venerdì 1 gennaio 2016

LA VAL CODERA


La Val Codera è una valle collocata in provincia di Sondrio, nel comune di Novate Mezzola.

La Val Codera confina con la Val Bondasca e la Val Masino. È raggiungibile solo a piedi o in elicottero (non esistono infatti strade per altri mezzi di trasporto). Nella valle è presente il piccolo villaggio di Codera.

La valle è percorsa dal torrente Codera, che sfocia poi nel Lago di Mezzola. Tra i monti che contornano la valle ci sono il Pizzo Badile e il Pizzo Cengalo.

« Su per il lago di Como di ver la Magna è valle di Ciavèna, dove la Mera flumine mette in esso lago; qui si truova montagne sterili et altissime con grandi scogli... qui nasce abeti, larici et pini, daini, stambuche, camozze e terribili orsi, non ci si può montare se non a quattro piedi. »
La terrifica descrizione della zona che Leonardo da Vinci tratteggia nel suo Codice Atlantico trova un popolare quanto coincidente riscontro nella tradizione che vede la Val Codera, per la sua natura così aspra e selvaggia, essere stata creata dal buon Dio per prima, quando, ancora inesperto, non sapeva come sistemare per benino le montagne; oppure per ultima, quando, ormai stanco di tutte le fatiche della creazione, scaraventò a casaccio in questo minuscolo angolo di terra le ultime montagne ed i dirupi più scoscesi che gli erano avanzati. Ma, genesi a parte, da questo angolo aspro e nascosto, proprio per la sua posizione strategica, sono passati i tanti popoli che hanno fatto la storia d’Europa: dai Celti e dai Romani ai vari popoli barbari, dai Francesi agli Svizzeri, dagli Spagnoli agli Austroungarici. I segni del loro passaggio sono visibili ancora oggi, dai massi avello di San Giorgio ai ponti di Codera, alle testimonianze scritte o di tradizione orale ancor ben vive tra chi frequenta il comprensorio.

La Val Codera è un piccolo lembo di Alpi che è sempre stato abitato: nel 1933 risiedevano ancora in tutta la valle circa 500 persone. Nel dopoguerra, però, si ebbe un’accelerazione del fenomeno di spopolamento, comune a tante località alpine, qui accentuato dalla mancanza di un adeguato collegamento con il fondovalle, più volte invano richiesto per evitare l’abbandono totale. Tra le istituzioni tradizionali ancora in uso vanno segnalate le quattro processioni annuali che si svolgono a Codera nei giorni di S. Marco, S. Giovanni Battista, Assunzione di Maria e S. Rocco, quando le sacre effigi vengono trasportate per le vie del paese dai confratelli dalla tunica scarlatta.

La Val Codera ha assunto un'importanza storica significativa durante il periodo del fascismo, quando divenne la meta per i ritrovi delle Aquile randagie, gruppo scout clandestino (le leggi fasciste avevano reso illegale lo scautismo e tutte le associazioni giovanili all'infuori dell'Opera nazionale balilla). La prima Aquila randagia a scoprire la valle, ideale per operare in clandestinità data la sua inaccessibilità, fu Gaetano Fracassi nel 1935.

Da allora la valle è un luogo privilegiato per itinerari di gruppi scout.

Tra le attrazioni turistiche della valle ci sono il Museo Etnografico di Codera e il Museo "I Noss Regoord" di San Giorgio.

Chi traversa i numerosi centri abitati e presta attenzione alla fitta distribuzione di costruzioni che punteggia la vallata, stenta a credere come l’uomo abbia potuto vivere e lavorare in un territorio così aspro ed impervio. Soprattutto ad Avedèe, Cola a Codera, ma anche a Cii e San Giorgio è ancora ben visibile l'accanito lavoro di terrazzamento compiuto per recuperare terreno pianeggiante ove un tempo veniva coltivato un po' di tutto, perché tutto sarebbe stato troppo costoso se procurato da fuori: canapa e lino per i tessuti, orzo, segale, granturco e patate per il vitto, costituivano gli elementi di una economia forzatamente autarchica. Attualmente una parte minima dei campi degli abitati viene coltivata a patate, fagioli ed ortaggi; a San Giorgio, Codera e Cola vigoreggia qualche campo di granoturco, della qualità "quarantìn" che matura entro ottobre.

