giovedì 18 giugno 2015

GIOVANNI DALLE BANDE NERE

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Il sei aprile dell’anno 1498 venne alla luce il piccolo Ludovico de’ Medici, figlio di "Giovanni di Giovanni di Pierfrancesco de Medici, e di Caterina, figlia di Galeazzo Sforza duca di Milano, padrona allora d'Imola e di Furlì" .
Il padre, Giovanni detto “Il popolano”, era nipote di Lorenzo, discendente del ramo secondogenito della celebre casata; la madre, invece, oltre a vantare la discendenza milanese (che spiega anche la scelta del nome, in onore di Ludovico il Moro), era vedova di Girolamo Riario (ucciso durante la congiura del 14 aprile 1488).
Il piccolo fu tenuto per due anni nascosto al ramo milanese, dato che lo zio materno, Ludovico Sforza, aveva usurpato il ducato alla morte del fratello Galeazzo.

La sorte prese da subito a bersagliare il bambino: la morte del padre, avvenuta nella notte tra il 14 ed il 15 dicembre di quell’anno, lasciò campo libero a Cesare Borgia (il “Valentino” di machiavelliana memoria), che a sua volta costrinse la madre Caterina a lasciare Milano.
Fuggita a Firenze, decise di cambiare il nome del figlio in Giovanni, in ricordo del padre.

A Firenze, mentre il figlio cresceva nella villa di Castello, Caterina tentò di impartirgli un’educazione letteraria; ben presto, però, il giovane rivelò un carattere orgoglioso, acceso e ribelle, ed una spiccata predisposizione per mansioni considerate più virili: "fiero di natura, poco apprezzando le lettere, volse infino da' primi anni l'animo solo al cavalcare, al notare e ad esercitarsi della persona in tutti quei modi che al soldato convengono".

Ma Giovanni era destinato a soffrire, ed a conoscere molto presto la morte, fedele compagna di vita. All’età di undici anni, il 28 maggio 1509, perse anche la madre, rimanendo così completamente solo.
Fu suo tutore da quel momento Jacopo Salviati, marito di una delle figlie di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia. E sembra che abbia avuto il suo bel daffare, se è vero che il ragazzo si lanciava assai spesso in accesi duelli personali, mettendosi così in luce nella città d’adozione. Conobbe così il sangue, ed il furore dello scontro.

Nel 1516 Giovanni sposò la figlia del suo tutore, Maria di Giacomo Salviati, nipote per parte di madre di Lorenzo il Magnifico; e da tale unione - che vedeva riuniti i due rami della famiglia - nacque Cosimo (poi Cosimo I, primo granduca di Toscana). Tuttavia, visto che Firenze non garantiva grandi possibilità di mettersi alla prova, il ragazzo decise di trasferirsi ancora, stavolta a Roma, al seguito dello zio di secondo grado, nel frattempo divenuto papa col nome di Leone X de Medici, che fece anche da padrino al bimbo in cui erano riposte le speranze di successione legittima della famiglia Medici.

Dopo aver rivelato anche nella “Città Eterna” le spiccate capacità nel menar le mani, ebbe finalmente occasione di affrontare il “battesimo del fuoco” nel mestiere delle armi nel corso delle due guerre contro Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino, tra il 1516 ed il 1517. Al diciottenne Giovanni fu assegnato nel corso dei primi scontri il comando di 100 cavalli "leggeri" (turchi e spagnoli), con i quali si distinse per l'ardimento e le azioni sul campo: nacquero allora, quasi in sordina, quelle che sarebbero diventate le "Bande Nere".
Durante la seconda guerra, inoltre, il contingente a sua disposizione fu ulteriormente rafforzato, mentre s’accresceva la fama di cui godeva, specie dopo esser riuscito a sconfiggere la cavalleria leggera nemica, al comando dell'albanese Andrea Bua (al quale sembra avesse anche strappato la mazza, tenendola come trofeo).

