venerdì 10 luglio 2015

I PROMESSI SPOSI



I promessi sposi è il celebre romanzo storico di Alessandro Manzoni ed è stato preceduto dal Fermo e Lucia, spesso considerato romanzo a sé, fu edito in una prima versione nel 1827 (detta edizione ventisettana); rivisto in seguito dallo stesso autore, soprattutto nel linguaggio, fu ripubblicato nella versione definitiva fra il 1840 e il 1841-42 (edizione quarantana).

Ambientato dal 1628 al 1630 in Lombardia durante il dominio spagnolo, fu il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana. Secondo un'interpretazione risorgimentista, il periodo storico era stato scelto da Manzoni con l'intento di alludere al dominio austriaco sul nord Italia. Quella che Manzoni vuole descrivere è la società italiana di ogni tempo, con tutti i suoi difetti che tuttora mantiene.

Il romanzo si basa su una rigorosa ricerca storica e gli episodi del XVII secolo, come ad esempio le vicende della Monaca di Monza e la grande peste del 1629-1631, si fondano tutti su documenti d'archivio e cronache dell'epoca. Manzoni per il suo romanzo prende come base la religione cattolica, infatti, uno dei "personaggi" principali che viene nominato raramente all'interno della vicenda (anche se importantissimo, se si vuole capire l'aspetto religioso) è la Provvidenza, la mano di Dio che tutto volge verso il bene. Si sbaglia quando si considerano Renzo e Lucia (i personaggi principali del romanzo) unici protagonisti.

L'interesse per la storia e per i problemi morali ad essa collegati ha sempre animato l'attività letteraria di Manzoni, diventandone l'elemento fondamentale almeno fin dall'abbandono delle poetiche neoclassiche: ciò è connesso con l'inclinazione ad una letteratura impegnata, volta ad affrontare delicate tematiche sociali, nel solco della tradizione dell'Illuminismo lombardo in cui lo scrittore si era formato e alla quale rimase fedele per tutta la vita. Inizialmente gli scritti di argomento storico o morale affiancano la stesura delle opere letterarie che mescolano storia e invenzione, come la nota che precede il Conte di Carmagnola in cui Manzoni traccia in sintesi la biografia del Bussone e ne sostiene con convinzione l'innocenza (studi recenti hanno però sollevato dubbi su questo aspetto); funzione analoga ha anche il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), che ovviamente è parallelo alla pubblicazione dell'Adelchi e documenta lo scenario storico in cui è ambientata la tragedia. In questo trattato Manzoni prende le distanze dalla storiografia tradizionale che, a suo dire, si è interessata esclusivamente dei grandi e dei potenti, mentre compito dello storico dovrebbe essere scrivere le vicende degli umili e degli oppressi; egli riafferma inoltre il ruolo positivo avuto dalla Chiesa e dal Papato nel prendersi cura, durante i secoli bui del Medioevo, delle masse popolari che hanno subìto la tirannia di dominatori quali Longobardi e Franchi, la cui posizione è drasticamente ridimensionata in polemica con una certa storiografia che invece ne sottolineava i meriti politici. Punto di vista assai simile era espresso anche nel saggio Osservazioni sulla morale cattolica (1819), in cui Manzoni contestava l'opinione dello storico ginevrino Sismondi (espressa nell'opera Histoire des Républiques italiennes du Moyen-Âge, edita nel 1818) secondo cui la decadenza politica dell'Italia nell'età della Controriforma era causa della Chiesa cattolica, il cui ruolo viene invece rivalutato dallo scrittore.
L'opera storiografica più interessante dell'autore resta comunque (dopo la Storia della colonna infame, pubblicata in appendice all'edizione 1840-42 del romanzo) il Saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese, abbozzato fra 1860-1864 e rielaborato negli ultimi mesi di vita, per essere pubblicato postumo nel 1889. L'opera (il cui titolo completo doveva essere La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative) parte dal presupposto che nessun popolo ha il diritto di rovesciare con un atto violento il governo di un sovrano legittimamente in carica, quand'anche esso si sia macchiato di gravi colpe, dunque il fine dell'autore è condannare la Rivoluzione francese come atto illegale e foriero di gravissime violenze e delitti, in contrapposizione al processo legale e relativamente pacifico che portò nel 1859-60 all'unificazione nazionale italiana. Tale paragone è ovviamente molto forzato e inverosimile (il che spiega, forse, perché l'opera sia stata abbandonata dall'autore prima di affrontare la seconda parte), tuttavia lo scritto è interessante per la condanna senz'appello delle violenze giacobine durante il Terrore e perché esprime bene il pensiero politico dello scrittore che, peraltro, è visibile anche nel romanzo, ovvero quello di un conservatore che nutre grande sfiducia per il popolo e le rivolte violente, mentre l'unica soluzione è un processo riformatore dall'alto che agisca in modo "illuminato" (è evidente la matrice settecentesca delle idee manzoniane sotto questo aspetto).

