mercoledì 22 luglio 2015

LA CASA DI ARLECCHINO



Nella illustre famiglia delle maschere della Commedia dell'Arte, Arlecchino è la più caratteristica e al tempo stesso la più enigmatica e complessa. Benché nato in provincia di Bergamo, la città del suo compare Brighella, il suo nome deriva dal medioevo francese: Harlequin, o Herlequin o Hellequin si chiamava un diavolo conduttor di diavoli nei misteri popolari del sec. XI. Così il Driesen, il più dotto studioso di questa maschera.
Ma non mancano altre etimologie, più ingegnose che sensate: da Erlenkönig, folletto della mitologia scandinava e germanica; da Alichino, diavolo dantesco che in realtà deriva dall'Harlequin francese, da Achille de Harlay, gentiluomo francese che protesse un comico italiano detto Harlayqino. Secondo altri il nome sarebbe il diminutivo di harle o herle uccello dal manto variopinto. Anche per le sue caratteristiche esteriori e per il suo tipo si sono cercate origini remote e lo si è riavvicinato agli antichi fallofori, che si imbrattavano il volto di fuliggine e recitavano senza coturno, e al Bucco romano, grande mangione. 

Ma l'uso di imbrattarsi il volto per far ridere è universale, e così pure il tipo del pappatore. Troviamo comunque, verso il Cinquecento, la maschera di Arlecchino già definita: parla bergamasco, ha una corta giacchetta e calzoni attillati, l'una e gli altri coperti di pezzetti di stoffa di vari colori messi senza ordine, un bastone alla cintura, barba nera e ispida, mezza maschera nera col naso camuso, berrettone alla Francesco I con una coda di coniglio ciondolante (l'appender code di coniglio di volpe o orecchie di lepre era nel medioevo beffa consueta). 

Arlecchino nasce infatti sotto il segno della stupidità: una stupidità insolente, famelica che si addipana nei fili dell'intrigo dai quali si libera con salti acrobatici e botte alla cieca. Nella seconda metà del cinquecento fu proprio un Bergamasco, Alberto Ganassa di Oneta di San Giovanni Bianco che, dopo i brillanti esordi presso le corti dei Gonzaga ed egli Estensi, vestì i panni di Arlecchino nientemeno che davanti ai Sovrani di Francia e di Spagna. Nella Contrada di Oneta si trova la cosiddetta casa d'arlecchino, un edificio quattrocentesco che conserva tutti gli elementi distintivi di un passato splendore e che è destinato a diventare un museo della maschera e del teatro popolare. La casa era in origine fortificata, ma in seguito divenne un abitazione signorile. All'interno rimangono tracce di affreschi che ingentilivano pareti e che attualmente sono visibili presso la Canonica e la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Bianco. 

Un affresco era posto anche sopra la scala d'ingresso e raffigurava un uomo irsuto e vestito di pelli che brandiva un nodoso randello a guardia dell'abitazione, come si deduce dalla scritta posta sul cartiglio: Chi non e' de chortesia, non intragi in chasa mia, se ge venes un poltron, ce daro' col mio baston.
L'edificio apparteneva ai Grataroli, una delle famiglie piu' potenti della Valle, originaria di Oneta, che nel quattrocento vantava a Venezia ricchezze e fortune. 

E qui si innesta il riferimento ad Arlecchino; questa maschera vestiva i panni del servo balordo e opportunista, quale erano nella realta' i valligiani brembani dediti nella citta' lagunare a lavori umili e faticosi. Gli stessi Grataroli stabilitisi a Venezia avevano al loro seguito servitori Brembani ai quali affidavano anche la cura dei loro beni di Oneta. Forse accadde che uno di tali servi, portato all'arte comica, abbia buffonescamente rappresentato sulla scena il ruolo da lui stesso ricoperto nella realta' quotidiana. Il ruolo iniziale si arricchi' di forme e contenuti, favorendo l'imporsi del personaggio Arlecchino, colorito di licenziosa e pungente comicita' che veniva apprezzata in quanto non oltraggiava l'orgoglio Veneziano, ma prendeva di mira il tipo del servitore Bergamasco, costretto ad agguzzare l'ingenio per questioni di soppravvivenza.

La sua architettura in solida pietra a vista , addolcita da portici, balconate e finestre archiacute, si staglia a baluardo dell'antica "Via Mercatorum"lungo la quale, prima che nel600' venisse aperto a fondovalle il piu' agevole tracciato della"Priula", transitavano e facevano tappa i mercanti, che da Bergamo e dalla pianura risalivano le valli diretti verso i Grigioni ed il nord Europa. Patrimonio della famiglia Grataroli, la casa e' attribuita ad Arlecchino da una tradizione secolare. La struttura e' interessata da un progetto integrale di recupero storico-museale che avvalora la tradizione brembana della Maschera. Il Borgo di Oneta e' formato da un gruppetto di belle case antiche, molte delle quali, ben restaurate, presentano ancora la secolare struttura ad archi ed accolgono il visitatore in un'atmosfera d'altri tempi, tra strette vie, seclciati pitrosi, oscuri porticati, ballatoi in legno a intagli rustici. 
La struttura delle pareti esterne e la pianta dell'edificio lasciano intendere che originariamente fosse una casa fortificata, trasformata in un secondo tempo in abitazione signorile, come dimostrano tra l'altro i bei portali a tutto sesto e le finestre archiacute in pietra lavorata che si aprono sulla facciata principale. All'interno rimangono tracce di affreschi e decorazioni che ingentilivano pareti e soffitti lignei; un affresco (attualmente sostituito da una copia) era posto anche sopra la scala d'ingresso e raffigurava un uomo irsuto e vestito di pelli che brandiva un nodoso randello a guardia dell'abitazione. Tale raffigurazione puo' essere fatta risalire alla tradizione dell'homo selvadego, tipica delle antiche comunita' retico-alpine, di cui esistono esempi nella "camera picta" di Sacco (Cosio Valtellino), e in alcune localita' del Trentino.