Il conflitto terminò nel corso del 1517, o per alcuni nel 1518. Ma comunque, dopo aver assaporato il fragore della battaglia, Giovanni fu costretto dagli eventi ad aspettare un periodo che dovette sembrargli interminabile. Solo nel 1521, infatti, le nuvole di guerra tornarono ad oscurare l’orizzonte.

“La Francia, infatti, doveva cercare di rompere l’accerchiamento dei domini asburgici, mentre da parte imperiale si riteneva giunto il momento di strappare all’avversario il Milanese e la Borgogna”. Quell’anno, infatti, gli imperiali cacciarono i francesi da Milano e la cavalleria leggera del Medici ebbe nuovamente modo di mettersi in luce. L'imperatore aveva, infatti, sottoscritto insieme a Papa Leone un'alleanza segreta, la quale prevedeva l'acquisizione allo Stato Pontificio di Lucca e Ferrara, e la restituzione di Parma e Piacenza.
Di nuovo, Giovanni guidò in battaglia la cavalleria leggera; la sua perizia gli consentì in seguito di ricevere la nomina di capitano e di riuscire a bloccare le ripetute scorrerie francesi del "capitan Carbone" (Thomas de Foix, signore di Lescun, o Jean de Monpezat, entrambi soprannominati "Carbone") ai danni delle truppe pontificio-imperiali.

Giovanni riuscì a proteggere le retrovie dell'esercito imperiale, dal momento in cui era cominciata la ritirata dall'accampamento posto tra Ribecco e Pontevico verso Gabbioneta, nella fortezza di Pontevico. L'esercito francese non seppe sfruttare questo vantaggio, anche a causa, si disse, della testardaggine di Odet de Foix, visconte di Lautrech e maresciallo di Francia.
Le truppe imperiali seppero invece approfittare della disorganizzazione che dominava il campo francese e, grazie all'iniziativa di Francesco Ferdinando d'Avalos marchese di Pescara, attaccarono Milano "ove si combattè per ore quattro con molta lode del signor Giovanni”. Il ragazzo quindi continuò a raccogliere consensi, nonostante si dimostrasse decisamente irrequieto e spericolato nelle sue azioni, senza rifiutare mai lo scontro col nemico. E dimostrò questa caratteristica allorché i francesi, ritirandosi, si acquartierarono su una sponde dell'Adda. Giovanni accampò i soldati sulla riva opposta. Poi, dopo aver organizzato alcune chiatte per trasportare i fanti al comando del conte Paolo Onofrio di Montedoglio, attraversò con i suoi cavalleggeri il fiume a nuoto, attaccando immediatamente battaglia nell’attesa dell'arrivo dei rinforzi. Dopo la fuga del nemico, potè alfine entrare a Milano, evacuata dal nemico.
Ma non prima di aver sconfitto e respinto anche i veneziani.

Giovanni conosceva l’arte della sorpresa, e l’importanza della velocità. Rese lo sparuto numero di cavalieri al suo comando un’unità d’elìte, capace di terrorizzare l’avversario, e di apparire, inattesa e temuta, in ogni angolo e settore dello schieramento avversario; ma soprattutto, mostrò una spiccata capacità di innovare tattiche e manovre delle proprie Bande, al punto che alcuni studiosi ritengono oggi di potergli attribuire l’invenzione dei “dragoni”, archibugeri a cavallo capaci di combattere una volta smontati a terra (nonostante il termine fosse coniato in epoca successiva, quando conobbero grande diffusione, specie nell’esercito francese).
La compagnia di ventura ai suoi ordini, comunque, non furono mai molto numerose: anche nei loro momenti migliori non superarono le 4000 unità. A Caprino, contro gli Svizzeri, combatterono 200 cavalieri pesanti, 300 leggeri e 3000 archibugieri, a Pavia 50 cavalieri pesanti, 200 leggeri e circa 2000 fanti, a Governolo Giovanni attaccò gli imperiali con 400 archibugieri, che furono trasportati a cavallo sul campo di battaglia da altrettanti cavalieri.
Le Bande erano costituite quasi interamente da italiani, per lo più toscani e romagnoli, con la probabile aggiunta di lombardi durante il periodo di combattimenti nell’Italia del nord. L’Appennino tosco-emiliano, in particolare, forniva uomini che costavano relativamente poco ed avanzavano, almeno all’inizio della carriera, poche pretese.

