“Pota” è un termine che ha origini dialettali ed originariamente era associato all’organo genitale femminile. Oggi però tale significato lo ha perso e sia nel bergamasco che nel bresciano è divenuto un intercalare molto usato.
Pota sta ad indicare uno stato di rassegnazione al proprio destino o a particolari circostanze e/o situazioni. Può inoltre sostituire una risposta ad una domanda, quando questa risposta è assolutamente ovvia o facile da intuire. È forse anche una delle più usate perché spontanea e profondamente bergamasca e bresciana. Inoltre si usa quando non si sa cosa dire in una conversazione.
Il pota, sorprendente termine del dialetto bergamasco, veicola con una semplice emissione di suono un significato profondo e un'altrimenti inesplicabile condizione esistenziale. Traducibile malamente in italiano con il composto "d'altronde", il pota vanta una grande forza gestuale e interpretativa. Esso ci permette di comunicare la nostra imperizia di fronte a una determinata situazione, manifesta un momento di impasse ineludibile. È il momento in cui esprimiamo quella che gli antichi chiamavano epoché, la sospensione del giudizio rispetto a ciò che non è comprensibile - secondo la scuola storica - o di fronte a rappresentazioni e opinioni opposte - secondo quella scettica.
Di questi tempi che sono duri e difficili a viversi, l'uso del pota dilaga. Funge da sintesi dello sconforto sociale. Sempre più giovani ricadono nell'uso del dialetto, antico vestigio dei loro antenati, per esplicare le proprie disillusione e sfiducia.
“Il carattere della gente bergamasca raramente è simile
ad una fiamma appariscente, ma, sotto le cenere,
conserva viva una brace sempre accesa….”
in altre parole:
I Bergamaschi sono silenziosi, riservati e buoni, purchè
non vengano troppo disturbati… In questo caso
reagiscono con veemenza, al di là di quanto il loro
carattere abituale possa far credere….
Il dialetto bergamasco è un dialetto appartenente al ramo orientale della lingua lombarda appartenente derivato dal latino volgare innestato sulla precedente lingua celtica parlata dai Galli. Con il tempo ha subìto varie modifiche, le più importanti delle quali sono avvenute durante le dominazioni longobarde che hanno lasciato terminologie germaniche entrate a fare parte del linguaggio comune.
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Il dialetto bergamasco ha origini antiche, è attestato nel Basso Medioevo da diversi atti di transazioni private, ma anche da alcuni componimenti poetici fatti risalire alla prima metà del XIII secolo.
Come tutte le lingue anche il bergamasco ha delle regole che nascono dalla sedimentazione consuetudinaria di costruzioni lessicali orali e letterarie comunemente accettate e usate. Anche se lievi differenze si riscontrano in diverse parti del territorio orobico, la struttura linguistica base, la fonetica, la morfologia, il vocabolario rimangono comuni. L’origine e la stretta contiguità con l’italiano, di cui “subisce l’influenza sempre più livellante e distruttiva” ne ha fatto assorbire molte regole pur mantenendo alcune peculiarità proprie.
Particolarmente tipiche sono l’aferesi e l’esistenza di una forma interrogativa del verbo (an va, andiamo; an vài?, andiamo?) e, di origine probabilmente germanica, la caratteristica di avere il verbo coniugato allo stesso modo per le terze persone singolare e plurale e per la prima persona plurale.Queste voci verbali vengono distinte tra loro tramite un pronome clitico obbligatorio posto tra il pronome personale (facoltativo) e la voce verbale, come nella “Lingua veneta” .
I parlanti il lombardo occidentale (ma anche le lingue correlate come emiliano-romagnolo o piemontese) lo ritengono poco comprensibile poiché, nonostante alcune somiglianze lessicali e morfologiche, possiede una fonetica molto stretta e diversa da quella di lingue e dialetti simili.
Il dialetto bergamasco è stato a lungo oggetto di studio, di commenti e di confronti con l'italiano e con altri dialetti.
