Il vero nome dell’Innominato è Francesco Bernardino Visconti, uno dei feudatari di Brignano Ghiaradadda, contro il quale l’allora governatore di Milano emise una grida indicandolo come capo di una folta schiera di delinquenti e condannandolo quindi all’esilio insieme al suo seguito di bravi. Bernardino Visconti era noto alle cronache come il conte del sagrato per la sua usanza di fare uccidere sul sagrato delle chiese, nei giorni festivi, coloro che non ubbidivano alle sue intimidazioni. Alessandro Manzoni evita questo nomignolo, preferendo avvolgere il personaggio in un atmosfera di mistero: lo chiama semplicemente Innominato.
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Figura malvagia la cui cattiveria più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente a cui don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia Mondella. In preda a una profonda crisi spirituale, che lo porta a non riconoscersi più nelle sue malefatte, l'Innominato coglie nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, senza vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione completa.
Durante la notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge a un punto critico, tanto da fargli desiderare il suicidio; ma ecco che la Divina Provvidenza e le parole di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono. La sua conversione giunge dopo la notte angosciosa, infatti quel giorno arriva nel suo paese il cardinale Federigo Borromeo, personaggio storico. La scelta di Manzoni del personaggio per attuare la conversione non è certamente casuale: infatti solo un uomo di una grandissima bontà come il cardinale può redimere l'Innominato.
Inoltre, come dichiarato dall'autore stesso al termine del capitolo 24, le fonti storiche del Ripamonti stesso riferiscono che l'uomo si sia convertito dopo un lungo colloquio con il cardinale arcivescovo. Nel romanzo, i due personaggi si possono descrivere, per certi aspetti, come opposti. Dopo la conversione l'Innominato cambia completamente e coglie al volo l'occasione per far del bene in maniera proporzionata al male che aveva fatto. Il personaggio dell'Innominato e il suo "castello a cavaliere di una valle angusta e uggiosa" con la relativa ambientazione (capitolo XX) richiamano le tetre, cupe immagini del romanzo gotico del Settecento in cui era solitamente presente la figura della giovane innocente perseguitata da un tiranno malvagio, eroe del male.
Presenta volontà indomabile, desiderio e ricerca di solitudine, orgoglio e amore d'indipendenza, malvagità dovuta ad arroganza e fierezza, ma nata dallo sdegno e dall'invidia verso le tante prepotenze a cui assiste. Non si compiace della scelleratezza e tiranneggia per non essere tiranneggiato. Il Castello dell'Innominato presenta una solitudine eccelsa di paesaggio e d'anima. Il paesaggio è singolare e fa da sfondo alla vicenda eccezionale: si tratta di un paesaggio d'arte e fantasia. La personalità dell'Innominato impronta di sé tutta la realtà circostante e il paesaggio è un'introduzione psicologica alla vicenda.
L'atmosfera del castello è mitica e all'altezza dei luoghi corrisponde un'altezza d'animo. L'alba che precede la conversione mostra una liberazione vicina, "un colore di travaglio e di mortificazione che è il colore stesso della natura e della vita. Presenza silenziosa e operosa di un Dio che non è solo testimone ma artefice". Attilio Momigliano evidenzia bene l'evoluzione dell'animo del personaggio, la solitudine dell'anima nelle tenebre della notte ed il travaglio del rinnovamento. Nel contrasto fra io antico e nuovo egli prova una "non so qual rabbia di pentimento" e Lucia Mondella è un'immagine presente di condanna e di perdono. Luigi Russo sottolinea che nella non resistenza di Lucia l'Innominato vede come l'immagine temuta della morte che viene sola e disarmata, senza che le si possa opporre nulla. Dinanzi alla fanciulla il più debole è lui. Ad un certo punto egli non discorre più con Lucia ma con il suo fantasma interno di Dio. Egli attua una ricerca sgomenta di un nuovo sentiero di vita, prova orrore delle memorie di una vita scellerata. Lucia Mondella è immagine presente di condanna e di perdono.