Nel 1521, dunque, un altro avvenimento cambiò radicalmente la situazione: improvvisamente venne a mancare papa Leone X – sostituito dall’ex-precettore fiammingo di Carlo V, designato nuovo pontefice col nome di Adriano VI (1522-1523) - ed il legato pontificio Giulio de' Medici (il futuro Clemente VII) si allontanò da Milano insieme a Giovanni, suo cugino di terzo grado. Da allora, si dice, i suoi armati presero a chiamarsi "Bande Nere": da quando, cioè, decisero di vestirsi in lutto perpetuo, tingendo le armature di nero.
In questo modo, inoltre, potevano nascondersi nel buio, e assaltare di sorpresa.

La morte prese per poco tempo il posto della guerra, nei pensieri di Giovanni; presto, il "Gran Diavolo" fu nominato generale della Repubblica di Firenze allo scopo di respingere l'assalto a Siena del duca di Urbino. E questi, prontamente, dovette abbandonare i suoi progetti.

Il ragazzo, è bene chiarirlo, risponderebbe oggi al nome di mercenario. Un mercenario sì, combattivo e spietato, coraggioso e brillante, ma pur sempre un mercenario. Un uomo che sapeva tradire.
Indispettito da difficoltà connesse alle paghe dovute dagli imperiali di Carlo V - e forse istigato in tal verso dallo stesso cardinale Giulio de' Medici - mentre si trovava a Fidenza con i suoi uomini, decise così di passare al versante francese, accolto dall’incontenibile sollievo di Francesco I, re di Francia, che probabilmente ben conosceva tutti i problemi che le Bande Nere avevano creato alle sue truppe. E le motivazioni della scelta furono ben rinsaldate dalla prodigalità dei nuovi committenti: "fu conchiusa la condotta sua col re di Francia di quattro mila fanti, quattrocento cavalli e otto mila scudi di provvisione, con allegrezza grande de' francesi e de' soldati suoi".

Giovanni dovette imparare a conoscere gli aspetti più meschini ed ignobili di quel mercato di morte che è la guerra, quando, per unirsi ai francesi, dovette attraversare il Pò, ed essendogli stati rifiutati alloggio e vettovaglie nei pressi di Parma, terminò il saccheggio di Busseto.
Giunto a Pavia per ricongiungersi coi francesi, iniziò subito i combattimenti; ma gli imperiali si dimostrarono un avversario tenace, e per l'ennesima volta respinsero l'esercito del Valois-Angouleme verso Milano, dove le forze di entrambi gli schieramenti cominciarono a prepararsi allo scontro presso la Bicocca – avvenuto il 27 aprile.

Le Bande uscirono per prime, quel giorno, per osservare i movimenti del nemico.
E questo fecero, per poi lanciarsi però all’assalto del nemico. Riuscirono a far indietreggiare gli imperiali, furiosamente; e poi, anche con l'aiuto del signore di Lescun, arrivarono ad assaltare l'accampamento dello stesso Prospero Colonna o, secondo altri, di Antonio de Leyva (governatore di Milano e tra i più fedeli generali dell'imperatore).

Ma gli altri capitani francesi non eguagliarono questi successi. Il nemico rimase sul campo, ed i francesi dovettero ritirarsi; a coprirli, rimasero in retroguardia le Bande di Giovanni.

Il destino degli sventurati cui toccava la sorte di mercenario era però ripetitivo, e non conosceva bandiere. Come già nel campo tedesco, le paghe presero ad esaurirsi, e continuarono a farlo; le truppe cominciarono a protestare e mugugnare, nonostante per un po’ sembrasse possibile placare le loro voci con le promesse concilianti del monsignor di Lescun, che spesso aveva combattuto al loro fianco e contemporaneamente trattava la resa di Cremona con gli uomini di Carlo V.