La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821, quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione. Interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco, e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio. Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo Gli sposi promessi). In questa prima redazione è presente, in nuce, la trama del romanzo.
Tuttavia, il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore. Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere.
Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva. Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore. Romanzo dell'arbitrio e della violenza, mostra l'eterna oppressione dei potenti nei confronti degli "umili", riprendendo il tema già presente nell'Adelchi dei "due popoli", quello degli oppressi e quello degli oppressori, vicenda eterna di ogni tempo.

Una seconda stesura dell'opera (la cosiddetta ventisettana, che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo. La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della Monaca di Monza, la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono i caratteri di questo che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia.

Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo legato alle sue origini lombarde. Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per "risciacquare - come disse - i panni in Arno", e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice.

Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima redazione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento. Il proliferare di edizioni abusive, dovuto al grande successo dell'opera, spinse Manzoni a dotare l'edizione di alcune attrattive in più: un corredo di illustrazioni, l'utilizzo della carta e dell'inchiostro migliori e l'aggiunta, in allegato, di un romanzo del tutto nuovo, Storia della colonna infame. Per le illustrazioni, Manzoni pensò dapprima a Francesco Hayez, che ne inviò due a Parigi, «ove vennero incise nel bosso da Lacoste, e, per parere concorde, furono scartate. In seguito l'Hayez declinò l'offerta adducendo come scusa che un simile lavoro gli avrebbe rovinata la vista». Lo scrittore chiese quindi aiuto in Francia all'amica Bianca Milesi Mojon, che si rivolse al pittore francese Louis Boulanger. Nemmeno questo tentativo, testimoniato da un solo disegno, si rivelò fruttuoso. Quando Francesco Gonin, giovane e promettente pittore piemontese, fu ospitato a Milano da Massimo d'Azeglio, il Manzoni riconobbe in lui la persona giusta. Concluso l'accordo, Gonin si mise all'opera.

Il suo lavoro convinse pienamente l'autore, che con il Gonin intrattenne nei primi mesi del 1840 una fitta corrispondenza. Il rapporto fra i due è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti. La forza espressiva delle litografie è notevole, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie sempre diverse; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai una certa accattivante ironia. Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che chi legge ha sotto gli occhi in quel momento.

La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti. Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo. Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I promessi sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.

Aver trovato l'illustratore non era tuttavia sufficiente: era necessario anche un buon incisore. Per tramite del pittore e incisore Giuseppe Sacchi, Manzoni riuscì a far venire dalla Francia i transalpini Bernard e Pollet e l'inglese Sheeres. La direzione del lavoro fu affidata al Gonin, incaricato di valutare e approvare le incisioni. Siccome queste ultime andavano a rilento, l'autore fece pressione sul Sacchi perché venissero inviati d'oltralpe altri collaboratori, e fu accontentato con l'arrivo dei francesi Victor e Loyseau. A questo punto Manzoni poté pensare al contratto con gli stampatori Redaelli e Guglielmini, firmato il 13 giugno 1840.

Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra Settecento e Ottocento che l'influenza de I promessi sposi avrebbe rilanciato, il narratore prende le mosse da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia. Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo della sua storia. Il tòpos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale ed affidabile.

Conclude il testo la Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo. Secondo alcuni studiosi, non sarebbe un'appendice ma il vero finale del romanzo, come dimostrerebbe l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni. Interessante anche l'analisi narratologica dell'opera manzoniana, da cui si comprende la distanza esistente fra narratore ed autore.