A Codera una gestione associativa di alcuni coltivi, altrimenti abbandonati, permette di inviare per la distribuzione a Campo e Novate Mezzola un discreto quanto ricercato quantitativo di prodotti non trattati, come patate, di fagioli e di farina di granturco. Lo sfruttamento del legname è ormai pressoché assente, date le difficoltà di trasporto, anche se in passato estese superfici di bosco venivano utilizzate per questa attività, con flottazione al piano attraverso il fiume.

I castagneti costituivano sino a qualche decennio or sono una delle ricchezze della zona: le castagne sono state da sempre uno degli alimenti più utilizzati (ne fanno fede le diverse ricette che le annoverano come gustosi ingredienti). Per non sacrificare le scarse colture (indispensabili al sostentamento dei numerosi abitanti), e soprattutto il foraggio (che consentiva l’allevamento di poche vacche, di numerose capre e pecore), si limitava la coltivazione di altri alberi da frutto a qualche noce e qualche ciliegio.

L'allevamento semibrado delle capre è ancora il più diffuso; si contano in valle più di 300 capi, tenuti in stalla solo al momento della nascita dei capretti (marzo-aprile) che vengono venduti dal periodo pasquale in poi. Il bestiame bovino è ridotto a poche unità monticate durante l’estate all'alpeggio di Brasciàdiga, ove si possono trovare saporiti formaggi d’alpe. Tra i latticini il mascarpìn è sicuramente esclusivo della vallata: formaggio grasso di latte di capra dalla caratteristica forma affusolata, simile ad un dirigibile, che può essere gustato fresco come una ricottina o salato e lievemente affumicato, utilizzato da solo o come condimento di verdure e di primi piatti.

Strettamente correlato alla geologia della valle, un ultimo prodotto ne lega, come una costante sotterranea e profonda anche i più remoti aspetti: la pietra, o, meglio, il granito sanfedelino. Muri, tetti, stipiti, reggigronda, soglie e davanzali, scale e terrazze di edifici sono di granito; di granito le panchine, i tavoli all’aperto e dei crotti, ed il rullo del campo di bocce di Codera, e ancora le vasche, i lavatoi, le mangiatoie per il bestiame. Per secoli l'estrazione, la lavorazione e l'esportazione del granito, sino alle grandi città di pianura sotto forma di pavé e di cordoli da marciapiede, è stata croce e delizia della valle: delizia per la possibilità di integrare con la sua commercializzazione i magri introiti di un’agricoltura e di un allevamento di sussistenza, croce per l'inesorabile silicosi che colpiva gli abilissimi scalpellini (picapreda).

Il rivestimento del palazzo municipale di Novate, completato nel 1991, è l'ultima delle opere pubbliche in cui sia stato utilizzato il sanfedelino: rimangono vecchie cave e numerosi abili artigiani della pietra, che con le raccolte museali di san Giorgio, sono la testimonianza di una presenza che ha reso speciale la Val Codera.