Scoperto, dovette subire il contrattacco delle Bande, che assunsero il controllo del territorio dopo aver abbandonato il campo francese; e ne risultò "poca provisione di danari e d'altro per nutrire le sue genti”.
Le “Bande Nere” sopravvissero, riuscendo a reperire gli ingaggi, e tornarono subito alla guerra. Giovanni, infatti, le guidò da Cremona a sostenere le ragioni della sorellastra Bianca de' Rossi, figlia di primo letto della madre. Dopo aver attraversato rapidamente il Po’ attaccò il nemico, almeno "quattro mila fanti, sei pezzi d'artiglieria e con buon numero di cavagli" armati dai parenti della stessa Bianca allo scopo probabile di appropriarsi dei suoi possedimenti. Dopo aver sfondato la linea avversaria riuscirono a catturare l'artiglieria, in seguito donata a Luigi Gonzaga.

Ma Francesco I era lungi dal ritenersi sconfitto, e già si preparava ad una nuova discesa nella penisola, avvenuta nel settembre 1523, allo scopo di riprendere Milano.
Il condottiero fiorentino, nuovamente schierato nel campo imperiale, si apprestò a difendere la città sforzesca. A quanto pare, questa volta gli fu concesso molto di quanto chiedeva, giacchè i francesi avevano schierato in Italia un esercito forte più di trentamila uomini, col chiaro scopo di lavare l'onta della precedente ritirata. La condiscendenza alle richieste di Giovanni avvenne anche, sembra, per insistenza del cardinale Giulio de' Medici e dello stesso Francesco Sforza, Duca di Milano, insediato dagli spagnoli nel 1522.

Durante l'assedio di Milano fu proprio Giovanni de' Medici ad assicurare le vettovaglie necessarie alla città grazie alle continue incursioni nel campo francese, che rallentarono l'efficacia dell'assedio fino al sopraggiungere dell'inverno e forzarono l'esercito nemico, pressato anche dall’arrivo dei rinforzi imperiali, a ritirarsi.
Nonostante la morte di Prospero Colonna (avvenuta il 30 dicembre 1523) ed il sopraggiungere di rinforzi dalla Francia, le Bande medicee seguirono il marchese di Pescara, tornato dalla Spagna, a Robecco, dove si scontrarono con il capitan Baiardo (Pierre de Terrail, signore di Bayard), rinomato cavaliere francese, con pieno successo.

Ma il "Gran Diavolo" tenne ancora una volta fede al suo carattere, entrando in conflitto con il nuovo capitano generale dell'imperatore in Italia, Charles de Lannoy, vicerè di Napoli.
Nonostante ciò, l'esercito di Francesco di Valois-Angouleme era ormai in ritirata, e gli imperiali – insieme a Giovanni, nominato capitano generale dallo Sforza, ed al marchese di Pescara - li intercettarono sul fiume Sesia, dove inflissero loro una durissima sconfitta, aggravata dalla morte dello stesso cavalier Baiardo (il 30 aprile del 1524). Ma, per fortuna dei francesi, l'inseguimento degli imperiali esaurì la sua energia, anche perché Venezia aveva proibito alle sue truppe di entrare in territorio milanese, indebolendo sensibilmente gli inseguitori.

La nuova tregua diede respiro a tutti i contendenti, ma non al frenetico ed instancabile temperamento di Giovanni, che in quello stesso 1524 ricevette in dono dal duca di Milano Francesco II Sforza il feudo di Busto Arsizio e altri territori nel lodigiano. Dopo aver comprato delle proprietà ad Aulla (ne parlò anche Ariosto, in alcune lettere risalenti al periodo in cui ricopriva il ruolo di governatore estense della Garfagnana) entrò in lite con dei marchesi locali, fino ad arrivare, come di consueto, allo scontro armato. Alla fine, grazie all’intervento dello stesso papa Clemente VII, Giovanni fu allontanato da quelle terre in cambio del pagamento di una forte somma di denaro e del controllo della città di Fano; una soluzione adottata, forse, anche per tenerlo lontano dagli affari fiorentini: si temeva, infatti, un suo eccessivo interesse per la città toscana, di nuovo sotto controllo papale dopo l'ascesa della famiglia Medici al Soglio Pontificio.

