mercoledì 13 maggio 2015

LA MONACA DI MONZA



Alessandro Manzoni riprende la figura della "monaca di Monza", tuttavia cambia i nomi ai personaggi (suor Virginia è chiamata nel romanzo Gertrude, il suo amante è chiamato Egidio) e oltre a cambiarne alcuni dei particolari - la monacazione è una suggestione imposta direttamente dal padre; presenti e complici sia la madre che il fratello maggiore, sono modificate altre circostanze -, ne trasporta la vicenda in avanti nel tempo di alcuni anni (l'azione del romanzo si svolge tra il 1628 e il 1630, oltre vent'anni dopo i fatti reali). La storia aveva uno spazio maggiore ne Gli sposi promessi.

È la figlia del secolo (il Seicento), che obbedisce in tutto e per tutto ai precetti della religione adottata e alle cieche leggi dell'orgoglio del casato. Il principe-padre le aveva detto: "Il sangue si porta per tutto dove si va"; "comanderai a bacchetta"; "farai alto e basso" (capitolo IX). Manzoni scrive ancora nel IX capitolo: "Ma la religione, come l'avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l'altre". È condotta fatalmente a sentire e accettare la logica dei suoi torturatori; antagonista del padre, cresce formata della stessa sostanza spirituale di lui. Non sogna l'amore, ma, come scrisse il critico Eugenio Donadoni, l'amore-pompa, l'amore-vassallaggio. In convento si sente la figlia del principe; educanda, gode di distinzioni e privilegi; monaca, è "la signora".

Educata alla religione dell'orgoglio di casta e di famiglia, Gertrude è una creatura debole: "per decidere della sua sorte non occorreva il suo consenso, ma solo la sua presenza" (cap. IX). Non essa agisce, ma gli altri per lei. Indice di fiacchezza morale sono sia il suo orgoglio, frutto dell'educazione familiare, sia il suo ritiro interiore dove le è piacevole ritirarsi dalle lotte che non sa affrontare per vivere le sue illusioni ed idolatrare le sue passioni.Tornare alla vita è per lei tornare in balìa degli altri. Non ha neppure la forza della malvagità, non ha coscienza del delitto, ma mancanza di coscienza. Non ha l'energia necessaria per operare la propria salvazione. Manzoni ha pietà per lei (la chiama "Gertrudina", "poveretta", "innocentina") ma come giudice è inesorabile: La sventurata rispose (cap. X).

Nella concisione di questa celebre frase si coglie la gravità del gesto, tanto per la trasgressione di Gertrude ai voti monacali, quanto per le conseguenze drammatiche che ne deriveranno. Ella è "sventurata" poiché non ha saputo cogliere le occasioni di ravvedimento e di espiazione. Nella vicenda di Gertrude diventa essenziale il rapporto con il principe-padre (padre della Monaca di Monza) che con la sua autorità e volontà impone una monacazione forzata. Gertrude vive con soggezione e paura questo rapporto, incapace di reagire e subendone l'egoistica violenza, al punto di trovare un attimo di pace solo quando vede nel padre la soddisfazione per la sua scelta monacale: allora, finalmente, fu, per un istante, tutta contenta (cap. X).

L'atteggiamento di timore e di sudditanza psicologica di Gertrude viene espressa soprattutto attraverso lo sguardo, per la sua incapacità a parlare (per esempio, nel capitolo X: senza alzare gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti; alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole; quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili). A causa della sua monacazione forzata e, di conseguenza, della fede che le è stata imposta, è portata a creare in sé stessa due personalità. Una che la porta a peccare, e l’altra che la fa sentire in colpa del peccato appena commesso. Possiamo riscontrare questa cosa anche nel fatto che una parte della sua personalità la spinge ad aiutare Lucia, un'altra a fare il contrario, in quanto provava invidia per Lucia, che si stava per sposare, mentre lei non avrebbe mai potuto.

La vera monaca di Monza:
I nonni paterni di Marianna erano Luigi de Leyva e Marianna de la Cueva, principi d’Ascoli. Luigi apparteneva a un’illustre famiglia spagnola salita a grande fama grazie a suo padre Antonio de Leyva, grande comandante militare al seguito di Carlo V e primo governatore di Milano dopo la morte del duca Francesco II Sforza nel 1535.

Il padre di Marianna, Martino de Leyva, secondogenito di Luigi, era nato nel 1548 o 49. Come figlio cadetto aveva dedicato la sua vita alla carriera militare. Lo troviamo a combattere a Granada, a Lepanto e alla Goletta. A poco più di vent’anni è nominato comandante di una compagnia di lance a Milano. Nel 1574 è ad Alessandria con le sue truppe. E’ ora ormai di puntare a nomine di prestigio, ma per questo ci vogliono parecchi soldi e così, il 15 dicembre 1574, a 26 anni, sposa Virginia Marino, la figlia ed erede dell’uomo più ricco di Milano, il banchiere Tommaso Marino, per una dote (promessa) di 50.000 scudi. Virginia era vedova del primo marito dal 1572, data di morte anche del padre. Alla morte del marito era tornata a Milano a curare l’eredità lasciando i suoi cinque figli a Sassuolo in cura ad uno zio.