Nella narrazione l'intreccio si discosta poco dalla fabula e solo quando la trama lo richiede. Ciò accade per esempio quando l'autore tratta parallelamente le vicende di Renzo e Lucia, le vicende storico-sociali (carestia, guerra, peste) o quando compie delle analessi per le biografie di fra Cristoforo (capitolo IV), della monaca di Monza (cap. IX-X), dell'Innominato (Cap. XIX) e del cardinale Federigo Borromeo (Cap. XXII). L'Autore poi, per narrare le vicende, si affida ad un "narratore eterodiegetico" (esterno) e "onnisciente" il quale conosce tutto della storia.

Il narratore partecipa ai fatti, li spiega, li commenta, inserendovi proprie considerazioni e riflessioni, usando spesso anche l'ironia. Alcune volte sono presenti altre voci narranti di secondario grado, in particolare quella dell'ipotetico autore del manoscritto seicentesco. Il ritmo narrativo è costituito da rallentamenti e accelerazioni con l'uso di diverse tipologie di sequenze (narrative, dialogiche, espositive, descrittive, riflessive).

La genesi interna del romanzo I promessi sposi è costituita dalle idee di partenza, dall'ideologia di base che la poetica di Manzoni doveva propagandare. È stata evinta soprattutto grazie alle lettere che lo stesso scrisse mentre stava preparando le diverse edizioni. Il romanzo era fondato, infatti, su tre perni principali:

Il vero per soggetto: l'autore mette al centro la ricostruzione storica degli eventi che caratterizzarono quei luoghi a quel tempo.
L'utile per scopo: l'opera deve mirare ad educare l'uomo ai valori che Manzoni vuole diffondere.
L'interessante per mezzo: l'argomento del romanzo deve essere moderno, popolare, e quindi avere forti legami con la realtà contadina ed operaia.
La genesi esterna, invece, comprende tutte le letture e gli autori che hanno ispirato Manzoni. Tra le principali abbiamo l'Ivanhoe di Walter Scott da cui l'autore prende l'ispirazione per la tipologia del romanzo che sarà a sfondo storico, la Storia Milanese (del 1600) di Giuseppe Ripamonti, da cui l'autore prende, appunto, la maggior parte degli avvenimenti storici che verranno intrecciati con le vicende dei personaggi. Altre fonti sono le opere dell'economista Melchiorre Gioia e del cardinale Federico Borromeo al cui scritto De Pestilentia Manzoni si ispirò per l'episodio della madre di Cecilia.

Secondo il critico Giovanni Getto una fonte per l'opera manzoniana potrebbe essere stata anche la Historia del Cavalier Perduto, romanzo erotico - cavalleresco del XVII secolo scritto dal vicentino Pace Pasini. Il prof. Claudio Povolo dell'Università di Venezia con recenti documentati studi ha dimostrato che una ulteriore fonte del romanzo potrebbe essere la storia di Paolo Orgiano, signorotto di Orgiano (Vicenza), violento, rapitore di donne, condannato al carcere a vita nel processo del 1607. Molte sono le analogie con la vicenda descritta nei Promessi sposi.

Molti personaggi e situazioni del romanzo manzoniano presentano analogie con precedenti opere della letteratura europea. L'argomento è trattato molto esaurientemente anche dal critico Giovanni Getto nel suo libro Manzoni europeo. Per limitarsi ad alcuni cenni, c'è da rilevare una evidente analogia fra il capolavoro manzoniano e i romanzi dello scozzese Walter Scott iniziatore del romanzo storico. Manzoni però elimina gli aspetti favolosi presenti nelle opere di Scott (per esempio, in Ivanhoe nel primo capitolo si parla del "favoloso dragone Wantley" e di "riti della superstizione druidica" ).

Esistono rapporti con il gusto inglese del “quotidiano”, tipico del romanzo borghese dell'Inghilterra sette-ottocentesca, gusto trasferito dal Manzoni sul mondo popolare. Riguardo all'Innominato, sono state notate analogie col mito satanico del "grande ribelle", personaggio titanico e individualista presente in certi poeti romantici inglesi e tedeschi come Schiller e Byron (ad esempio ne I Masnadieri di Schiller e ne Il Corsaro di Byron).