Erano anni, però, in cui tutto cambiava in fretta, e la guerra andava e tornava, come le maree: Francesco I scese nuovamente in Italia alla testa di un poderoso esercito – formato da 30.000 uomini, per metà svizzeri - e, presa di nuovo Milano, si apprestò ad assediare Pavia, difesa da Antonio de Leyva e da seimila fanti tedeschi.
A fermarlo, non c’era più la vecchia lega tra i maggiori protagonisti della penisola e Carlo V; Roma e Venezia, infatti, avevano firmato la pace con Francesco I, convinte ormai dell’inevitabile successo del re. Lo stesso dovette pensare Giovanni, che cambiò bandiera un'altra volta, e corse a Pavia al comando di quattromila fanti e quattrocento cavalleggeri per combattere insieme ai francesi, persuaso anche da "dodici mila scudi di piatto per la sua persona e duecento cavalli per lo conte di San Secondo suo nipote".

Il 24 febbraio 1525 si combattè dunque la battaglia di Pavia, in cui l’orgogliosa cavalleria francese perse rovinosamente lo scontro con la fanteria spagnola, favorita dall’uso delle armi da fuoco. Il condottiero mediceo, comunque, non partecipò allo scontro: alcuni giorni prima era stato ferito da una archibugiata, e dovette farsi curare; e chissà, altrimenti, come sarebbero mutati gli eventi.

La Francia aveva dunque perso, e lo stesso re Francesco era caduto prigioniero.

Tradotto in Spagna, fu costretto – nel gennaio 1526 – a firmare l’oneroso trattato di Madrid, in cui si impegnava a rinunciare per sempre al Milanese, ed a consegnare a Carlo V la Borgogna, per riacquistare la libertà.
E naturalmente, non si curò minimamente di mantenere le promesse.

Già nel maggio, infatti, fu stipulata a Cognac una Lega difensiva tra Firenze, Venezia, Parigi ed il nuovo papa Clemente VII, con l'intento di scacciare gli imperiali dall'Italia.
L'esercito fu presto organizzato, e ne divenne capitano generale provvisorio Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, nonostante sopravvivesse una vana speranza di convincere Alfonso d'Este, duca di Ferrara.

Nel luglio 1526, dunque, nonostante l'assenza degli svizzeri, Francesco Maria della Rovere tentò un assalto a Milano, forse convinto che in città stesse per scoppiare una rivolta; tuttavia, bloccato dalla decisa resistenza opposta dagli imperiali, il 7 luglio ordinò la ritirata che, avvenuta di notte, si trasformò quasi in rotta.
L’unico che rifiutò di conformarsi alla fuga fu proprio Giovanni, che iniziò a retrocedere con le sue Bande Nere - in formazione ordinata - solo la mattina seguente.
Si dispose allora l'assedio di Milano, allo scopo di far cadere la città per fame; e il fulcro di questo piano era costituito dalla cavalleria leggera, che dal Campo trincerato di Casaretto poteva intercettare i rifornimenti imperiali diretti verso la città. Le scaramucce si fecero continue, e vi si distinse proprio Giovanni che, per la sua eccessiva audacia, venne stigmatizzato dallo stesso Guicciardini, conscio dei danni derivanti da una sua eventuale perdita.

La situazione rimase comunque molto dinamica, e, messo momentaneamente fuori gioco nel settembre 1526 l’esercito pontificio – costretto infatti, dalla tregua di quattro mesi che Clemente VII aveva dovuto firmare coi Colonna – alleati di Carlo V - a ritirarsi oltre il Po’, minando seriamente la riuscita dell'assedio che contemporaneamente veniva portato anche contro Cremona - le truppe della Lega in Lombardia si trovarono improvvisamente in una situazione di estrema difficoltà.