La Val Codera, una delle più suggestive ed amate in provincia di Sondrio, in quanto ancora preservata dall’accesso degli autoveicoli per la mancanza di una strada carrozzabile, è anche una delle più ricche di leggende legate ad ombre, presenze inquietanti e stregonerie. Del resto, la leggenda stessa che narra della sua origine non è luminosa: si dice che a Dio, dopo che ebbe fatto il mondo, avanzassero mucchio di pietre, che, sparse un po' alla rinfusa, crearono la valle, il cui nome, infatti, deriva da "cotaria" e quindi da "cote", cioè masso. Una variante di questa leggenda racconta che la valle fu la prima ad essere creata da Dio, il quale, ancora inesperto, la fece troppo selvaggia ed aspra. Questa la cornice di una serie di leggende accomunate da un alone di cupo mistero. Molti anziani raccontano ancora di aver udito, o aver vissuto di persona, incontri con uomini ed animali misteriosi, rivelatisi poi manifestazioni di anime malvagie o di streghe.
La figura più celebre è quella del Valfubia, su cui si narrano diverse storie. Costui era un uomo malvagio, che rubava anche a persone povere, fra le quali una povera vedova che aveva molti figli da mantenere, per cui, una volta morto, fu condannato a vagare, come un’anima in pena, di notte, assumendo sembianze sempre diverse, ora di uccello rapace, ora di maiale (con un curioso taschino dal quale usciva tabacco!), ora di ombra inafferabile. Dicono che le sue urla lamentevoli fossero davvero impressionanti. Come spesso accade in questi casi, per risarcirsi della sua condizione infelice prendeva di mira quanti si trovassero a transitare da soli su sentieri della valle, o anche uscissero di casa la sera, nella zona compresa fra Codera e Bresciadega. Faceva, quindi, rotolare contro di loro sassi dalle gande, oppure, più spesso, si materializzava improvvisamente, fra le ombre della sera, terrorizzando i malcapitati con un forte soffio. L’unico modo per tenerlo alla larga era munirsi di un rosario: quel segno di devozione e preghiera, infatti, riusciva insopportabile alla sua anima malvagia.
 