Egidio e, in minor misura, don Rodrigo richiamano gli eroi libertini del Settecento francese, moralmente anticonformisti, dissacratori della tradizione e rinnegatori della virtù nell'esaltazione del desiderio, degli istinti naturali, come i protagonisti dei romanzi del Marchese De Sade (Storia di Juliette, Justine o le disavventure della virtù). Lucia è la giovane innocente e virtuosa, perseguitata come Clarissa Harlowe dell'omonimo romanzo di Samuel Richardson, inoltre il suo rapimento si può avvicinare a quello di lady Rowena descritto da Walter Scott in Ivanhoe. Il rapimento di Lucia e la sua prigionia nel tetro castello dell'Innominato nonché la descrizione del castello e del suo ambiente (capitolo XX) richiamano analogie con il romanzo gotico, il genere “nero” inglese del Settecento: The monk di Matthew Gregory Lewis, The castle of Otranto di Horace Walpole, The Mysteriers of Udolpho di Ann Radcliffe.

Per la storia di Gertrude si è trovato un riferimento nel romanzo La monaca di Diderot: è la storia della monacazione forzata di una figlia della ricca borghesia. Nel romanzo di Diderot c'è però una avversione contro le istituzioni ecclesiastiche, risalente all'Illuminismo, che è assente in Manzoni. Inoltre si rileva una descrizione più positiva in Diderot in cui manca la cupezza tragica di Manzoni. Sono riscontrabili echi dal romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau: la descrizione del paesaggio del lago di Ginevra (v. il lago di Como nel romanzo manzoniano), la figura di Giulia (lettera XVIII, III parte) che richiama quella di Lucia. Le avventure di Renzo sono accostabili a quelle del picaro dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo.

I Promessi Sposi sono una vicenda di umili. Si attua un capovolgimento della storia: gli umili sono i veri protagonisti. Lucia Mondella è una contadina umile, riservata e dotata di grande fede religiosa. Renzo Tramaglino ha le doti di un uomo di popolo: bontà, giustizia, religiosità, liberalità, ingenuità. Gli umili sono i protagonisti della storia, non come eserciti o gruppi sociali, ma ciascuno per sé, con il suo gruzzolo di sentimenti e di idee e le sue opere buone. Intorno ai due protagonisti, Renzo e Lucia, è presente un mondo di esseri semplici, contadini, artigiani, barcaioli, barrocciai, sempre pronti al bene nei pensieri e nelle opere.

C'è, nel romanzo, la vita del villaggio, con i suoi interni squallidi e le campagne, bruciate dalla siccità. Ogni vicenda storica è vista in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, procura loro sofferenza. È questa novità di un giudizio morale che esce da tutte le norme e le convenzioni ed attua il paradosso del Vangelo, che dà al romanzo la sua sostanza religiosa e rivoluzionaria. Il romanzo ha uno sfondo popolano dove gli umili sono solidali nella sventura. La stessa pietà per gli oppressi vi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori. Non vi sono solenni quadri storici, ma è presente la fisionomia varia e minuta di un'epoca.

I grandi personaggi sono in funzione subordinata: protettori dei deboli (Federigo Borromeo, fra Cristoforo) o incarnano gli aspetti negativi di un secolo (don Rodrigo, Azzeccagarbugli, conte Attilio, conte Zio, padre provinciale). I reggitori del destino dei popoli sono macchiette insignificanti: capitani di ventura, sovrani, ministri, il conte duca d'Olivares, Ferrer, il vicario di provvisione. Il romanzo manzoniano è stato sempre considerato dalla critica tradizionale il romanzo della Provvidenza divina. L'intervento di Dio è vivo in tutto il romanzo, ma avvertito con la fede semplice degli umili: "quel che Dio vuole, Lui sa quel che fa; c'è anche per noi"; "lasciamo fare a Quel lassù"; "tiriamo avanti con fede, Dio ci aiuterà".

In quanto romanzo storico e "sociale", i Promessi sposi delineano un quadro completo delle gerarchie tra le diverse classi sociali nella società lombarda del Seicento e delle attività che le caratterizzano. L'autore scrive (cap. I, 303-304): «Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici una corporazione». Dato che il romanzo ha un carattere volutamente popolare, Manzoni è attento a figure della piccola borghesia (mercanti e artigiani) e degli strati più umili della società (contadini e operai).