Fu Guicciardini che, tramite sotterfugi e temporeggiamenti, cercò di ritardare il più possibile la ritirata delle truppe e di fare in modo che Giovanni de' Medici restasse sul campo, al soldo dei francesi. Ma anch’egli, come la gran parte di coloro che sostenevano la bandiera pontificia, era giunto al limite della sopportazione: Roma, infatti, si era resa protagonista di una politica tentennante, influenzata soprattutto dalla costante penuria di denaro necessario per la paga delle truppe, e seguitava solo a "dare parole", a "cercare el benefitio del tempo" di machiavelliana memoria.
Giovanni si lamentò, inoltre, di non aver ricevuto alcun beneficio, come accaduto ad altri capitani della Chiesa, nonostante il suo comportamento in battaglia.

La situazione era però destinata a precipitare di fronte alla riscossa imperiale ed alla discesa da Trento di ben dodicimila lanzichenecchi, quasi tutti di fede luterana, agli ordini di Georg von Frundsberg. Accettando i pareri del duca di Urbino e di Giovanni, ci si rese conto che le truppe italiane non sarebbero state in grado di fermare i Lanzichenecchi in una battaglia campale e si risolse di adottare una tattica già sperimentata: una serie di scorrerie e di scaramucce per logorare i tedeschi, che nel frattempo si muovevano il più velocemente possibile per passare il Po’ e raggiungere gli spagnoli impegnati a Milano.
Per questo, mentre Francesco Maria della Rovere rimase a nord del Po’ (a protezione del Veneto) con la sua cavalleria pesante, i cavalleggeri del Medici si lanciarono velocemente all'inseguimento dei Lanzichenecchi, tormentandone le retrovie.

Nell'arco di una manciata di giorni del mese di novembre, nell’anno 1526, si consumò la tragedia finale di Giovanni dalle Bande Nere.
Dopo essere stato rallentato anche dalla mancata collaborazione del marchese di Mantova, Federico Gonzaga, che aveva serrato il passaggio alle truppe della Lega a Curtatone la notte del 23 (mentre i Lanzichenecchi avevano usufruito senza disturbo del transito), riuscì ad intercettare il nemico il giorno seguente, a Borgoforte sul Po’.

I combattimenti, come di consueto, iniziarono subito, e proseguono anche il 25. I fanti nordici resistettero ad otto assalti delle Bande medicee, prima di impiegare a sorpresa tre rivoluzionari pezzi d’artiglieria chiamati falconetti e donati dal Duca di Ferrara, che aveva definitivamente tradito la causa pontificia.
E fu una di queste bocche da fuoco che ferì gravemente ad una coscia Giovanni de' Medici, all'imbrunire del 25 novembre 1526.
Fu subito portato nel letto di Luigi Gonzaga, a Mantova; qui, il medico chiamò dieci uomini per tenerlo fermo. Sorridendo, Giovanni gli rispose: "nemmeno venti mi terrebbero", e da solo prese una lampada in mano, per far luce all’amputazione della gamba, ormai divorata dalla cancrena.
Nonostante questo, ed i numerosi salassi, morì la notte tra il 29 ed il 30 novembre 1526. Fu sepolto in armatura nera (visibile oggi al museo Stibbert di Firenze), nella chiesa di San Francesco.
  
Lo piansero il Duca d'Urbino e tutti i capitani confederati, e sembra che, allo spargersi della notizia della sua morte, la maggior parte dei condottieri s’unì in un appello universale affinché le armi da fuoco, considerate una negazione dei valori cavallereschi, non fossero più usate sui campi di battaglia; lo pianse lo scrittore ed amico Pietro Aretino, per il quale rimase un uomo generoso che concedeva ai suoi soldati tutte le prede di guerra: nel suo campo, durante i periodi di calma, montoni, agnelli, maiali, vitelli e selvaggina rosolavano su grandi spiedi, mentre lui giovane e turbolento, partecipava a tornei, banchetti e feste, conteso dalle donne, nonostante la sua fama di grande amatore, infedele ed incostante.