Dante Alighieri, poco indulgente verso le parlate lombarde, criticava quelle che riteneva asprezze,
« Post quos Mediolanenses atque Pergameos eorumque finitimos eruncemus, in quorum etiam improperium quendam cecinisse recolimus
Enter l'ora del vesper,
ciò fu del mes d'occhiover »
(Dante, De vulgari eloquentia, I, XI, 5)
« Dopo di questi tiriamo via Milanesi e Bergamaschi e loro vicini; anche su di loro ricordiamo che un tale ha composto un canto di scherno: Enter l'ora del vesper, ciò fu del mes d'ochiover. »
e la tendenza all'apocope.
Altri autori l'hanno dileggiato riducendolo, in maniera superficiale, a parlata macchiettistica esclusiva della gente più incolta e umile.
Il dialetto bergamasco (più precisamente alcune sue varianti parlate nella bassa bergamasca) è la lingua in cui Ermanno Olmi ha girato il suo film L'albero degli zoccoli, vincitore del festival di Cannes nel 1978, in cui si racconta la vita di una comunità di mezzadri della pianura bergamasca alla fine del XIX secolo.
Tra i componimenti poetici sono ricordati un Decalogo e una Salve Regina di chiara ispirazione religiosa contenuti in codici del tutto analoghi per struttura e forma ad altri duecenteschi.
« A nomo sia de Crist ol dì present
Di des comandament alegrament
I qua de de pader onnipotent
A morsis per salvar la zent.
E chi i des comandament observarà
in vita eterna cum Xristo andarà»
Oltre a quello parlato nella città di Bergamo, che può essere considerato centrale sia in termini geografici che linguistici, ne esistono numerose varianti locali, alcune circoscritte anche a piccole comunità montane, che si differenziano tra loro per alcune peculiarità del lessico e della pronuncia di alcuni suoni; uno degli esempi più evidenti è la s sorda – come in sich (cinque) o sura (sopra) - che diventa h aspirata (hich, hura) in molte località di pianura e z (zich, zura) in alcune località montane, ad esempio la Valle di Scalve.
Tipico delle comunità montane è anche l'uso dello scötöm, un soprannome che consente di distinguere i diversi rami familiari di una comunità – a volte persino un intero paese – contraddistinta da un solo cognome; lo scötöm è solitamente un aggettivo o un sostantivo legato a una peculiarità fisica o a un'attività e si declina per genere usando una forma femminile per identificare mogli e figlie appartenenti al ramo familiare. Questa usanza era un tempo diffusissima anche nella bassa bergamasca, dove questo speciale soprannome è chiamato scurmagna, ma ora sta praticamente scomparendo.
Tra le principali varianti del dialetto si possono annoverare quelle della Valle Imagna, della media e alta Valle Seriana, della Val Gandino, della Valle Brembana, della Valle di Scalve e della Valle San Martino. In molte zone di pianura e nella Valcalepio prevale l'uso dei suoni aspirati.
Muovendosi verso le province vicine, nelle zone di confine il lessico risulta ibridato da quello delle parlate delle aree confinanti: milanese, brianzolo, lecchese, bresciano e cremasco.
Una variante particolare è stato il Gaì, peraltro ritenuto un linguaggio di classe in quanto "espressione linguistica di gruppi sociali emarginati".
Il gaì era il gergo dei pastori bergamaschi, principalmente usato in Val Seriana. Si tratta di un linguaggio particolare, come un codice, ormai quasi scomparso, comune tra tutti coloro che svolgevano un'attività in cui lo spostarsi era un elemento fondamentale come accadeva ai pastori che praticavano la transumanza.
I dialetti, e con essi il bergamasco, hanno riacquistato a partire dagli anni novanta una propria dignità; è stata rivalutata la letteratura vernacolare, non più minore ma espressione di comunità che, seppure integrate in un tessuto nazionale più ampio, mantengono vive la propria cultura e le proprie tradizioni.
Tra i diversi studiosi che si sono dedicati al dialetto bergamasco si distingue per la qualità della propria produzione letteraria Antonio Tiraboschi il cui vocabolario, sempre attuale, è il più completo mentre le sue ricerche etno-letterarie, sono essenziali per la comprensione della comunità orobica. Oltre al vocabolario ha lasciato una Raccolta di proverbi bergamaschi e diversi inediti che sono stati successivamente pubblicati nei volumi L'anno festivo bergamasco, Giuochi fanciulleschi. Indovinelli popolari bergamaschi, Usi e tradizioni del popolo bergamasco.