Marianna, la prima ed unica figlia della coppia, nasce dopo circa un anno. Non esistono documenti che certifichino il giorno esatto della nascita, ma solo elementi indiretti. In particolare, nell’interrogatorio del processo avvenuto il giorno 22 dicembre 1607 lei dice: “Io havrò 32 anni.” Da ciò si è desunta una data approssimativa che va dalla fine del 1575 all’inizio del 1576. La bambina prende il nome dalla nonna o più probabilmente dalla madrina Marianna, sorella di Martino, che aveva sposato Massimiliano Stampa, marchese di Soncino.

La coppia con la bambina abita in Palazzo Marino. L’atto del 2 settembre 1592 del notaio Pietro Cicereio dice che abitavano “quella cantonata verso S. Fedele pigliando da detta cantonata sino a tutto il netto dell’andito della porta che resguarda S. Simplicianino nel quale apartamento interviene esso andito, una saletta et tre camere et un porteghetto con due vasi necessari et un poco di giardino in larghezza di braccia cinque onze tre e mezza in larghezza braccia 27 e mezza in circa, con un pozzo et due torriole, le quali vanno a servire ad  uno apartamento superiore simile a questo et sotto le sue cantine con il medesimo riparto, il tutto è in volta.” (Archivio di Stato - Palazzo Marino)

Dopo la morte del banchiere infatti il palazzo era stato diviso in quartieri e Virginia aveva avuto in uso quello all’angolo tra piazza san Fedele e via Caserotte. Il 29 agosto 1576 Martino de Leyva riceve l’appartamento al posto della dote non ancora versata. A questa data la moglie sta ancora bene, ma un mese dopo, il 1 ottobre 1576, quando fa testamento, la malattia - probabilmente la peste che infuriava a Milano in quell’anno - è già allo stadio finale.

Il testamento di Virginia è all’origine di una lunga vicenda giudiziaria che si risolverà a danno di Marianna. Le volontà della madre erano quelle di lasciare eredi la figlia Marianna e il primogenito del suo primo matrimonio Marco Pio, ciascuno dei due al 50%. Il marito doveva ricevere “l’usufrutto della dote e un anello con gemma di valore” (forse l’anello nuziale). Il testamento viene subito impugnato dalle sorelle di Marco Pio escluse che chiedono immediatamente un inventario dei beni.

Da questo inventario, eseguito dal notaio Giovanni Mazza il 10 ottobre 1576, sappiamo che nell’appartamento di palazzo Marino c’era una culla con “copertura di grogran goernito di un pasaman di setta biancha foderata di sandal biancho”. Il corredo della bambina comprendeva anche “tre patelli di panno rosso, tre lanzoletti, tre orletti, sei patelli, e più doi lanzoletti di cambraja goerniti di un lavor di refo fatto a osso”. E’ la prova del soggiorno di Marianna nel palazzo, che, dopo la morte della madre, viene lasciato quasi subito anche dal padre che nell’agosto-settembre del 1577 va a combattere nelle Fiandre dove rimane per tre anni, fino al 1580. Marianna vive con la zia paterna Marianna Stampa o con la zia materna Clara Torniello che stava nell’appartamento adiacente di Palazzo Marino. Chi l’assiste è la balia Vittoria alla quale Virginia ha lasciato un legato di 25 scudi d’oro forse perché continui a curare la bambina.

La causa intanto va avanti. Nel 1580 Martino de Leyva torna apposta a Milano per siglare un compromesso con le sorelle che snatura il testamento di Virginia: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a Martino e alla figlia, 7 ai figli di primo letto. E’ chiaramente un furto nei confronti della bambina. Lo storico Ripamonti, fonte primaria di tutta la storia della Monaca di Monza, dice che Martino agiva “sotto gli stimoli dell’avarizia”. Il compromesso in perdita era dovuto probabilmente anche alla fretta che questi aveva di lasciare Milano per seguire altre campagne militari.

La famiglia de Leyva comunque non era certo in ristrettezze. Il bilancio delle entrate milanesi di Martino (e figlia) quale risulta da un documento del 25 luglio 1580 ammontava a L. 9.382 l’anno corrispondenti alle rendite milanesi derivanti dalla dogana e dalla mercanzia. C’erano poi le tenute di Mirabello e della Torrazza, le rendite della contea di Monza, il dazio dell’imbottato. La contea di Monza era un’entrata dei de Leyva che turnavano tra loro fratelli ogni due anni.

Secondo il racconto del Manzoni, Marianna appare destinata al chiostro fin dalla nascita, ma ciò non sembra corrisponda alla verità storica. In una lettera del padre del 26 giugno 1586 si parla delle prospettive matrimoniali di Marianna e di una dote di 7000 ducati. La svolta in questo senso deve essersi verificata poco dopo, e precisamente nel carnevale 1588 quando il padre si risposa a Valenza in Spagna con donna Anna Viquez de Moncada allontanandosi così definitivamente da Milano. Grazie a questo importante matrimonio Martino ottiene la carica di Maestro di Campo generale della cavalleria e della gente d’armi del regno di Napoli. Avrà inoltre dalla seconda moglie i suoi veri figli: Luigi, Antonio e Gerolamo, che lo seguiranno nella carriera militare. La tendenza a monacare le figlie viene attuata comunque anche nei confronti dell’unica figlia spagnola Adriana. Le altre due figlie nate dalla seconda moglie, Maddalena e Giovanna, muoiono all’età di 11 e 8 anni.

