« ...proseguiva il suo cammino, guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano d'inciampo nel sentiero... egli, continuò a leggere tratti el suo salmo e si fermava... dopo alcuni tratti egli si fermava e lo leggeva... Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro. »
.Nel romanzo don Abbondio è il personaggio più caratteristico, perché il più originale e il più profondamente umoristico. Amante della pelle e del quieto vivere, si è fatto prete senza pensare ai gravi obblighi e ai nobili ideali del sacerdozio, solo preoccupato di vivere agiatamente e senza scosse. Debole, pauroso, è un animale senza artigli e senza zanne; egli avendo la coscienza della propria incapacità a difendersi e per questo tanto più amante della vita, si è creato un suo curioso sistema per uscire incolume in tempi tristi tristi di violenze e di soprusi. Ma il suo sistema, sebbene ben architettato, vale a salvarlo fino ad un certo momento, infatti ancorché la sua paura, che egli dice prudenza, gli abbia fatto scansare molti pericoli, alla fine cede alla intimidazione di un signorotto vile e prepotente, che gli ordina di non celebrare le nozze di due innocenti sotto pena della vita. La paura ottenebra in lui il sentimento del dovere e lo fa diventare complice dell'iniquità, cosicché il pover'uomo che aveva compiuto fino all'ora scrupolosamente i doveri inerenti al proprio ministero, davanti al pericolo della pelle cede per pusillanimità. Da qui i guai del nostro personaggio, di questo eroe della paura, il cui pensiero e le cui azioni sono continuamente legati a compromessi di coscienza, senza che egli ne sappia valutare la gravità dal punto di vista morale e religioso. Dall'inizio alla fine del romanzo don Abbondio non capisce ragione quando è preso dalla paura, e il Manzoni ce lo presenta sempre uguale, non sollecito d'altro che dalla propria sicurezza e incolumità. Tuttavia va detto che ogni volta che compare, ci fa ridere perché nel suo carattere vi è qualcosa di attraente e di vivace, e sulla scena rappresenta con tale verità e con tanto realismo l'uomo moralmente debole, che non diventa mai odioso e disprezzabile, ma semplicemente ridicolo. Il comico di don Abbondio nasce dal contrasto tra la realtà degli impicci, spesso di poca consistenza, e la gravità che egli vi attribuisce; tra gli obblighi del suo ministero che lo richiamano alla stretta osservanza dei suoi doveri, e gli impulsi della sua conservazione; tra la faciloneria con cui ricorre agli espedienti più meschini, per cavarsi d'impaccio senza suo danno, e la supina acquiescenza a cui s'abbandona. Comunque il Manzoni nel curato ci ha messo innanzi un carattere che si mantiene sempre uguale, non un vile buffone, né gli ha attribuito parole e atti burleschi o men che convenienti, tanto meno poi ha disonorato l'abito ecclesiastico. Umorista fine ed efficace ha con arte somma delineato un tipo, cioé l'eroe della paura, un infelice che non era nato con un cuor di leone, e che non volendo farsi mettere sotto i piedi, si era fatto prete per essere in una classe rispettata, non per vera vocazione. In molte circostanze del romanzo don Abbondio ci fa ridere, perché proprio quando potrebbe stare quieto, la paura gli crea fisime che lo fanno il tormentatore di se stesso. Anche nel lungo colloquio col cardinale non riesce a capire le sante massime di altruismo e di carità eroica, perché nel suo animo la paura ha spento ogni senso generoso. Il comico del nostro personaggio tocca il colmo nel viaggio di andata e ritorno dal castello dell'Innominato. Ma dopo aver risposto alle sue spalle per tante paure non dovute a serio motivo, finalmente alla notizia della morte di don Rodrigo, l'angoscia a lungo compressa, trova lo sfogo naturale; don Abbondio diventa bonario, garbato e perfino loquace e nell'allegrezza usa un linguaggio che sdrucciola nel volgare, senza malignità. E' felice di di giovare ai due promessi e di celebrare finalmente le nozze dei suoi cari figlioli. Cessata la paura, don Abbondio si riconcilia col mondo, con i suoi doveri di sacerdote, con i due promessi ai quali ha sempre voluto bene e che lo hanno pur sempre ricambiato, conservando un certo attaccamento al loro curato. Don Abbondio è un capolavoro di naturalezza, di umorismo profondo e garbato, di verità arguta ed esposta senza veli ed abbellimenti, con coraggio, al pubblico, per il che può essere definito il personaggio più profondamente umoristico dell'universa letteratura. Malgrado tutto, sorridiamo del suo egoismo fatto di paura, di paura, di questa sua incapacità di oltrepassare i limiti dell'io che ha la sua più evidente dimostrazione nel colloquio col cardinale Federigo.
Una battuta famosa di Don Abbondio, poi diventata proverbiale, è all'inizio dell'VIII capitolo, in cui, mentre distrattamente legge sulla poltrona, rumina tra sé e sé:
« ...Carneade. Chi era costui? »
Famoso è il modo in cui rivolge a Renzo Tramaglino, per confonderlo con un uso mistificatorio e prevaricatore di frasi latine oscure per il suo interlocutore:
« Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?
Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?
Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,...."
cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
"Si piglia gioco di me?" interruppe il giovine. "Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?" »
(I Promessi Sposi, cap. II)
Il personaggio è tuttavia scarsamente descritto dal punto di vista fisico, a parte alcuni accenni dell'autore: ha due occhi grigi, una bassa statura e una costituzione corpulenta, non emerge nient'altro riguardo all'aspetto dell'anziano curato. La sua età non viene precisata, ma nel cap. I si dice che "il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche". Il curato è dunque nato prima del novembre 1568. Il casato del personaggio, come fa presente Manzoni stesso, non è presente nel manoscritto da cui l'autore trae il romanzo.
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