Il Manzoni ha la facoltà sovrana del poeta di vedere e suggerire, senza guastarle esprimendole, le segrete affinità tra l'anima e il mondo e le misteriose influenze dell'uno sull'altra, è tra i nostri poeti uno di quelli che ebbero più profondo e religioso il sentimento della natura e che in questa sentirono meglio Dio. Domina nello sfondo del romanzo il paesaggio familiare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale: «Quel cielo di Lombardia così bello quand'è bello, così splendido, così in pace» (Cap. XVII, 209). Il paesaggio è calato nella realtà storica ed umana del romanzo. La sobrietà delle descrizioni è il risultato di uno scarnimento ricco di possibilità liriche ed evocative; i passi descrittivi sono trascrizioni di un momento di vita interiore. Il paesaggio è sempre smorzato e triste, in armonia con il tono del racconto.

L'autore non si diffonde in descrizioni paesistiche, tuttavia l'aria del paese natìo circola in tutti i capitoli, evocata dalle azioni degli uomini. Nei riquadri paesistici spesso s'insinua una musica elegiaca, che nasce dalla riverenza con cui il poeta si accosta agli aspetti della natura. In effetti, l'intero incipit dell'opera è una dettagliata descrizione del paesaggio del Lecchese, fino poi a inquadrare la figura di Don Abbondio, e quindi dei due bravi, puntando finalmente sulle persone anziché sui luoghi.

Manzoni segue la concezione, propria del Romanticismo, di un paesaggio proiezione di emozioni, sensazioni, stati d'animo dei personaggi.

Il romanzo si apre con una finzione letteraria: la trascrizione dell'inizio di un manoscritto (una Historia) di un romanzo del Seicento, nello stile altisonante e ampolloso proprio della lingua del tempo ("questo dilavato e graffiato autografo"). In esso è scritto che, mentre la Storia ufficiale si occupa solo dei grandi avvenimenti e dei personaggi famosi, il nostro Autore vuole raccontare la storia di umili persone del popolo. Tale finzione o "falso" letterario serve a inquadrare le vicende narrate in uno sfondo storico. Si crea così una duplice prospettiva nella quale vengono visti gli avvenimenti: una secondo i fatti narrati, attribuiti all'autore del manoscritto; l'altra secondo i commenti e le riflessioni del romanziere sulle vicende trattate.

L'intonazione del passo iniziale è sentimentale e nostalgica, pur nella sua concretezza descrittiva. L'atteggiamento psicologico ed artistico di Manzoni è di chi rivede i luoghi cari della sua infanzia e li ricostruisce amorosamente in tutti i loro particolari. L'aggettivo dimostrativo iniziale ("Quel") esprime con efficace evidenza il senso del ricordo. Nella descrizione c'è una pittoricità a larghe tinte, che si fa via via sempre più minuziosa; nella solitudine dei luoghi è come il vagheggiamento dell'anima. Lo scrittore passa, con tecnica che si può dire cinematografica, dall'ampiezza ed indeterminatezza delle prime immagini (il ramo del lago "che volge a mezzogiorno", le "due catene non interrotte di monti") ad un successivo articolarsi di particolari, resi con immediatezza e freschezza quasi fotografiche.

C'è freschezza di acquerello nel quadro del lago e domina sempre il gusto dello spettacolo panoramico, un'atmosfera idillica di silenzio e di solitudine alpestre («Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua, di qua lago....di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora...»). Il gusto dello spettacolo panoramico è per esempio ben evidente quando Manzoni scrive: «Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo d'ogni parte...». Lo scenario della natura si restringe poi per mostrarci il mondo irrequieto e travagliato degli uomini («Per una di queste stradicciole tornava bel bello...»).

La vicenda è ambientata in Lombardia tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione spagnola. I protagonisti sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due giovani operai tessili che vivono in una località del lecchese, nei pressi del lago di Como, allo sbocco del fiume Adda. Il romanzo ebbe un impatto tanto forte sull'immaginario collettivo italiano che si volle per forza identificare il "paesello" dei Promessi Sposi e così, dopo i più capziosi ragionamenti, si scelsero due quartieri di Lecco, Olate ed Acquate che, ancora oggi, si contendono questo ruolo. Di fatto Manzoni non si riferiva a luoghi precisi e nel romanzo gli unici indicati chiaramente sono il quartiere lecchese di Pescarenico, dove si trovava il convento di Padre Cristoforo, e il castello della guarnigione spagnola, posto in riva al lago.