La presenza dell'uomo selvatico sui muri del palazzo di Oneta e' stata presa per l'originale matrice della maschera di Arlecchino: nell'immaginario popolare l'uomo selvatico e' infatti brutale, ma insuperabile espressione di vitalita', idice estremo di quanto puo' sopportare ed escogitare contro i rigori della fame, del freddo e della miseria. E' fuor di dubbio, infatti, che la primitiva gestualita' di Arlecchino, rivelatasi solo nella rozza tipologia dello Zanni e raffinitasi solo nelle piu' tarde esperienze teatrali, fu in origine grottescamente desunta da una goffa e istintiva animalita' che poco si discosta dalle fattezze rustiche e villane dell'homo selvaticus. Gli altri affreschi, tutti risalenti alla fine del Quattrocentesco, che decoravano il salone del primo piano sono stati rimossi attorno al 1939-40 dal parroco di San Giovanni Bianco don Davide Brigenti che provvide a farli restaurare. Attualmente, tranne il Martirio di San Simonino, che si trova presso il Museo Diocesano di Bergamo, sono conservati nella chiesa parrocchiale e nella sagrestia della chiesa di San Giovanni Bianco. I tre affreschi collocati nella canonica sono di contenuto religioso e rappresentano un Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni, un San Sebastiano e Sant'Antonio Abate. Le opere raccolte presso la canonica raffigurano due Armigeri e un Torneo equestre. Quest'ultimo e' particolarmente significativo per la non comune estensione (quasi cinque metri) e per il realismo e l'immediatezza dei gesti e delle figure colte nel vivo di una zuffa cavalleresca. Al di la' dei contenuti artistici, questi affreschi sono importanti anche per il preciso riferimento ai proprietari dell'edificio: la presenza della grattugia "grataröla" nello stemma del cavaliere vincitore e di uno dei due armigieri rimanda ai Grataroli, una delle piu' potenti famiglie della valle che, come provato da diversi documenti, era originaria proprio di Oneta.
Il livello signorile dell'edificio deriva quindi dall'essere stata la primitiva dimora della nobile  famiglia Grataroli che gia' nel Quattrocento vantava a Venezia ricchezze e fortune e che, ormai lontana dal paese natio, aveva voluto nobiliare l'edificio di Oneta quasi a significare concreta ostentazione del potere acquisito. Su tali premesse si inserisce la tradizione che identifica questa casa come quella di Arlecchino. Va considerato, a tale proposito, che Arlecchino, vestiva sulla scena i panni del servo balordo e opportunista, quale erano nella realta' i numerosi valligiani brembani che allora popolavano la citta' lagunare svolgendo lavori umili e faticosi. E' piu' che probabile che gli stessi Grataroli stabilitisi a Venezia avessero al loro seguito numerosi servitori brembani ai quali affidavano anche la cura dei loro beni a Oneta. Non e' fuori luogo supporre che proprio uno di tali servi, dotato di particolare "vis comica" possa essersi trovato sulla scena a rappresentare, solo in modo piu' accentuatamente comico, il ruolo da lui stesso ricoperto nella realta' quotidiana. D'altronde la "commedia dell'arte" allora in auge nelle fiere e sulle piazze proponeva agli spettatori temi sarcastici e popolari non supportati da testi scritti, ma col solo riferimento a canovacci appena abbozzati che subivano di volta in volta le variazioni a soggetto degli interpreti. Tale prassi, che prevedeva un continuo arricchimento di forme e contenuti, favori' il formarsi del personaggio Arlecchino, colorito di licenziosita' e pungente comicita' buffonesca che veniva tanto piu' apprezzata in quanto non oltraggiava l'orgoglio veneziano, ma prendeva di mira il tipo di servitore bergamasco costretto ad aguzzare l'imgegno per questioni di sopravvivenza. L'ipotesi non e' poi cosi' peregrina, se si pensa che nella seconda meta' del Cinquecento fu proprio un bergamasco: Alberto Ganassa che, dopo i brillanti esordi presso le corti dei Gonzaga e degli Estensi , vesti' i panni di Arlecchino nientemeno che davanti ai sovrani di Francia e di Spagna.

L'edificio è stato restaurato tra la fine degli anni '80 e '90, diventando un palcoscenico naturale per numerose rappresentazioni teatrali dedicate ad Arlecchino. Attualmente la Casa di Arlecchino ospita un museo dedicato al personaggio che vi ha abitato, e un ristorante.


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