Più inquietante ancora del Valfubia è la figura di un uomo misterioso che terrorizzava, sempre nottetempo, i viandanti sui sentieri nei dintorni di Cola (voce dialettale che significa colle, vetta) e di San Giorgio di Cola. La sua dimora era in una grotta nascosta, da qualche parte nei pressi del sentiero che unisce i due paesi scendendo nel cuore oscuro dell’impressionante vallone di Revelaso (o Revelasco: da "rava", dirupo). Chi lo aveva visto lo descriveva come un individuo vestito in modo bizzarro, ben diverso da quello semplice ed essenziale dei contadini: portava una giacca nera su pantaloni e stivali marroni. Talvolta di lui si udivano solo rumori, il fruscio dei rami degli alberi che scuoteva per far paura alla gente, oppure si intuiva la presenza, dietro qualche anfratto o qualche fronda, quando i lupi, suoi amici, ululavano nelle notti di luna piena, perché, si dice, se ne stava sempre nascosto a spiare le persone che passavano. Ma non si limitava a questo: altre volte scatenava la sua malvagità giungendo ad uccidere i viandanti, tanto che si era creato un terrore tale che la gente, al calar delle prime ombre della sera, non solo non usciva più di casa, ma vi si chiudeva proprio dentro a chiave, sussultando ad ogni rumore nella soffitta o alla porta di casa.
Non si poteva più andare avanti così, ed allora venne decisa una vera e propria battuta di caccia, cui parteciparono tutti gli uomini dei due paesi, ed anche qualche donna coraggiosa. Guidati dal lume della luna e delle lanterne e muniti di robusti bastoni di castagno, costoro setacciarono i boschi della zona. Alla fine la loro tenacia fu premiata, perché apparve, fra gli alberi, l’ombra dell’uomo malvagio, che fu riempito di energiche bastonate e scaraventato nel cuore del vallone, dal quale non riemerse più. Rimasero, di lui, solo i flebili lamenti che, durante i temporali, salivano dalla Caurga. Ma nessuno ebbe più nulla di cui temere, da allora.
Torniamo, ora, verso Codera, e fermiamoci al maggengo di Cii, posto su un bellissimo terrazzo panoramico che guarda al lago di Novate. Qui ci accoglie una delle più classiche storie di stregonerie, quella delle streghe di Cii. Protagonista un giovane di Codera, fidanzato ad una ragazza di Cii. Un giorno, mentre si recava a trovarla, si imbattè in una volpe misteriosa e, seguendola, si accorse che entrava proprio nella casa della fidanzata. Sbirciando, vide che questa e la madre, vestite della festa, ungevano tempie, polsi e caviglie, pronunciando poi la formula “Tre ur andà, tre ur a sta e tre ur a venì” e volando via attraverso la cappa del camino. Preso dalla curiosità, pronunciò anche lui la formula, ma, essendo furbo, apportò qualche modifica e disse “Un ur andà, un ur a sta e un ur a venì”. Si ritrovò, così, in un grande salone, nel quale erano riunite molte persone, anche morte, mentre un misterioso individuo, dalle gambe caprine, scriveva su un librone il nome dei presenti. Lui tracciò sul librone una croce, perché non sapeva scrivere, ed allora accadde qualcosa di ancora più incredibile: forse perché era un segno che con quel posto non si conciliava troppo, forse per qualche altro motivo, il giovane si ritrovò, nudo e con il librone nero in mano, in cima al pizzo d’Arnasca, proprio sul ciglio dell’impressionante parete liscia che precipita nella valle omonima. Siccome conosceva bene quelle montagne, riuscì a scendere a valle, dove incontrò due donne che gli offrirono una camicia ed un paio di calze, purché gli consentisse di cancellare il loro nome dal libro. Allora capì tutto: la sala misteriosa era un ritrovo di streghe e stregoni, presieduto dal diavolo, ed allora corse dal Vescovo di Como per denunciare i malefici della valle. Questi, nella cattedrale, lesse pubblicamente i nomi segnati sul libro. Ogni volta che un nome veniva pronunciato, la persona corrispondente appariva prodigiosamente. Streghe e stregoni vennero così catturati e mandati al rogo.
Questa, però, non è lunica storia di stregoneria ambientata nel piccolo nucleo di Cii; una seconda storia, raccolta dalla Scuola Media di Novate Mezzola, viene così riportata nella citata raccolta "C'era una volta": "A Codera viveva una vedova con sua figlia; allora c'erano molte vedove. Un giovanotto si era innamorato di quella ragazza e voleva sposarla, lo aveva confidato anche al prete, ma egli gli aveva detto che non era la ragazza che faceva per lui. Il giovanotto insisteva dicendo che la ragazza sapeva custodire le capre, raccogliere la legna, lavorare la maglia e che andava sempre in chiesa. Il prete continuava a dirgli di non sposarla. Allora il giovanotto gli chiese come faceva a giustificare quella affermazione e quindi il prete lo aveva invitato a casa di giovedì (il giovedì era il giorno in cui le streghe lavoravano) per dargli delle spiegazioni.
Il prete allora aveva mandato il giovane sulla grande "lobia" di casa sua, gli aveva detto di mettere il piede sopra il suo e di guardare verso Cii. Stavano arrivando la ragazza e sua madre che erano andate a prendere della legna che avevano messo in una fascina infilata sulle corna. Il povero ragazzo stava per svenire e dovette bere dell'acqua. Dovette ricredersi, e il prete gli suggerì di fare finta di niente e di fare fagotto (a quel tempo non esistevano le valigie, neanche di cartone); quindi era sceso a valle per richiedere i documenti ed era partito per l'America senza fare più ritorno."