Ogni cosa è pronta per il matrimonio di Renzo e Lucia quando un signore del luogo, Don Rodrigo, scommette con il cugino Attilio che riuscirà a concupire Lucia. Perciò il curato del paese, don Abbondio, incaricato di celebrare il matrimonio, viene minacciato durante la sua solita passeggiata serale da due bravi di don Rodrigo, affinché non sposi i giovani. In preda al panico, don Abbondio cede subito. Il giorno dopo imbastisce delle scuse a Renzo per prendere tempo e rinviare il matrimonio, non esitando ad approfittare della sua ignoranza per utilizzare come spiegazione frasi in latino.

Renzo però, parlando con Perpetua, la domestica di don Abbondio, capisce che qualcosa non va e la costringe a rivelare la verità. Si consulta così con Lucia e con sua madre, Agnese, e insieme decidono di chiedere consiglio a un avvocato, detto Azzecca-garbugli; questi, inizialmente, crede che Renzo sia un bravo, e come tale è disposto ad aiutarlo, ma appena capisce la situazione scaccia precipitosamente il giovane. Così i tre si rivolgono a padre Cristoforo, loro "padre spirituale", cappuccino di un convento poco distante. Il frate decide di affrontare don Rodrigo e si reca al suo palazzo, ma quegli accoglie con malumore il frate, intuendo il motivo della visita; Cristoforo tenta di farlo recedere dal suo proposito, ma viene cacciato via in malo modo.

La forza evangelica di fra Cristoforo, straordinariamente accresciuta dalla provocazione, la sua semplice e terribile minaccia determinano nella coscienza addormentata di don Rodrigo un segno visibile di un remoto risveglio. La sua violenza persuasiva ed ispirata spalanca per un istante all'atterrito antagonista le porte della vera, autentica vita.

Intanto Agnese propone ai due promessi un matrimonio a sorpresa, pronunciando davanti al curato le frasi rituali alla presenza di due testimoni. Con molte riserve da parte di Lucia, il piano viene accettato, quando fra Cristoforo annuncia il fallimento del suo tentativo di convincere don Rodrigo. Intanto don Rodrigo medita il rapimento di Lucia e una sera alcuni bravi irrompono nella casa delle donne, che però trovano deserta: Lucia, Agnese e Renzo sono infatti a casa di don Abbondio per tentare di ingannarlo, ma falliscono, e devono riparare al convento di fra' Cristoforo, perché frattanto sono venuti a sapere del tentato rapimento. Contemporaneamente fallisce anche il rapimento di Lucia da parte dei bravi, che sono messi in fuga dal trambusto scoppiato nel villaggio a seguito dell'allarme dato dallo scampanio, che don Abbondio genera per chiedere aiuto contro il tentativo di "nozze irregolari". Il Manzoni, maestro di psicologia collettiva, ha schizzato qui alcuni temi che svolgerà nel grande affresco della sommossa milanese.

Renzo, Lucia e Agnese giungono al convento di Pescarenico dove padre Cristoforo espone loro i suoi progetti: Renzo si rifugerà presso il convento dei cappuccini a Milano dove cercherà padre Bonaventura, mentre Lucia troverà aiuto dal padre guardiano del convento nei pressi di Monza. Il religioso ha già scritto una lettera per ognuno dei confratelli e le consegna ai due.

Secondo quanto padre Cristoforo ha preordinato, Renzo, Lucia e Agnese scendono alle rive dell'Adda e salgono su una piccola barca. Lucia medita sull'addio ai monti. È una pagina permeata di spiritualità ed elegia. Domina fin dalle prime note un movimento verticale, che va dal cielo alla terra, per risalire di nuovo al cielo, e che è come un preludio all'ascensione spirituale contenuta nella chiusa.

Il pianto segreto di Lucia sulle cose più care che deve abbandonare si compone di un gesto che è tra i più belli che la poesia italiana ha saputo attribuire alle creature femminili. È la grande notte di Lucia, il suo paesaggio trepido e segreto: senza l'"Addio" Lucia non avrebbe mai rivelato la parte più gelosamente custodita del proprio cuore. Il notturno vigilante del lago è uno dei più belli di malinconia e serenità della poesia italiana.