Nello stesso anno 1588 Marianna, che fino a quel momento era vissuta sotto la tutela delle zie, entra nel monastero di Santa Margherita a Monza e compie la Vestizione. Aveva 13 anni e tre mesi, un’età sufficiente per quest’atto che secondo le norme doveva essere compiuto dopo i 12 anni. Il monastero di Santa Margherita si allungava lungo lo Spalto di Porta de’ Grandi (oggi via Azzone Visconti) che costeggia il Lambretto e vi si accedeva da un vicolo che oggi si chiama appunto “Via della Signora”. Era stato un tempo delle Umiliate per passare poi all’ordine benedettino. A quest’epoca ospitava 20 monache.

Il 15 marzo 1589 don Martino de Leyva compare per l’ultima volta accanto alla figlia. Lo troviamo a Monza per promettere la dote di Marianna consistente in un deposito di 6.000 lire imperiali che fruttavano una rendita annua di L. 300. Secondo l’atto la somma doveva essere depositata subito a Giuseppe Limiato, che infatti dice di averla ricevuta, il quale poi l’avrebbe versata al monastero all’atto della professione. In realtà  Giuseppe Limiato non ha ricevuto proprio niente. Sono presenti come testimoni l’agente Giuseppe Molteno e il farmacista Rainerio Roncino, e un certo Giuseppe Panzulio. Secondo i calcoli di Luigi Zerbi, lo studioso che per primo ha compiuto una seria analisi dei documenti riguardanti la monaca di Monza, con quest’atto in realtà il padre rubava alla figlia 27.860 lire delle 39.861 che le spettavano.

Il 26 agosto 1591, trascorso il giusto periodo di noviziato, l’arcivescovo autorizza la richiesta delle novizie di ricevere la professione. Le tre novizie sono suor Virginia Maria, suor Benedetta Felice, suor Teodora e suor Ottavia.

Il 12 settembre 1591 Marianna compie la Professione e diventa Suor Virginia Maria. Sappiamo che a questa data le suore non avevano ancora visto il deposito di 6.000 lire promesso due anni prima. Durante un incontro avvenuto due giorni prima con il Limiato avevano concesso due anni di dilazione. In realtà da una causa del 1626 sappiamo che a quell’epoca non era ancora stato versato. Vengono invece versate regolarmente le rendite annue. Il 20 maggio 1594 il letterato monzese Bartolomeo Zucchi le invia una lettera molto ampollosa nella quale si loda la sua scelta di farsi monaca. A vent’anni suor Virginia diventa “La Signora” perché esercita per mandato del padre il biennio di sovranità a Monza, consistente nell’emettere gride, ordinare arresti, rimettere le pene, ecc. Esiste un’ordinanza del 26 dicembre 1596 riguardante la pesca sul Lambro a sua firma. In questo periodo riscuote l’ammirazione di tutti per il suo contegno.

Giovanni Paolo Osio, la cui casa confinava con il monastero, sale su un albero del suo orto e scambia saluti con Isabella, che viene sgridata da Marianna, tolta dal collegio e maritata. L’episodio è raccontato anche da suor Virginia durante il processo in questi termini:

“Detto Gio. Paolo Osio faceva l’amore con la signorina Isabella Ortensia secolare la quale era nel monastero in dezena et havendo io trovato che stavano guardandosi l’uno e l’altro alla cortina delle galline gli feci un gran rebuffo che portasse così poco rispetto al monastero massime che detta giovane era data in mia custodia, et esso se n’andò via bassando la testa senza dire altro”.

Poco tempo dopo, nell’ottobre 1597, viene ucciso l’ex soprastante a Monza dei de Leyva, il Molteno, che aveva circa 60 anni. L’uccisione è addebitata all’Osio. Le cause non sono chiare: forse una vendetta contro suor Virginia per lo sgarbo ricevuto oppure poteva anche essere un omicidio concordato con il Limiato per questioni di interesse. Entrambi i soprastanti erano dei furfanti che cercavano in tutti i modi di arricchirsi a spese dei signori assenti. La seconda ipotesi sembra più probabile tanto è vero che poco dopo - il 24 novembre 1597 - i De Leyva da Napoli sostituiscono il Limiato con Luigi Trezzo detto Perruccone.

Suor Virginia comunque è in questo periodo la Signora di Monza ed amministra la giustizia. Il giovane Osio da una finestra che guardava nel monastero cerca di contattare suor Virginia e le fa cenno di volerle mandare una lettera, forse per giustificarsi, ma la Signora, in collera con lui per l’omicidio, ne ordina l’arresto. L’Osio allora fugge da Monza e resta bandito per un anno. Poi, per intercessione di molti e su pressioni della superiora, ottiene la grazia.

L’Osio a quell’epoca, secondo alcuni indizi, doveva avere circa 25 anni. Il Ripamonti lo definisce “ricco e ozioso”. Il padre Giovan Paolo e il fratello Cesare erano molto noti a Monza per le loro ribalderie e i numerosi ferimenti. Anche il fratello Teodoro ucciderà lo zio per affrettare l’eredità. Fino a quest’anno non c’è traccia invece di reati di Giovan Paolo, che frequenta personaggi altolocati come i de Leyva, Francesco D’Adda, Giovanni Borromeo, Ludovico Taverna ed Ermes Visconti. Non è del tutto ignorante: conosce il latino e utilizza un manuale per comporre le lettere. Secondo il prete Arrigone possedeva “qualche libro”. E’ amico del convento e della superiora suor Francesca Imbresaga.

