sabato 25 luglio 2015

LEGGENDE DI ESINO LARIO



La paura dell’ignoto, le credenze religiose, la natura difficile dei luoghi hanno prodotto, nei tempi passati, storie e leggende da raccontare nelle lunghe sere d’inverno: lo scopo educativo e morale risulta evidente e le presenze demoniache sollecitano il buon comportamento.

La cavra sbàgiola è il personaggio di una leggenda, tipica dell'immaginario popolare della zona orientale del Lario.
Come racconta Pietro Pensa, si tratta di un'animale notturno, mezzo uccello e mezza capra, che usciva di notte dalle caverne emettendo un cupo belato misto a voce umana e cercava di entrare nelle camere dove dormiva la gente non in regola con la coscienza. Tanta ne era la paura che le finestre delle case erano costruite molto piccole e per di più sbarrate da una croce di ferro immurata.
Lo stesso personaggio compare nelle storie della zona occidentale del Lario con il nome di cavra del Cincinrubel. Viveva pur questa nelle caverne e negli anfratti. Appariva di notte e i ragazzi ripetevano con spavento la cantilena:
Mi sunt la cavra d'ol Cincìrunbel, senza corna e senza pell cunt la corda tirada al coo: chi ven dent i mangiaròo! (Trad. Sono la capra del Cincìrunbel, senza corna e senza pelle, con la corda tirata al capo: chi vien dentro lo mangerò!)

Pésegh adòss... è la storia di un pastorello salvato dal diavolo con panni filati in tempo benedetto. La storia racconta che un pastorello portava ogni mattina le capre nella valle grande, non era un ragazzo cattivo ma aveva il difetto di non ascoltare i consigli dei genitori: il padre gli raccomandava di non abbandonare mai il branco perché era facile smarrire qualche animale nelle forre del monte; la madre, poveretta, nel dargli un indumento benedetto per guardarlo dal malanno, gli raccomandava di non disubbidire e a pregare la Madonna perché lo proteggesse. Il ragazzo. però, appena poteva, lasciava in custodia al cane il piccolo gregge e correva a giocare con i compagni nell’alpe più vicina. Un giorno di settembre, ritornando verso sera a radunar le capre, ebbe la sorpresa di trovar mancante la più bella. Atterrito al pensiero della punizione, il poveretto riportò il branco nella stalla del paese e tornò di corsa sulla montagna; era già buio e lui vagava per i burroni lanciando il suo richiamo. Finalmente dal fondo di un dirupo gli giunse il belato della capretta. Aggrappandosi alle rocce, la raggiunse e se la mise sulle spalle. Mentre risaliva con gran fatica, una voce profonda e cavernosa giunse dall’altro versante della valle "Pésegh adòss!" (pesagli addosso). Al che la capretta belò lamentosa: "No poss, no poss! Al gh’a la vestè filadè nel Tempur adòss!" (non posso, non posso! ha una mantella benedetta addosso!). Il pastorello comprese di avere sulle spalle il diavolo incarnato e che lo salvavano i panni filati dalla madre in tempo benedetto. Gettò il capretto, e a gran corsa, piangendo di paura, scese al paese. Prima di giungervi, incontrò i genitori che, in grande apprensione, erano usciti a cercarlo; con loro era la capretta smarrita, trovata mentre da sola tornava all’ovile. Raccontavano che da allora il pastorello seguì i consigli del padre e della madre; e il suo caso era additato a tutti come esempio ammonitore.

La caccia selvatica era fantasia, forse di remotissima origine pagana, accolta dai sacerdoti i quali affermavano trattarsi dei cacciatori che nei giorni di domenica avevano trasgredito agli obblighi religiosi e dopo morti erano stati condannati a vagare senza pace nei luoghi del loro peccato, una cavalcata orrenda di spiriti dannati che si levava improvvisa nelle notti senza luna, percorrendo in fulminea corsa i sentieri, scavalcando d’un balzo torrenti e valloni sino a perdersi lontano, nelle forre dei monti più alti; uno scalpitar di destrieri, guaire di cani, urla di mostri, grida d’angoscia rompevano allora il silenzio delle valli.

A questa leggenda, che si raccontava sottovoce per non evocarla, erano legati lugubri racconti minori. Si favoleggiava che la caccia selvatica si avvicinasse sovente alle cascine montane dove qualcuno teneva la mandria: chi vi stava si chiudeva allora al riparo e dicono che udisse voci umane con lugubri accenti sfidare Iddio, profetando sventure agli uomini, mentre terribili segni rimanevano di quella sinistra presenza.

Una volta, udendo passare la famosa “caccia”, una donna per la curiosità, nonostante che gli altri la dissuadessero, si era affacciata alla porta gridando: “Casciadòr da la bonè cascè demm un po’ da la vosè fugascè!” (Cacciatori della buona caccia datemi un po’ della vostra focaccia!). Apparvero allora, appese alla porta, membra umane sanguinanti; fu necessario chiamare il sacerdote che, benedicendole, le fece scomparire. La donna, tuttavia, morì di spavento e tutti i capelli le erano diventati bianchi.

