di quello che in tanti dicono, non fu una moda effimera».

«Che cosa resterà di questi anni Ottanta, delle nostre voglie e dei nostri jeans». Così cantava Raf al festival di Sanremo del 1989, venti milioni di spettatori e Beppe Grillo a far da mattatore. Tra un week-end a «Curma» e un «panozzo» al Burghy, quel che di sicuro è rimasto scolpito nella memoria collettiva sono i paninari, simbolo degli anni spensierati della «Milano da bere». Più che seguire una moda, si portava una divisa: piumino sgargiante Moncler, Timberland d’ordinanza, jeans rigorosamente Levi’s o Americanino, camicione a scacchi e cinturone.

Se Moncler, brand del lusso made in Italy, al suo debutto in Borsa ha incassato più di un miliardo di euro, non tutti gli altri «irrinunciabili» dell’epoca se la passano bene. Non sono sopravvissuti El Charro e Americanino, travolti dalle turbolenze finanziarie della proprietaria Meta Apparel e messi all’asta tempo fa dal tribunale di Arezzo. Le fibbie decorate da bufali, aquile e cowboy non piacciono più: l’azienda tentò di rilanciarsi, riproponendo i cinturoni tanto amati in passato, ma senza ottenere i risultati sperati. Non è andata meglio neppure ai jeans dei due pellerossa: dopo un disastroso 2011, con perdite per più di venti milioni di euro, l’azienda ha chiuso.

Tra gli oggetti del desiderio dei fan di Simon Le Bon, borse, quaderni, felpe e cartelle firmate Naj-Oleari, società fondata nel 1916 dal chimico pavese Riccardo Naj-Oleari. Le fantasie sgargianti conquistarono il cuore dei ragazzi e il portafoglio dei genitori: in cinque anni il fatturato della società fu quasi sestuplicato, passando dai sei miliardi di lire del 1985 ai trentacinque del 1990. Poi la società milanese subì un drastico calo delle vendite, che portò alla vendita del marchio al gruppo biellese Bottega Verde.
Non tutte le speranze sono perdute per i calzettoni a rombi dal classico motivo scozzese: anche se nessuno si sognerebbe più di sfoggiarli come status symbol, resistono nei cassetti. Il brand Burlington fa parte del colosso della calzetteria Kaiser-Roth Corporation, che a sua volta appartiene al gruppo Golden Lady. Niente più vendita online, ma si possono ancora trovare nei negozi.

Per non sbagliare, meglio indossare una felpa Best Company, il marchio italiano di moda creato negli anni Settanta dal designer Olmes Carretti: maglioni colorati e simolo verde con pino ben in vista. Finiti gli anni Ottanta, finita la passione per le felpe, la società fu venduta al gruppo Fin.part, poi fallito, che a sua volta la cedette a Cisalfa, ora unico distributore autorizzato.
C’è anche chi è riuscito a sopravvivere alla moda, come Stone Island, altro brand prescelto dalla galassia paninara: il marchio ha raddoppiato il fatturato negli ultimi cinque anni e ora è sul mercato. Secondo le indiscrezioni, sarebbero interessati Only the Brave di Renzo Rosso e il colosso americano Vf Corporation, che controlla anche The North Face, Eastpak, Vans e pure Timberland, altro nome celebre del periodo. Marchio creato nel 1965 da Nathan Swartz, ex calzolaio del New England specializzato in stivali impermeabili da caccia, nel 1980 fece il suo debutto sul mercato internazionale, con un gran successo in Italia, dove le «Timbe» non sono mai passate di moda, anche nessuno si sognerebbe più di sfoggiarle in discoteca.

Anche se qualche cosa è rimasto, sarà difficile veder tornare i ragazzi del primo Burghy di piazza San Babila. Forse è meglio così, d’altra parte nemmeno la catena di fast food Burghy esiste più: nel 1996 la rete di ottantotto ristoranti italiani venne inglobata dal colosso statunitense McDonald’s.
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