In un’epoca imprecisata del 1598, l’Osio fa ritorno nella sua casa di Monza. L’ira di suor Virginia è ormai spenta, anzi la giovane monaca scopre improvvisamente di sentire una grande attrazione per lui e lo spia non vista ogni volta che scende in giardino. La suora Ottavia Ricci racconterà in seguito della frase famosa - “si potria mai vedere la più bella cosa?” - pronunciata da suor Virginia in sua presenza alla vista del giovane.

L’Osio, forse per ringraziarla della grazia ricevuta o perché si era accorto di queste attenzioni, si avvicina a Marianna. Inizia uno scambio di lettere, recapitate in giardino tramite un filo calato dal finestrino, seguito poi da alcuni regali. L’Osio però all’inizio sbaglia strategia scrivendo una lettera molto audace; viene subito corretto dal prete Arrigone che scrive lui stesso le altre lettere ispirate ad un’ipocrita devozione. Ad un certo punto lo squallido “Cirano” confessa addirittura alla monaca l’equivoco, professandole il suo amore, ma viene scacciato in malo modo. Nell’agosto del 1599, forse liberata dagli scrupoli in seguito alla morte del padre, la suora accetta di avere un primo incontro con l’Osio sulla porta del convento. L’emozione è talmente forte da provocare nella giovane una forte malattia. A Natale l’Osio entra per la prima volta nel monastero ed ha un rapporto sessuale con Virginia. Nel processo, che si svolgerà al termine della vicenda, suor Virginia sosterrà di aver ceduto perché era stata stregata d’amore dall’Osio da quando aveva baciato una calamita nera legata in oro, che era stata battezzata dal prete Arrigone complice dell’Osio. L’episodio della calamita è raccontato da suor Candida Colomba Brancolina in questi termini:

“... una volta cavandosi dal seno calamita battezzata che havea legata in oro dicendo che era una reliquia la basciò toccandola con la lengua, et poi la volse dare a basciare a suor Virginia Maria, ma lei stava renitente et esso gli soggiunse che lo faceva perché havea schivio di lui, et fece tanto che gli la fece toccare con la lingua ...”

Gli incontri tra i due, organizzati con la complicità di altre quattro suore amiche e succubi della Signora, si susseguono frequentemente. I vicini di casa avvertono la superiora di questo andirivieni, ma all’inizio senza creare troppo allarme perché si sparge la voce che l’Osio aveva una relazione spirituale con suor Virginia e che voleva farsi cappuccino.

Nel 1602 Marianna partorisce il “putto morto” che le complici Benedetta e Ottavia consegnano all’Osio. Dopo il primo “incidente” però suor Virginia è molto turbata. Nel vano tentativo di dimenticare l’Osio getta nel pozzo più di 50 chiavi che l’Osio continua a far rifare dal fabbro; è tentata di gettarsi per disperazione nel pozzo del monastero ma è trattenuta da un’immagine della Madonna che si trovava nel giardino; fa voti alla Madonna di Loreto inviandole ricchi doni. E’ sempre più convinta che si tratti di “mal d’amore” provocato da malefici. Infatti dice che si trovavano nel suo letto “osse dei morti ratti morti corde di ferro uncini...”. Ricorre allora anche lei a sortilegi per combattere la magia. Le consigliano di diventare “coprofaga” dell’amante, un rimedio considerato molto efficace contro il mal d’amore. Procuratasi gli escrementi dell’amante, li fa seccare e li beve per tre volte alla mattina dentro un brodo fatto con fegato e cipolle.

Malgrado tutti questi tentativi, i rapporti riprendono, anche se più saltuariamente anche perché per alcuni mesi l’Osio è a Roma e a Loreto, e nell’autunno del 1603 suor Virginia resta nuovamente incinta di una bambina che verrà partorita l’8 agosto 1604. Questa figlia che sarà chiamata Alma Francesca Margherita vive con l’Osio che la legittimerà il 17 aprile 1606 dicendo di averla avuta da una certa Isabella da Meda. Nel suo primo anno di vita viene allattata da diverse balie, una di queste è la figlia di Susanna, la serva del monastero. In corrispondenza a queste due gravidanze, Marianna chiede alla matrigna una rendita maggiorata di 20 ducati, forse per pagare chi la assisteva. Complici dei due parti sono suor Benedetta e suor Ottavia. Nel secondo parto anche suor Silvia Casati e suor Candida Colomba. Dopo il secondo parto,  suor Virginia esce varie volte dal convento per vedere la bambina in casa dell’Osio. Altre volte invece gliela portano dentro il convento. Suor Virginia la accarezza e prepara dei vestiti per lei anche se la giudica brutta e non le sembra la bambina che lei ha partorito. Durante la gravidanza, per giustificare l’ingrossamento, si dice che è ammalata alla milza e che è idropica.

In questo periodo, poco dopo il secondo parto, qualcosa si fa per tappare la falla: vengono murate le finestre che guardano verso la casa dell’Osio e suor Virginia viene trasportata con tutto il letto (era spesso ammalata) in un’altra parte del monastero.

Il 6 giugno 1605 l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo visita il monastero senza avere alcun sospetto delle gravi irregolarità che turbavano quella comunità religiosa. Assegna diverse penitenze a suor Virginia: i digiuni e le flagellazioni sembra che abbiano fatto cessare la relazione dimostrandosi più efficaci della ripugnante pozione magica.