Il pensiero della morte ed il confuso presentimento dell'oltretomba scavano nel suo animo in cui gli pare di sentire una voce che dice "Io sono però" (cap. XX). Avverte una misteriosa presenza e diviene consapevole della propria effimera potenza. Poi inizia l'ascensione dello spirito dell'Innominato: il terrore nella notte della conversione, a mano a mano che la sua coscienza si profonda, la sua angoscia si fa opprimente. Il ricordo delle parole di Lucia ("Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia") è un avvertimento di cui l'anima non sa precisamente l'origine. Nella sua mente si accalcano il pensiero del futuro e la memoria insopprimibile dell'io di un tempo, l'orrore delle memorie di una vita scellerata.
Dopo gli ultimi ondeggiamenti dell'anima, l'Innominato giunge all'alba di redenzione, alla palingenesi spirituale e al rischiararsi dell'anima corrisponde un rischiararsi del paesaggio in un profondo sentimento religioso della natura. Il cielo, i monti, gli uomini, accompagnati dalla musica d'indeterminata speranza del suono delle campane, partecipano alla redenzione di un'anima. La crisi spirituale dell'Innominato, descritta alla fine del XXI capitolo, passa attraverso fasi progressive:
la comprensione della vanità del continuo agire nel male ("non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto.");
l'esame di coscienza ("si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita");
la disperazione e la tentazione del suicidio ("S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e....al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine");
il pensiero di Dio ("Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia....E se c'è quest'altra vita.....!").
Il personaggio che Manzoni fa rivivere nel suo romanzo con l'appellativo di Innominato sembra essere Alberto da Salvirola, che visse tra il 1500 e il 1600, e del quale si narra fosse un brigante. Altre fonti fanno invece risalire la figura dell'Innominato a Francesco Bernardino Visconti, personaggio storico del quale Manzoni è discendente da parte di madre, Giulia Beccaria.
Quest'ultima infatti discendeva dalla famiglia Visconti, che aveva la propria dimora estiva presso Palazzo Pignano. Il Visconti razziava le campagne cremasche della Repubblica di Venezia, per poi rifugiarsi nelle terre del Milanese. Visconti era il feudatario di Brignano Gera d'Adda, come Manzoni stesso afferma in una lettera a Cesare Cantù. Soccorre la testimonianza della marchesa Margherita Provana Di Collegno, la quale frequentò assai il Manzoni sul Lago Maggiore, e poi nella propria tenuta di Cassolo: nel diario, in data 18 ottobre, annota: "sentii da Manzoni che l'Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo".
Nel Fermo e Lucia (1ªedizione), l'Innominato veniva chiamato "Il Conte del Sagrato", in riferimento ad uno dei suoi tanti omicidi, avvenuto appunto sul sagrato di una chiesa. In seguito pare che Manzoni ne cambiò il nome poiché questo in un certo senso ne immiseriva la condizione titanica e ribelle, rimandando allo squallore di un omicidio.
Nei luoghi manzoniani vengono indicati come castello dell'Innominato i resti di una fortificazione posta nel comune di Vercurago in località Somasca. Del castello, costruito su di un dirupo in una posizione che domina la strada che collega Bergamo a Lecco e il sottostante lago di Garlate, rimangono un torrione e parti delle due cerchie di mura.