Giunta al convento "pochi passi distante da Monza", Lucia viene accompagnata dal padre guardiano al convento di Monza dove vive Gertrude, la "signora" (la cui storia è ispirata a quella di suor Maria Virginia de Leyva), che prende la giovane sotto la sua protezione. Dopo l'incontro con Lucia, Manzoni racconta la biografia della monaca di Monza. Gertrude è figlia di un principe feudatario di Monza di cui il narratore, seguendo l'"Anonimo", tralascia il nome. Per conservare intatto il patrimonio del primogenito si era deciso prima ancora che nascesse che sarebbe entrata in convento. L'educazione della bambina è continuamente orientata a convincerla che il suo destino di monaca sia il più desiderabile.

Divenuta adolescente però, Gertrude comincia a dubitare di tale scelta. Tuttavia, un po' per timore, un po' per riconquistare l'affetto dei genitori, compie i vari passi previsti per diventare monaca. In convento soggiace alle attenzioni di Egidio, uno "scellerato di professione", in una relazione che avviluppa la "sventurata", colpevole non meno che vittima, in un gorgo di menzogne, intimidazioni, ricatti - proferiti e subiti - e complicità, anche nell'omicidio di una conversa che minacciava di far scoppiare lo scandalo rivelando la tresca.

Renzo, a Milano, non potendo subito ricoverarsi nel convento indicatogli da fra' Cristoforo, dato che padre Bonaventura è in quel momento assente, rimane coinvolto nei tumulti scoppiati in quel giorno per il rincaro del pane. Renzo si fa trascinare dalla folla e pronuncia un discorso in cui critica la giustizia, che sta sempre dalla parte dei potenti. È tra i suoi ascoltatori un "birro" in borghese, che cerca di condurlo in carcere ma Renzo, stanco, si ferma in un'osteria, dove il poliziotto viene a conoscenza, con uno stratagemma, del suo nome. Andato via costui, Renzo si ubriaca e rivolge nuovi appelli alla giustizia agli altri avventori.

L'oste lo mette a letto e corre a denunciarlo per proteggere i propri interessi. Il mattino dopo Renzo viene arrestato ma riesce a fuggire e si ripara nella zona di Bergamo, nella Repubblica di Venezia, da suo cugino Bortolo, che lo ospita e gli procura un lavoro sotto falso nome. Intanto la sua casa viene perquisita e viene fatto credere che sia uno dei capi della rivolta. Nel frattempo il conte Attilio, cugino di don Rodrigo, chiede a suo zio, membro del Consiglio Segreto, di far allontanare fra' Cristoforo, cosa che il conte ottiene dal padre provinciale dei cappuccini. In questo modo padre Cristoforo viene trasferito a Rimini.

Don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato, potentissimo e sanguinario signore, che però da qualche tempo riflette sulle proprie responsabilità, sulle vessazioni di cui si è reso autore o complice per attestare la propria autorità sui signorotti e al di là della legge, e sul senso della propria vita. Costui fa rapire Lucia dal Nibbio, con l'aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, e Lucia viene portata al castello dell'Innominato. Lucia, terrorizzata, supplica l'Innominato di lasciarla libera e lo esorta a redimersi dicendo che «Dio perdona molte cose per un atto di misericordia». La notte che segue è per Lucia e per l'Innominato molto intensa. La prima fa un voto di castità alla Madonna perché la salvi e quindi rinuncia al suo amore per Renzo. Il secondo trascorre una notte orribile, piena di rimorsi, e sta per uccidersi quando scopre, quasi per volere divino (le campane suonano a festa in tutta la vallata), che il cardinale Federigo Borromeo è in visita pastorale nel paese.

Spinto dall'inquietudine che lo tormenta, la mattina si presenta in canonica per parlare con il cardinale. Il colloquio, giungendo al culmine di una tormentata crisi di coscienza che egli maturava da tempo, sconvolge l'Innominato, che si converte impegnandosi a cambiare vita e per prima cosa libera Lucia, che viene ospitata presso la casa di don Ferrante e donna Prassede, coppia di signori milanesi amici del Borromeo. Intanto il cardinale rimprovera duramente don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio. Poco dopo scendono in Italia i Lanzichenecchi, mercenari tedeschi che combattono nella guerra di successione al Ducato di Mantova, i quali mettono a sacco il paese di Renzo e Lucia e diffondono il morbo della peste. Molti, tra i quali don Abbondio, Perpetua e Agnese, trovano rifugio nel castello dell'Innominato, che si è fatto fervido campione di carità.