Nell’estate del 1606 la situazione, che sino ad allora era rimasta miracolosamente in equilibrio, inizia a precipitare. La conversa Caterina da Meda, in occasione della visita al convento di Mons. Pietro Barca, canonico di S. Ambrogio, vuole rivelare la relazione di suor Virginia. Caterina non era professa e era considerata inadatta a diventare monaca per il suo cattivo carattere e forse anche perché rubava nel monastero. Il 23 luglio, pochi giorni prima della temuta visita, Caterina viene chiusa per punizione nella legnaia su istanza di suor Virginia perché aveva sporcato il letto di suor Degnamerita che piaceva molto a suor Virginia perché suonava bene l’organo e cantava. La sera prima suor Virginia e le sue complici (suor Benedetta, suor Candida Colomba, suor Ottavia e suor Silvia) vanno da lei per imporle di non parlare ma lei non accetta. L’Osio allora è costretto ad ucciderla con tre colpi in testa. Viene nascosta nel pollaio mentre si apre un buco nel muro per far credere a una sua fuga. Il giorno dopo si svolgono le elezioni che vedono la vittoria del partito avverso alla Signora guidato da suor Angela Sacchi e dall’Imbersaga. L’Imbersaga sostituisce suor Virginia nella carica di vicaria, suor Angela sostituisce la precedente superiora Bianca Caterina Homati in carica dal 1603. Il giorno dopo l’Osio seppellisce il corpo di suor Caterina nella sua “neviera” mentre la testa è gettata più tardi nel pozzo di Velate. Suor Virginia minaccia le monache complici (“mi bravò su la vita”) di fare la stessa fine se avessero parlato.

Questo omicidio resta segreto perché tutti sono convinti che la conversa sia fuggita. Nell’autunno del 1606 però le voci sulle irregolarità del convento si fanno più frequenti anche se pronunciate con “trepidazione, esitazione e perplessità”, ma anche con un tono “più franco” e “più afflitto”.Il fabbro  aveva contraffatto le chiavi (forse un certo Cesare Ferrari) e parla in giro dei fatti del convento e viene ucciso dall’Osio, che tenta anche di uccidere Rainerio Roncino, il farmacista, ma quest’ultimo si salva perché il colpo di archibugio non va a segno. L’Osio avrebbe voluto uccidere anche il prete Arrigoni per far smettere tutte le chiacchiere con il terrore, ma suor Virginia glielo impedisce.

Tutto questo trambusto arriva alle orecchie del governatore di Milano. Nel carnevale del 1607 l’Osio è arrestato dal Fuentes e incarcerato a Pavia. L’operazione è condotta con discrezione per non sollevare scandalo, e non si sa se si riferisce agli omicidi o alla relazione con la monaca. Il 4 luglio l’Osio commette comunque un grave errore: scrive una supplica all’arcivescovo proclamandosi innocente di tutto e allega una dichiarazione medica del 5 maggio dove si afferma falsamente che il soggiorno in carcere avrebbe potuto aggravare la malattia del recluso mettendo in pericolo la sua vita.

Anche suor Virginia si muove spedendo al Fuentes una lettera sottoscritta da altre monache per dire che tra l’Osio e il monastero i rapporti sono corretti.

Il Borromeo, che non sapeva nulla, si mette in allarme e inizia ad informarsi sull’Osio e su eventuali suoi reati legati alla vita religiosa di Monza. Lo mettono quindi al corrente delle voci che circolavano sul monastero di S. Margherita e perciò, tra fine luglio e inizio agosto 1607, eccolo a Monza dove finge di compiere una normale visita pastorale mentre in realtà esplora la situazione. Nel monastero conversa con le monache invitando a sistemarsi i capelli quelle che le avevano in disordine. Finalmente si arriva al colloquio riservato con la Signora:

 “ con calma al problema che doveva trattare, sonda l’animo della donna, lo rigira da ogni parte più per ottenere la confessione di una colpa - qualora ce ne sia qualcuna - che per biasimarla e accusarla. La ammonisce a ricordarsi della casata e dei propri natali e anche dei doni che le sono stati dati per grazia di Dio, come pure a comportarsi veramente come si addice a che è primo quanto a pietà, modestia e modello di ogni virtù; le ricorda che non solo le suore e le vergini che risiedono nel suo stesso monastero, ma anche tutto il popolo della città è attento, tiene gli occhi rivolti al luogo ove essa vive, osserva ed esamina quanto si può non per malignità o livore, ma perché in realtà è la condizione di ogni principe a comportare simile attenzione. Egli è abbastanza convinto che fino a quel giorno tutte le sue azioni sono state innocenti, pure e senza colpa; del resto, se per caso fossero sorte in seguito delle chiacchiere e delle voci meno convenienti, sarebbe stata la santità della sua vita a confutarle. Disse questo e altre cose. L’esito del colloquio fu il seguente: che da un lato la donna rimase più sospettosa di quanto fosse in precedenza; dall’altro il Cardinale se ne partì più inquieto e preoccupato di quanto fosse prima di giungervi”.

Durante questo colloquio, suor Virginia dice al cardinale che la prigionia dell’Osio potrebbe mettere a rischio il suo onore, ma capisce che le cose si stanno mettendo male e fa avvertire la famiglia dell’Osio che se Giovan Paolo fosse tornato a infastidirla sarebbe “stata sforzata farlo sapere alle mie genti acciò gli facessero una burla”.

Il 28 settembre il fratellastro Luys de Leyva risponde affermativamente al cardinale che aveva chiesto di alzare il muro del convento.