L’unico rapimento messo in atto e storicamente accertato sarebbe quello della madre Paola Benzoni, quando l’Innominato aveva 11 anni. Ecco i fatti: la contessa, vedova da otto anni, aveva già sofferto le licenziose amoralità del consorte, disordini morali di tipo familiare, avendo avuto tre figli naturali, e finanziario, era un giocatore d’azzardo. Alla fine si era ritirata in campagna, a Bagnolo Cremasco… ove aveva dei possedimenti. Secondo alcune fonti a Crema, nel Palazzo Avito. Una solitudine insopportabile. E lì pensava ad un nuovo matrimonio. Nel 1590, alla vigilia del matrimonio con un nobile della Valcuvia, Cottino Cotta, nel castello di Brignano, Paola Benzoni venne rapita da Galeazzo Maria, quindicenne, Bernardino, undicenne, Benedetto Cagnola, e Sagramoro Visconti, nipote della rapita. Il tutto venne tenuto sotto traccia e messo a tacere, come fosse stata una ragazzata da punire con una leggera reprimenda, dato il lignaggio dei discoli.
Nel 1593, a Bagnolo Cremasco venne fatta una bravata dall’Innominato quattordicenne. Erano ventisette bravi, armati di archibugi, entrarono nella casa di tale Schiavino, forzando la porta e scalando le finestre. Assalirono il malcapitato devastando l’abitazione, ammazzando i polli e operando molti altri atti disonesti che per modestia tacemo. Ancor’oggi a Bagnolo esiste la casa dei bravi. Il 22 dicembre del 1593 il consiglio dei Dieci di Crema condannò al bando dalla città e dal territorio cremasco per tre anni l’Innominato e i suoi sodali.
Nel 1596 le strade dei due fratelli si divisero, l’Innominato aveva 17 anni e andò a vivere nella in una cascina chiamata Sangiorgino. Nell’agosto del 1597 fu commesso un omicidio, la documentazione, pur corposa, è ambigua e non chiarisce i fatti; pare che a quel primo omicidio possa esserne seguito un secondo nel 1599. Dopo aver passato una vita scellerata, a Treviglio nel 1619 incontrò il cardinal Federico Borromeo , per due ore il cardinale rimane con Bernardino Visconti. Si dice che Federico gli andò incontro con il volto sereno, trasparente di premure e con le braccia aperte, fece cenno al cappellano di uscire e rimasero a lungo in silenzio, non trovavano le parole, probabilmente non le cercavano.
Francesco Bernardino Visconti (Brignano Gera d'Adda, 16 settembre 1579 – Crema, 1647 circa) era figlio di Giovanni Battista Visconti e Paola Benzoni, di un'importante famiglia di Crema.
Aveva cinque fratelli: Maddalena, Giulia, Ercole, Caterina, Galeazzo Maria (1575-1648).
A Milano i Visconti vivono in una casa in via Teodoro Crescia in un palazzo presso San Giovanni in Conca. Alla morte del padre nel 1584 i fratelli vivono nel palazzo Visconti di via Lanzone. I tutori decidono di mettere i due maschi nel Collegio dei Nobili. Nel 1590 i due fratelli con altri parenti rapiscono la madre Paola Benzoni per impedirle di sposare in seconde nozze Cottino Cotta di Valcuvia. Ne segue un processo senza conseguenze perché il giudice ritiene che siano affari di famiglia.
Nel 1596 i due fratelli si dividono i beni. Francesco Bernardino si ritira in una sua tenuta e costituisce una banda e inizia la sua attività criminale. Dal 1600 al 1602, Bernardino commette una serie di crimini. Nel 1602 i suoi beni sono confiscati e incomincia una lunga controversia con i creditori.
Nel maggio e giugno 1615 c'è la visita pastorale del cardinale Federico Borromeo nel lecchese. È forse il momento della conversione. Si ipotizza che l’incontro tra il Borromeo e il Visconti sia stato preparato dai parenti del Visconti (molti erano religiosi) e stabilito con le autorità.
Le vicende relative al resto dell'esistenza di Francesco Bernardino Visconti sono tuttora avvolte nel mistero: l'ultima traccia compare in un documento datato 1647, all'interno del quale risulta essere ancora in vita, domiciliato in un paese vicino a Crema, luogo d'origine della madre. Di sicuro egli trascorse gli ultimi anni della sua esistenza pregando nei conventi cremaschi, fra i quali quello dei Cappuccini dei Sabbioni.
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