Ma soprattutto, di lì a pochi mesi lo piansero gli abitanti di Roma: dopo la sua morte, infatti, fallirono i tentativi di arrestare la discesa dei Lanzichenecchi del Frundsberg, che teneva appeso alla sella, si dice, un cappio d’oro con cui impiccare il papa.

Ai primi di maggio dell’anno 1527, questi arrivarono sotto le mura della Città eterna, orfana del suo ultimo difensore.

Il 19 novembre 2012 è iniziato lo studio dei resti scheletrici di Giovanni e di sua moglie, Maria Salviati. La tomba è stata aperta e i resti studiati nella cripta del Museo delle Cappelle Medicee a Firenze, nell'ambito di una ricerca finanziata dalla Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia e condotta dalla Divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa, diretta dal professor Gino Fornaciari e sostenuta dal Dipartimento Radiologico dell'ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, diretto dal dottor Ilario Menchi.

Nuova luce sulle cause della morte di Giovanni dalle Bande Nere, il capitano di ventura del '500, padre di Cosimo I de' Medici, deceduto a seguito di una ferita alla gamba riportata durante una battaglia nel 1526. La divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa – sotto la direzione del professor Gino Fornaciari – ha analizzato i resti del condottiero dei Medici e di sua moglie Maria Salviati riesumati  nella cripta del Museo delle Cappelle Medicee a Firenze, rivelando nuovi particolari sulla loro morte e anche sul loro stile di vita.
"I nostri studi confermano che Giovanni dalle Bande Nere morì per setticemia in seguito alla ferita dovuta a una palla da falchetto, sotto il ginocchio, ma non fu colpa del chirurgo che amputò metà arto", spiega il professor Fornaciari.
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"Il medico, maestro Abram, che lo operò 4 giorni dopo la battaglia, eseguì un ottimo intervento, ma non poté far nulla per salvarlo: cercò di regolarizzare i monconi e pulire la ferita, ma l'infezione da cancrena era troppo avanzata". Interessanti anche i rilievi sul corpo di Maria Salviati: "Le lesioni craniche dimostrano una sifilide ossea terziaria avanzata, che probabilmente fu la causa della morte. All'epoca era una malattia molto diffusa, che probabilmente le fu trasmessa dal marito".
Le analisi dei resti hanno confermato che Giovanni dalle Bande Nere ebbe una vita attiva e rischiosa: "Lo studio dello scheletro rivela un Giovanni de' Medici vigoroso, con un'età antropologica di 25-30 anni, una statura di 1,74 m, cranio medio, naso stretto ed elevata capacità cranica (1494 cc)", scrive Fornaciari nella sua relazione. "Le inserzioni muscolari (deltoide, gran pettorale, gran dorsale, bicipite, muscoli dell'avambraccio, muscoli della coscia) caratterizzano un individuo molto robusto e la presenza di numerose ernie vertebrali rivela che, fin dall'adolescenza, Giovanni era solito sovraccaricare il torace con pesi cospicui, verosimilmente le pesanti armature dell'epoca".

All'interno della cassa di Giovanni de' Medici sono state rinvenute due targhe metalliche e un contenitore in vetro, simile a una lunga provetta, dentro la quale era arrotolata una carta su cui Pieraccini ha lasciato scritti i dati dell'ispezione che effettuò tra il 1945 e il 1947. Lo stesso oggetto è stato trovato anche nella cassa della moglie, Maria Salviati, il cui scheletro si è presentato in condizioni ben peggiori a causa della presenza di acqua sul fondo. Nella cassa di Giovanni dalle Bande Nere, oltre al messaggio lasciato da Pieraccini, prima di chiuderla ne è stato inserito un altro composto dalla Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino, Cristina Acidini, che ha riassunto il senso dell'operazione e i termini entro cui si è svolta.









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