Nello stesso mese l’Osio fugge dal castello di Pavia e torna segretamente a Monza e il 6 ottobre Camillo il Rosso, uno dei suoi bravi, uccide Rainerio Roncino che aveva parlato in giro di strane porcherie che avvenivano nel convento e che era scampato al precedente attentato. Mettendo una pistola a casa sua, viene fatto incolpare dell’omicidio il prete Paolo Arrigone, che è tradotto nell’arcivescovado di Milano. Inizia così il famoso processo, i cui Atti sono stati recentemente pubblicati dopo molti decenni di titubanze da parte della Curia milanese.

Al processo contro il prete Arrigone il portinaio del monastero, Domenico Ferrari, testimonia a metà ottobre che il vero omicida è il Rosso su mandato dell’Osio, furioso perché  il Roncino aveva detto in giro che la bambina che viveva con lui era figlia di suor Virginia. Subito dopo il portinaio e la moglie vengono licenziati dal monastero per averlo diffamato.

Venuto a conoscenza di queste accuse, l’Osio prima si nasconde di notte nella vicina chiesa di S. Maurizio, poi dal 1° novembre si nasconde in convento, prima nella stanza di suor Ottavia e poi in quella di suor Benedetta. A metà novembre manda fuori dallo Stato (a Verona o a Bergamo) il suo fedele servitore e “bravo” Giuseppe Pesseno perché non venisse preso e costretto a confessare.

Le altre suore, vedendo le due complici girare per il convento con il cibo, si accorgono dell’”ospite” e avvisano subito il cardinale che il 25 novembre 1607 manda a prendere suor Virginia con la forza trasportandola di notte a Milano, nel monastero di S. Ulderico al Bocchetto. La cosa non risultò molto semplice perché, come racconta il Ripamonti, suor Virginia rompe i legami, elude la sorveglianza e afferrata una spada la brandisce minacciosa e furibonda e tenta di fuggire. Ripresa, “sbatté il capo contro la parete e, se non fosse stata disarmata e trattenuta da alcune mani, si sarebbe colpita da sè”.

E’ forse in questa occasione che si verifica il drammatico incontro col cardinale che deve aver profondamente colpito il Manzoni.

“E’ facile comprendere come da quel corpo, da quella bocca e da quell’animo, insieme alla verginità, se ne fosse andato anche ogni pudore, e come essa, non più vergine, non fosse degna di stare più a lungo nel novero delle vergini; e infatti osò dire di essere stata iniziata agli ordini sacri in modo non conforme alle regole e alle disposizioni; di essere stata chiusa in un monastero dai suoi contro la propria volontà; di non aver avuta l’età prescritta quando vi entrò; di non avere avuto gli anni richiesti per la cerimonia della professione; e quindi che non poteva pronunciare i voti. E sospinta dalla propria audacia e da una grande arroganza pronunciò in particolare queste parole: che lei si doveva sposare, e che dovevano darle colui che essa aveva già prescelto”

Il giorno seguente l’Osio scappa del convento e si rifugia nei dintorni di Monza. Il 27 novembre iniziano gli interrogatori con quello della superiora. Il 28 parla il portinaio, la moglie e la vicaria suor Francesca Imbersaga, nemica di suor Virginia. Il 29 novembre, suor Benedetta riceve la visita in parlatorio di un certo fattore Damiano (da parte dell’Osio) che chiede notizie di Virginia. Spaventata dagli interrogatori delle suore avviati nel monastero, suor Benedetta fa chiedere all’Osio di farla fuggire dal convento assieme a suor Ottavia. Escono la sera stessa da un buco aperto nel muro, incontrano l’Osio e si avviano fuori città. Arrivati al ponte sul Lambro l’Osio tenta di uccidere suor Ottavia buttandola nel fiume e colpendola ripetutamente con l’archibugio sulla testa. La suora tuttavia riesce a salvarsi, viene soccorsa e trasportata nel monastero di S. Orsola in Monza dove però morirà per le ferite il 26 dicembre dopo aver confessato i delitti commessi. La sera del giorno dopo l’Osio tenta di uccidere anche suor Benedetta Felice Homata buttandola nel pozzone di Velate presso Vimercate dove si rompe due costole e il femore. Anche lei viene soccorsa e trasportata al monastero dove inizia a confessare. Questo duplice tentato omicidio, travisato dal tempo, si è trasformato in una leggenda secondo la quale l’Osio avrebbe gettato la monaca o addirittura la Signora nel cosiddetto “pozzo della Spagnola” che oggi è murato nella cinta del Regio Parco, presso al ponte sul Lambro, nella via per andare dalla città al convento delle Grazie.

Il 9 dicembre un’ispezione del pozzo di Velate fa saltare fuori la testa di Caterina da Meda. L’11 dicembre suor Ottavia confessa il delitto. Il 13 dicembre si scoprono nella neviera dell’Osio gli altri resti di Caterina, che vengono sepolti a Milano a S. Stefano in Brolo. Lo stesso giorno vengono carcerate nel monastero anche le altre due complici: suor Candida Colomba e suor Silvia Casati. L’Osio si rifugia nei territori di Venezia per sfuggire all’ira del governatore Fuentes che vuole a tutti i costi la sua testa. Su sentenza del Senato del 19 dicembre la sua casa a Monza viene prima devastata e poi demolita.

