La tomba Bonomini, in quanto ultima opera del Vantini, è una tappa importante per la ricostruzione del percorso stilistico dell'architetto. Il tempietto neogotico testimonia infatti l'avvenuto passaggio dal rigido e marcato neoclassicismo, che aveva sempre caratterizzato l'opera del Vantini, a un più libero eclettismo, proprio dell'Ottocento inoltrato, al quale l'architetto aveva ormai ceduto.
L’architetto aveva disegnato un monumento sepolcrale di chiare forme neogotiche, ispirandosi alle trecentesche Arche Scaligere veronesi, nel quale confluivano, oltre a scelte ancora neoclassiche, anche le forme e il fascino dell’architettura egizia e l’inedito utilizzo della ghisa per le cuspidi delle guglie. L’opera si componeva di un alto basamento cubico su cui erano posti, al primo piano, i sarcofagi, protetti da una copertura piramidale, con i quattro vertici della base nel centro di ogni lato, con uno spostamento di 45°, riprendendo le soluzioni presenti nelle torri campanarie delle chiese alto – medioevali del nord della Francia e della Renania, visitate nel 1847 personalmente dal Vantini. Tale copertura trovava sostegno in quattro pilastri angolari a tabernacolo posti ai lati, in cui erano alloggiate le statue raffiguranti l’Agricoltura, le Belle Arti, le Arti Industriali e il Commercio, con evidente rimando a come le immagini delle arti visive seguivano il rinnovamento dell’idee, mutando con esse le loro tematiche e simbologie rappresentative. Al piano terra erano posti i busti del committente Angelo Bonomini e del socio ed amico Giuseppe Simoni, come dalle richieste testamentarie del Bonomini stesso: “ un Monumento Marmoreo in continuata memoria della Ditta Angelo Bonomini e Compagno, fregiato di iscrizioni ed emblemi che ricordino, ed ornato dei busti dei due proprietari e rappresentanti la stessa, il rapitomi con dolore Giuseppe Simoni e me sottoscritto testatore ”.
Con il testamento del 23 dicembre 1837 il commerciante Angelo Bonomini lasciava unico erede l’Ospedale Maggiore di Brescia. Inseriva tra le clausole che fosse eretta una tomba, nel ronco di S. Fiorano di sua proprietà, in ricordo suo e del caro amico Giuseppe Simoni, da poco scomparso. Il 3 luglio 1847, a seguito della morte di Bonomini, avvenuta il 1° dicembre 1841, l’amministratore degli Spedali e Pii Luoghi Riuniti, Antonio Pitozzi, bandiva un concorso pubblico per la realizzazione del monumento sepolcrale ed eleggeva una commissione formata dal conte Luigi Lechi (1786-1867), dal pittore Luigi Basiletti (1788-1859) e dall’architetto Luigi Donegani (1793-1855).
Con ordinanza del 31 ottobre 1855 fu reso noto che era stato scelto, con delle piccole modifiche, il progetto contrassegnato dall’epigrafe tratta dal primo canto dell’Inferno dantesco: “ Ch’io fui per ritornar più volte volto”, ritenendo “l’insieme elegante e leggero tanto per le sue dimensioni che per le sue forme, adatte al luogo ove andrebbe collocato”. Il progetto portava la firma prestigiosa di Rodolfo Vantini (1792-1856) che, purtroppo, non ebbe il tempo di vedere conclusa l’opera, terminata successivamente dall’allievo, ing. Giuseppe Cassa (1820-1861).
L’esecuzione e la messa in opera del monumento, in candido Botticino, fu affidata alla Ditta Gaffuri di Rezzato (Bs), mentre Giovanni Battista Lombardi fu interpellato, su consiglio di Simone Gaffuri, dell’omonima impresa, per la parte scultorea. Con contratto del 22 novembre 1856 l’artista si impegnava a consegnare per l’inizio del 1858 e non oltre il mese di marzo, alla cifra pattuita di £ Aus. 2247.48, quattro statue raffiguranti il Commercio, l’Agricoltura, le Belle Arti e le Arti Industriali, in pietra di Viggiù, per i tabernacoli esterni, e due busti, in marmo di Botticino, raffiguranti Angelo Bonomini e Giuseppe Simoni, da porsi nella cella a piano terra. In data 10 ottobre 1857 Lombardi scriveva da Roma per chiedere una proroga fino all’autunno dell’anno successivo. L’amministratore dell’ospedale, Antonio Pitozzi, con lettera del 22 ottobre, informava lo scultore dell’impossibilità di assecondare la richiesta perché il collaudo del monumento era stato fissato per il 19 maggio 1858. Lombardi rispondeva il 2 novembre che se non avessero accettato “ con grande dispiacere trattandosi di opera del suo paese” si sarebbe ritenuto, come da clausola di contratto, sciolto dall’impegno. A seguito della determinazione dello scultore l’amministratore Pitozzi decideva di acconsentire al ritardo e così si esprimeva il 13 gennaio 1858 nella lettera indirizzata all’Imperiale Regia Delegazione Provinciale in Brescia per informare dello stato dei lavori del monumento: " E’ dovere però dello scrivente di riferire che non trovandosi in misura il così encomiato Scultore Illustre Giambattista Lombardi, Concittadino, di poter consegnare nel mese di Marzo prossimo le assegnatagli quattro statuette, e i due Busti, siccome è convenuto, l’Amministratore scrivente per non perdere il vantaggio di avere un lavoro statuario di tanto autore e a mercede così misurata, reputò concedergli la chiesta dilazione a tutto 8bre prossimo ”.
Il 22 settembre 1858 Lombardi scriveva all’Amministrazione per comunicare di trovarsi a Brescia e per informare che le quattro statue erano già a Viggiù (Va) per essere “sgrossate”, mentre i gessi dei due busti erano nell’officina di famiglia di Rezzato (Bs).
Nella lettera inviata il 4 dicembre 1858 allo scultore, Pitozzi, a seguito della perizia di due artisti, di cui non è riportato il nome, riferiva che i due busti richiedevano una “ maggior finitezza” di lavoro per meritare il prezzo pattuito.
All’interno del Monumento Bonomini, in cui il ricco committente e l’amico carissimo Giuseppe Simoni non furono mai sepolti, nonostante ciò fosse condizione imposta nel lascito; l’amministrazione dell’Ospedale, decise comunque di dar corso all’impresa sia per coerenza che per vincoli testamentari che avrebbero esposto il testamento al rischio d’impugnazione; la mancata traslazione dei feretri dal cimitero alla tomba sul Ronco non avvenne perché il Comune, responsabile dell polizia mortuaria, non rilasciò permesso di sepoltura in un luogo esterno alle aree cimiteriali, nonostante, in altri casi, qualche deroga fosse concessa.
L’ultima, e iconograficamente fra tutte la più interessante, è l’assorta e interrogativa immagine del Commercio che con una pesante borsa poggiata a terra e con il dito indice puntato al mento si rivolge pensierosa verso l’osservatore.
L’attenzione dello scultore si pone particolarmente sulla figura che meglio raffigura e incarna l’occupazione dei dedicatari che nella prima metà dell’Ottocento avevano avviato, in contrada del Palazzo Vecchio, attuale via Dante, il redditizio commercio di spezie, caffè, cacao, pepe, provenienti dalle colonie, di sete e di prodotti agricoli.
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