Con i Lanzichenecchi entra nella penisola la peste: se ne ammalano Renzo, che guarisce, e don Rodrigo, che viene tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi bravi (che, contagiato anch'egli dalla peste, non godrà dei frutti del suo tradimento). Don Rodrigo viene portato dai monatti al lazzaretto in mezzo agli altri appestati e vi muore. Renzo, guarito, torna al paese per cercare Lucia, preoccupato dagli accenni fatti da lei per lettera a un suo voto di castità fatto quando era dall'Innominato, ma non la trova, e viene indirizzato a Milano, dove apprende che si trova nel lazzaretto. Qui trova anche padre Cristoforo, indomito nel servizio sebbene segnato dalla malattia, che scioglie il voto di Lucia e invita Renzo a perdonare don Rodrigo, ormai morente.

La peste viene descritta in maniera scrupolosa e nei minimi particolari nelle sue prime manifestazioni, nelle reazioni suscitate, negli interventi positivi e negativi degli uomini chiamati a occuparsene (dai medici, ai politici, alla chiesa). Agli errori delle autorità, alla voluta disinformazione si somma l'ignoranza superstiziosa della popolazione. Ne deriva uno sconvolgimento drammatico della città intera, attraversata da Renzo, ormai guarito, come un luogo infernale pieno di pericoli e di insidie mortali.

La parte più drammatica di questa descrizione si trova nel capitolo XXXIV (340 - 341), con una delle più celebri frasi della letteratura italiana: «Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato». In tale capitolo si parla anche di Cecilia, "di forse nov'anni", che, ormai morta, è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il piccolo corpo composto con tanto amore, e chiede poi di tornare dopo a «...prendere anche me e non me sola» (cap. XXXIV, 310-338; per questo episodio Manzoni trasse ispirazione dal De pestilentia di Federigo Borromeo).

La peste descritta nel romanzo ha il carattere della necessità: superflua perciò ogni nota storica. Il prologo del dramma è nella descrizione di don Rodrigo preso dal contagio. La peste appare nel suo vario orrore quando Renzo viene al suo paese e poi a Milano. Nella descrizione della città colpita dal morbo è una spaventevole verosimiglianza: non più la luce dell'alba cara al Manzoni ma la spietata intensità del sole a picco. La descrizione dei carri dei monatti è pagina potente e sinistra. Un'immagine di follia è nella corsa del cavallaccio spinto dal frenetico cavaliere. L'accordo dei vari temi dell'episodio si rivela però nelle note soavi della scena della madre di Cecilia, nell'umoristico contrasto tra l'angoscia dell'ambiente e il comico errore dei monatti su Renzo scambiato per untore, nell'idillica visione dell'ospedale degli innocenti, dove i bimbi allattati da donne e da capre suggeriscono il senso di una società favolosa come l'età dell'oro. Le principali fonti storiche utilizzate dal Manzoni furono: De peste quae fuit anno 1630 ("La peste del 1630") di Giuseppe Ripamonti; Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste di Alessandro Tadino.

Infine i due promessi s'incontrano nel Lazzaretto di Milano, dove Renzo era andato alla ricerca di Lucia. Con l'aiuto di padre Cristoforo superano lo scoglio rappresentato dal voto di Lucia e tornano al loro paese dove don Abbondio prima tentenna, poi acconsente a celebrare le nozze (avuta conferma della morte di Don Rodrigo). Si trasferiscono infine nella bergamasca; Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Hanno una prima figlia che chiamano Maria, come segno di gratitudine alla Madonna, e poi ne arriveranno altri. Il "sugo di tutta la storia" esplicitato da Manzoni è che con la fede in Dio tutti i problemi e le disgrazie si possono superare.

Il romanzo è ambientato in Lombardia, più precisamente in una zona che comprende il ramo lecchese del Lago di Como, l'Adda, Monza, Milano e Bergamo. Questa scelta non è casuale dato che Manzoni scrive di luoghi a lui familiari.



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