Il 20 dicembre l’Osio scrive una seconda lettera al cardinale Borromeo, lo ringrazia per l’aiuto prestato quand’era prigioniero a Pavia, dice che lui e suor Virginia sono innocenti e che la colpa di tutto è delle due “bestie” - suor Ottavia e suor Benedetta -  che lui ha provveduto a “castigare” per conto di Dio, ma dalle deposizioni raccolte nel processo contro le suore emerge una verità ben diversa. Il 22 dicembre a conclusione della prima fase dell’inchiesta è interrogata a Milano suor Virginia che ammette la relazione e l’omicidio incolpando di tutto l’Osio e il prete Arrigone. Il 2 gennaio 1608 Gian Paolo Osio è citato per i due tentati omicidi e l’omicidio di Caterina e anche per aver tentato di incolpare il prete Arrigoni dell’omicidio Roncino. Il 25 febbraio è condannato in contumacia alla forca e alla confisca dei beni.

Camillo il Rosso, Nicolò Pessina detto Panzulio e Aloisio Panzulio, servi dell’Osio, sono condannati alla decapitazione e alla confisca dei beni per l’uccisione di Rainerio Roncino. Già scappati oltre il confine, questi figurano ancora tra i ricercati nel 1614. Una grida del 5 aprile 1608 promette 1000 scudi e la liberazione di quattro banditi se l’Osio è preso vivo, la metà se è preso morto.

La sentenza prevede inoltre che al posto della casa sia innalzata una Colonna infame, con base e capitello e sopra una statua della Giustizia in ceppo gentile. La statua verrà danneggiata da ignoti pochi mesi dopo sollevando le ire del Fuentes (grida del 23 maggio 1609).

Il 20 giugno 1608 la madre dell’Osio, Sofia Bernareggi, di 84 anni, chiede al Senato di ricevere una sovvenzione pari agli interessi sui beni confiscati. Le danno invece una fideiussione per 50 scudi.

L’Osio sarebbe stato ucciso a tradimento nei sotterranei del palazzo del suo amico Taverna che lo aveva ospitato, oggi palazzo Isimbardi. Secondo un altro racconto sarebbe stato decapitato a Monza. Il messaggero che portava la testa a Milano si sarebbe imbattuto nel Fuentes che l’avrebbe buttata a terra e calpestata. In base a questo episodio sarebbe morto nel 1609. Sappiamo dai documenti che nella primavera del 1609 era ancora vivo mentre nel 1613 è ricordato come defunto.

La Colonna venne tolta il 13 maggio 1613. Il campo era diventato un ritrovo di giocatori di “ballone, palla e pallamaglio” che infastidivano le monache scavalcando spesso il muro per recuperare palle e palloni.

Il processo di Suor Virginia inizia il 27 novembre 1607 con l’interrogatorio della superiora Angela Sacchi da parte del vicario criminale Gerolamo Saracino. E’ il primo atto del processo In Causa violationis clausurae deflorationis et homicidii Monialis in Monasterio Sanctae Margaritae Modoetiae patratorum a Io. Paulo Osio.

Il 22 dicembre suor Virginia compare davanti a Gerolamo Saracino per il primo dei suoi due “costituti”. Marianna si difende con la tesi della nullità dei voti e sostenendo che forze diaboliche avevano esercitato su di lei una forza irresistibile.

Una lettera del 23 febbraio 1608 annuncia che arriverà a Milano un valente giurista: Marmurio Lancillotti da Spoleto. Era stato richiesto dal Borromeo forse per poter avere la sentenza da una persona non influenzabile dalle famiglie milanesi coinvolte nel processo. Più probabilmente viene chiamato perché era emerso un sospetto di eresia da parte del prete Arrigone per la storia della calamita e ciò comportava un intervento del Sant’Uffizio. Il nuovo giudice poteva cumulare sia il processo ordinario di competenza vescovile sia quello di competenza dell’inquisizione.

Dal 19 febbraio al 27 marzo 1608 si svolgono gli interrogatori del prete Paolo Arrigone dal parte di Gerolamo Saracino che poi passa l’incarico al Lancillotto che riprende gli interrogatori il 22 maggio con suor Candida Colomba che conferma le accuse anche sotto la tortura dei sibilli (per 15 minuti). Il 31 maggio chiede di interrogare suor Virginia al Bocchetto ed eventualmente di sottoporla per un periodo di due Miserere alla tortura dei sibilli, legnetti sistemati tra le dita delle mani giunte. L’interrogatorio è del 14 giugno. L’imputata in questo caso deve solo confermare sotto tortura le dichiarazioni già rese contro il prete. Interroga nuovamente e ripetutamente Paolo Arrigone, sottoponendo alla tortura anche il portinaio (12 giugno, tortura della corda) e la moglie (23 giugno, sibilli per tre Miserere e più) che devono soltanto confermare anch’essi le accuse già pronunciate contro il prete.

La sentenza viene ponderata da luglio fino al 18 ottobre 1608. Il 18 ottobre, letta la sentenza, Virginia è condotta nel ricovero delle convertite di S. Valeria per essere murata in una cella. Nella sentenza le colpe di Virginia non sono esplicitate, ma vengono sintetizzate come “plurima gravia, et enormia, et atrocissima delicta, de quibus omnibus in processu contra eam.” Il Ripamonti dice che suor Virginia accoglie questa decisione “come un graditissimo dono”.

Il 18 ottobre 1608 è emessa la condanna di Paolo Arrigone a tre anni di triremi  condanna mite per via della prigione già scontata dall’imputato. Al suo ritorno dovrà risiedere almeno 15 miglia lontano da Monza. La sentenza viene notificata il 27 gennaio 1609.

