lunedì 15 giugno 2015

ERMENGARDA

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Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.
(…)
Te, dalla rea progenie
degli oppressor discesa,
cui fu prodezza il numero,
cui fu ragion l’offesa,
e dritto il sangue, e gloria
il non aver pietà,
te collocò la provvida
sventura in fra gli oppressi:
muori compianta e placida;
scendi a dormir con essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà.


Ermengarda (o Desiderata), figlia di Desiderio re dei Longobardi (sec. VIII). Di lei si hanno scarse e confuse testimonianze: il nome stesso è alquanto discusso e si deve, più che agli storici medievali, all'Adelchi del Manzoni. Da un oscuro passo di Pascasio Radberto (sec. IX) si ricaverebbe il nome Desiderata. Sappiamo comunque che Ermengarda, per volontà della regina Berta (o Bertrada), sposò nel 770 Carlo Magno, malgrado l'opposizione di papa Stefano III, ostile a un'alleanza matrimoniale tra la corte dei Franchi e quella dei Longobardi. Un anno dopo, quando già le relazioni tra Carlo e Desiderio erano tese, Ermengarda venne ripudiata e il papa non fu estraneo alla vicenda. L'innocenza di Ermengarda appare chiaramente dalla disapprovazione di Berta per l'operato del figlio; essa fu vittima della fluttuante politica del suo tempo. Dopo il ripudio, Ermengarda tornò a Pavia: secondo lo storico tedesco Aventinus sarebbe morta dando alla luce un figlio. Manzoni (Adelchi, atto IV) immagina che Ermengarda muoia nel monastero di S. Salvatore a Brescia, combattuta tra l'anelito alla pace in Dio e il sempre risorgente amore per Carlo, e fa di lei la vittima innocente, destinata dalla Provvidenza a espiare i soprusi e le violenze della sua gente e dello stesso Carlo, per mano del quale finiva il regno di suo padre.

Quella di Ermengarda non era una sorte rara: i matrimoni rispondevano spesso a logiche politiche e diplomatiche che nulla avevano a che fare con l’amore romantico. Ermengarda, però, ci è descritta da Manzoni come una donna innamorata, disperata per essere stata abbandonata dallo sposo tanto amato che, entrato in guerra con i Longobardi, l’aveva ripudiata e si era unito in matrimonio con un’altra donna.

Nel coro , che inizia con i versi divenuti famosi:

« Sparsa le trecce morbide
su l’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel »

Manzoni descrive la tragica fine della dolce e fragile Ermengarda che - incapace di sopportare le sue pene e il suo destino avverso -, mentre Desiderio e Adelchi combattono disperatamente contro Carlo, cade in un delirio che la porta alla morte.

Una lotta durissima con i propri affetti redime nella sofferenza la principessa longobarda (la provida sventura, la sventura dono della Provvidenza). Ermengarda, per poter morire serenamente, deve innalzarsi dall'amore terreno all'amore celeste, offrendo a Dio il proprio tormento. Luigi Russo scrive: "in questo secondo Coro poi è già visibile (ma non manca neanche nel primo), lo schema, caro alla musa manzoniana, dove la rappresentazione lirica si alterna con la meditazione morale (le riflessioni sulla provida sventura) e la fede parenetica finale ("Dalle squarciate nuvole.....): preannunzio sistematico della complessa ispirazione del poeta nel romanzo, e che già ha avuto notevoli presentimenti nell'opera dell'innografo e del tragediografo". 









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