Bortolo Belotti, il grande storico di Bergamo, la cui Storia, per quanto datata, è ancora fondamentale per la conoscenza del territorio e della sua evoluzione, vi ha trattato il tema del bergamasco con ampie notazioni bibliografiche; ha anche scritto alcune opere minori in vernacolo.
Molti autori nel 1600 produssero pregevoli traduzioni in dialetto di opere che avevano avuto un grande successo come fece Alberto Vanghetti, nel 1655, con l'Orlando furioso dell'Ariosto. La sua fu una vera e propria traduzione piuttosto che una parodia, fu il tentativo reale di avvicinare alla gente comune un'opera famosa.
Bello l'incipit del suo Orlando in vernacolo:
« I armi, i fomni, i soldacc, quand che in amôr
I andava d' Marz, af voi cuntà in sti vers,
Che fü in dol tèp che con tancc furôr
Al vign de za dol mar i Mor Pervers,
Condücc dal re Gramant, so car signôr,
Che voliva più Franza e l'univers
E destrüz sech Re Carlo e i Paladì
Per vendicà sò Pader Sarasì. »
Nel Settecento l'abate Giuseppe Rota scrisse alcuni componimenti poetici in dialetto che ebbero una certa diffusione. Particolarmente interessanti i suoi versi in difesa del bergamasco e della sua terr:
« Che per spiegass bé e spert, sciassegh e stagn
a tate lengue ch'è montade in scagn,
al Fiorentì, al Franses
la nost lagh dà neuf per andà ai dès.
Mi per efett de ver amour, de stima,
Lavori e pensi in prima
A i mè compatriogg a i mè terèr;
E dopo, se 'l men vansa, a i forestèr. »
Ma il capolavoro delle traduzioni seicentesche, e non solo, di un'opera celebre nel dialetto bergamasco è da considerarsi Il Goffredo del signor Torquato Tasso travestito alla rustica bergamasca da Carlo Assonica dottor ossia la Gerusalemme Liberata tradotta da Carlo Assonica nunzio di Bergamo a Venezia. Un'ottava dell'assemblea diabolica davanti a Plutone esprime tutta la piacevolezza ma anche la forza della sua traduzione:
« Al vé vià quacc diàvoi chi gh'è mai
Al segn de quel teribel orchesù.
De pura 'l sa sgörlè i mür infernai.
E serè fò Proserpina i balcù;
I è röse e fiur, borasche e temporai,
Tempeste e sömelèc, saete e tru,
E a par de quel tremàs là zo de sot,
L'è cöcagna balurda 'l teremòt. »
Pietro Ruggeri da Stabello, (Stabello di Zogno 1797, Bergamo 1858), emerge nel panorama poetico-letterario bergamasco del XIX secolo con una produzione poetica dialettale notevole. Antonio Tiraboschi curò, (1931) una raccolta delle sue Poesie in dialetto bergamasco.
Erede del Ruggeri a cui può essere accostato per temperamento, Benvenuto Trezzini da Villa d'Almè, (1851-1910), fu giornalista e polemista sarcastico e acuto. Assieme ad Annibale Casartelli e Teodoro Piazzoni fondò nel 1894 il giornale Ol Giopì tuttora curato e pubblicato dal Ducato di piazza Pontida.
Tra i molti poeti dialettali della prima metà del XX secolo si distinsero Giuseppe Bonandrini, Giacinto Gambirasio, il popolare Giuseppe Mazza, detto Felipo, Renzo Avogadro, (Rasghì, it. taglierino), il malinconico Sereno Locatelli Milesi, Pietro Astolfi, (Giopa), Angelo Pedrali, il faceto Giuseppe Cavagnari, Luigi Gnecchi.
Oggi nuove generazioni di poeti dialettali si affacciano generosamente sulla scena poetica locale testimoni di una cultura e di una tradizione tuttora vive e dinamiche.
Il Ducato di piazza Pontida, un'associazione volontaria senza fini di lucro, nata da un'intuizione di Rodolfo Paris il 15 marzo 1924, cerca di valorizzare il dialetto e le tradizioni bergamasche promuovendo appositi corsi di studio, pubblicazioni dialettali, come il vocabolario del Belotti, e manifestazioni folcloristiche tese a mantenere vive la parlata e le tradizioni locali.
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