Il 27 luglio 1609, a conclusione del processo è emessa la sentenza contro le altre suore (Benedetta, Candida e Silvia) condannate ad  essere murate vive a vita nel convento di S. Margherita. Nei giorni precedenti (23 e 24 luglio) erano state interrogate altre suore alla ricerca di eventuali complici.

Il 25 settembre 1622, dopo 14 anni di segregazione, suor Virginia esprime il suo pentimento e può uscire dalla cella dov’era stata murata. Probabilmente anche le sue compagne prigioniere nel monastero di Monza sono liberate in questo stesso periodo.

Appena uscita, resta muta e solitaria. Chiede solo di parlare con il Borromeo, che dopo molte insistenze da parte delle suore di S. Valeria, acconsente a vederla e incontrandola la apostrofa con queste durissime parole:

“E così dunque, femmina spudorata, non ti vergogni di presentarti al tuo pastore? E così dunque tu, infame, osi anche stare davanti ad un presule? Tu, del tutto indegna di stare sulla terra, degna piuttosto di ogni supplizio, degna di essere rinchiusa tra due pareti, finché sei viva, come pure di essere sepolta all’inferno, una volta morta. Di’ sù, di’ chiaramente una buona volta se sei proprio quella stessa che in passato era tanto potente! Non sei stata abbastanza punita sino ad ora? Desideri ancora che si faccia ricorso a carceri più strette, che ti siano comminati supplizi più severi? Che vuoi, femmina miserabile? E stai attenta a non alzare gli occhi impudichi, indegni di fruire e di godere la luce”. (Carlo Marcora, La biografia del cardinal Federico Borromeo scritta dal suo medico personale G.B. Mongilardi, Memorie storiche della Diocesi di Milano, vol. XV, Milano 1968, pp. 190-191)

Il racconto di Giovanni Battista Mongilardi, medico biografo del Borromeo, dice che suor Virginia pronunciò poche parole di pentimento, il Borromeo la stava scacciando quando vide le sue vesti lacere e allora cambiò tono e la consolò.
E’ interessante ciò che Virginia dice al cardinale sulle sue esperienze spirituali:

“... avvertiva di essere sospinta dalla grazia divina e vedeva alcune cose divine, ed era indubbiamente preda di quei moti e delle agitazioni che sono soliti verificarsi quando l’anima si è sciolta dalla comunanza col corpo e si innalza al cielo in atto contemplativo. Diceva di aver visto le specie celesti, di aver spesso udito voci superiori alle umane e aggiungeva altre cose simili, certamente vere, ma che egli sospettava trattarsi di scherni, arti e inganni dei demoni.”

Il Borromeo, prima molto sospettoso, dopo frequenti visite a suor Virginia, le commissiona lettere edificanti ad alcune suore pericolanti. Ci restano due di queste lettere assieme ad un certo numero di biglietti spediti dalla penitente al cardinale. Nella lettera del 9 dicembre 1625 che si dice fosse indirizzata a una suora del Lentasio, suor Virginia ci parla della sua prigionia come “la caritativa et santa medicina delle mie piaghe” e così la descrive “io sono delle maggiori peccatrici del mondo, cloaca veramente puzzolente alle nari de Iddio, et per li miei peccati ha voluto la giustizia del Signore che sia stata posta in un carcere di braccia tre larga, et di lunghezza de cinque et murata la porta et finestra in tale modo che non vedeva se non tanto spiracolo bastante appena per dire l’offitio. Priva di ogni conforto humano colma di calamità, et disagi et anco infirmità insieme, de quali anche in quel stato, senza alcun mezzo de homini, la bontà d’Iddio incomprensibile mi ha de molto risanata, che se potessi narrarle a viva voce il tutto, si stupirebbe et farebbe grandissimo cuore in Dio. In questo carcere sono vissuta anni tredici.”

I tredici, anzi quattordici, durissimi anni di segregazione la resero soggetta a forti emicranie delle quali così si lamenta nella chiusa dell’altra lettera del 19 dicembre 1626: “Prego V.S. raccomandarmi al Signore in particolare per il gran male che patischo nel cervello, che in estremo mi afflige.”

La conversione della penitente alla fine viene ritenuta autentica dal cardinale che pensa di scrivere la sua biografia.

Negli ultimi anni della sua vita - l’8 novembre 1646 -, durante le trattative da parte della città di riscattare la contea di Monza in vista dell’estinzione della famiglia de Leyva, Marianna scrive su richiesta questa nota sui membri della sua famiglia:

“Don Antonio de Leyva fu governatore di questa città ebbe un figliolo chiamato don Luis che sucese principe d’Ascolli il quale ebbe cinque figli maschi don Antonio don Martino mio padre don Giovanni don Francesco e don Filipo con una figlia maritata nel marchese Masimiliano di Soncino che si fece poi capucino.

Don Antonio sudetto come magiore sucese principe et ebbe un sol figlio che fu nominato per nome d’ Luiso il quale è statto padre dil Principe se pur vive chiamato il dilatando e Don Pietro e don Luis mio fratello. Don Luis, Conte di Mora è castellano de Lovo in Napoli già sta in ciello l’altro fratello Don Hieronimo dicono esser Vicere in Sicilia se pur vive.”

L’operazione della città tuttavia non va in porto e così nel 1648 la contea di Monza viene acquistata dai Durini che la terranno fino all’epoca napoleonica.

L’epilogo di tutta la vicenda è davvero gelido.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/05/le-citta-della-pianura-padana-monza.html

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