Tanti anni fa, in una baita situata dalle parti del Pizzo Tre Signori, viveva un pastore fatto un po’ a modo suo. Secondo lui gli unici essere viventi con i quali ci si poteva intendere erano le capre; tutti gli altri, bipedi o quadrupedi che fossero, li considerava uno sbaglio del Creatore.
Quale fosse il suo vero nome non si sa. Lo chiamavano Ransciga, vocabolo ormai scomparso dal dialetto che serviva ai vecchi per indicare un falcetto a serramanico, molto in uso nei tempi andati, che tutti portavano in tasca per gli usi più svariati.
Un giorno d’estate, mentre Ransciga se ne stava sdraiato sul pascolo a pancia in su cercando di seguire con lo sguardo le sue capre sparpagliate per i canaloni della montagna in cerca di qualche ciuffo d’erba, avvenne una cosa fuori dall’ordinario: tutto a un tratto vide svolazzare, proprio lassù sopra la cima del Pizzo, un uccello mai visto prima.
Lui gli uccelli della montagna li conosceva bene, e gli bastava sentirli cantare per distinguerli, senza bisogno di vederli; ma un essere così grosso, nero, con un collo lungo cinque spanne e che stava per aria girando intorno senza il minimo battito d’ali proprio non gli era mai capitato sotto gli occhi.
Ransciga si alzò a sedere e rimase lì per un bel po’ a rimirare quello strano animale volante arrivato da chissà dove, cercando di indovinare con quale altra razza di uccello potesse essere imparentato.
Ad un tratto l’uccellaccio sembrò fermarsi in mezzo al cielo poi, come se all’improvviso gli fosse mancato il sostegno dell’aria, venne giù come un sasso puntando dritto verso il pastore il quale, spiccando un balzo, fece appena in tempo a ripararsi dietro un grosso sasso prima che la brutta bestia gli piombasse addosso. Mancata la mira l’uccello riprese quota e il Ransciga, che se l’era vista brutta, corse verso la baita, per uscirne subito imbracciando il suo fucilone caricato a pallettoni.
Il grande uccello era ancora lassù che girava. Ransciga si sedette bene in vista con il suo archibugio stretto tra le ginocchia e gli occhi fissi su quel diavolo volante, sicuro che avrebbe ripetuto lo scherzetto di poco prima. Infatti non passò molto tempo. L’uccello nero si fermò in aria per poi precipitarsi giù a valanga in direzione dell’uomo seduto sul prato.
Fu un attimo. Il pastore balzò in piedi, puntò il fucile quasi senza mirare, come faceva quando fulminava le pernici al volo, lasciò partire il colpo e… a questo punto incominciarono a succedere le «cose» che sarebbero state tramandate ai posteri. Lo strano uccello, colpito in pieno dalla scarica, anziché precipitare morto come avrebbe fatto un qualsiasi volatile, si trasformò in una palla di fuoco, lanciò una specie di urlo lacerante, andando a schiantarsi giù in fondo, ai piedi del Pizzo.
Il povero Ransciga, alla vista di un simile spettacolo, per poco non rimase secco dallo spavento ma, siccome era un uomo coraggioso, si riprese in fretta, ricaricò il fucile per scendere a balzelloni verso il punto in cui la sua strana preda era andata a cadere. Ben presto però dovette fermarsi perché, dal fondo della valle, saliva una gran puzza di carne bruciata che gli toglieva il respiro. Giacché il nostro uomo oltre che coraggioso era anche prudente, prima di riprendere la discesa volle rendersi conto di cosa stava succedendo e, affacciatosi ad uno spuntone di roccia, guardò giù.
Il Ransciga rimase di stucco. Un cento passi sotto, dove l’uccello infuocato era andato a sbattere, vide una enorme buca, scavata ove prima c’era una spianata erbosa. Tutto intorno erano disseminati sassi di ogni dimensione mentre dal fondo saliva una nebbiolina giallastra e quella grande puzza che lo aveva costrutte a fermarsi. Tanto per assicurarsi ch non stava sognando lasciò andare un’altra schioppettata, indirizzando il colpo verso il centro della buca da dove gli pareva uscisse il fumo giallo e puzzolente. Si rese subito conto di aver combinata un altro guaio e per la terza volta, in quella giornata balorda, il poveraccio sudò freddo.
Dal punto in cui i pallettoni erano andati a conficcarsi uscì una voce cavernosa che sentenziò: «Io torno all’inferno ma tu resterai per sempre dove ti trovi adesso e non potrai più parlare nemmeno con le tue capre». Il Ransciga, che a quanto pare aveva impallinato Belzebù, si guardò attorno smarrito: ma non fece in tempo a dire amen che il suo corpo, alto e robusto, s’irrigidì trasformandosi in un sasso grigio e informe, simile a quelli che il gran botto provocato dalla caduta dell’uccello di fuoco aveva scaraventato tutto intorno.
È passato tanto tempo. Il Ransciga non lo ricorda più nessuno e il grande buco, col passare degli anni, si è riempito d’acqua limpida trasformandosi in quel pittoresco e bellissimo laghetto alpino che tutti ancora oggi chiamano Lago di Sasso.



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