Altre storie si raccontano sulle stregonerie della Val Codera. Una di queste parla di un gatto nero che tenta di aggredire un giovane che saliva a Codera per trovare la fidanzata: il giovane gli taglia una zampa, che si trasforma prodigiosamente in una mano con una fede al dito. Appena giunto in paese, si reca poi da una donna che cerca di lui: entrato in casa, ode il suo lamento, vede un moncone al posto della mano sinistra e capisce che il gatto era lei, e che si trattava di una strega. Ed allora se ne esce con una frase lapidaria: “Se eravate voi e non siete morta, morirete”.
Assai simile alla precedente questa seconda storia, che ha sempre come protagonista la metamorfosi di una strega in gatto nero:
"Un uomo stava scendendo a Codera dall'alta valle. Arrivato al lavatoio vecchio, dopo "Prà Mulinat", gli si fece incontro un gatto nero che cominciò a giragli tra le gambe. L'uomo tentò di cacciarlo via, ma il gatto non ne voleva sapere. Al colmo della sopportazione, l'uomo prese la roncola che portava appesa alla cintola e gli tagliò una zampa; immediatamente si fermò impietrito: la zampa appena tagliata si era trasformata in una mano di donna con una fede al dito! Arrivato a Codera gli dissero che una donna lo cercava. Andò a trovarla e questa gli disse che doveva punirlo perché le aveva fatto del male. L'uomo allora capì che quella donna non era altro che una strega e riuscì così a smascherarla.
La gente della valle sapeva che spiriti ed esseri malefici potevano scatenare il loro potere dal suono dell’Ave Maria, alle sei di sera, fino ai primi rintocchi del mattino (è un detto diffuso, in provincia di Sondrio, “suna l’Ave Maria, gira la stria”, cioè al suono dell’Ave Maria la strega si mette a girare). Ma il suono di questa campana, la Bàrbula, poteva anche salvare dagli spiriti, quando riecheggiava alle sei di mattina, termine oltre il quale ad essi non era più concesso girare per insidiare i viandanti. Una volta, infatti, salvò una donna costretta a tornare a notte fonda a Codera dopo avere acquistato una medicina a Novate. Incontrò ad Avedèe, località dalla quale si comincia a vedere la valle, quattro uomini con una lanterna, proprio mentre udiva il rintocco dell’Ave Maria mattutina. Erano spiriti, e le dissero che se non fosse suonata la campana, l’avrebbero portata via con sé.
Ma la leggenda più misteriosa, che ha come protagonisti non più streghe, ma stregoni, è ambientata all'alpe d'Arnasca, che si stende, nella valle omonima, ai piedi dello splendido scenario delle pareti, liscie e verticali, della Singe e del pizzo Ligoncio. Ecco, di nuovo, quanto riporta la raccolta citata (un contributo della Scuola Media di Novate):
"C'era la credenza che prima del Concilio di Trento, quando si scendeva dalle Alpi, il territorio veniva occupato da vari stregoni. Quando si tornava su a primavera questi, nel lasciare quello che era il loro territorio, provocavano un terribile temporale o qualcosa peggio.
Capitò che caricarono l'Alpe d'Arnasca e alla sera lasciarono lì un ragazzotto solo. Tutto intorno c'erano solo le mucche. Lassù le baite sono fatte a secco, si può guardare fuori dalle fessure presenti tra le pietre. Il ragazzo, ad un certo punto, sentì un gran rumore intorno, guardò fuori e vide cinque o sei uomini di statura smisurata. Questi piantarono nel terreno due pali, poi ne misero uno per traverso al qual appesero un gran calderone. In quest'ultimo misero a bollire un mucca intera e quando fu cotta ne presero un pezzo ciascuno. Intanto il ragazzo stava a guardare. Quando ebbero finito di mangiare, misero insieme le ossa e si accorsero che mancava la coscia. Allora uno disse: "Vai sù a Negar Fur a prendere un pezzo di sanbuco". Il sambuco, che ha una specie di midollo dentro, poteva servire per sostituire la coscia. Allora uno si diresse verso Negar Fur per prendere un pezzo di sambuco. Con una scure lo tagliarono a forma di gamba, poi lo misero sotto le altre ossa che ricoprirono con la pelle. Ad un loro cenno saltò in piedi la mucca. Si dice che per diversi anni la mucca è andata in Arnasca con la gamba di legno."
Non si può menzionare la valle d'Arnasca senza accennare allo stupendo e misterioso monolite piantato proprio al suo centro, il Sas Carlasc', sotto cui sta appollaiato il bivacco Valli.


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