venerdì 10 luglio 2015

DON RODRIGO

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« Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla cima d'uno dei poggi ond'è sparsa e rilevata quella costiera. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la capitale del suo piccolo regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de' costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschette da polvere, alla rinfusa. la gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e arcigni...; vecchi che perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia buone nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne' sembianti e nelle mosse dei fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e provocativo »

Signorotto locale, potente e meschino (probabilmente la scelta del nome è influenzato dal personaggio di Roderigo, nell'Otello di Shakespeare), mosso dall'orgoglio di casta e dal terrore della superstizione, si trova al centro della macchina narrativa per una scommessa e un capriccio. La sua forza non è reale ma è costituita dai bravi, che nascondono la sua debolezza. Alla fine del romanzo morirà di peste.

La tradizione orale lecchese identifica il palazzotto di don Rodrigo con la villa dello Zucco che, nel Seicento, apparteneva alla casata degli Arrigoni, nobili potenti e prepotenti, protagonisti di una lunga faida contro i nobili Manzoni, gli antenati dello scrittore. Alla fine del XVII secolo la villa dello Zucco passò ai conti Salazar e poi agli industriali Guzzi che la fecero demolire per costruire l'attuale edificio razionalista. Don Rodrigo è il deus ex machina del racconto. Si tratta di un tirannello mediocre che ben è stato analizzato anche da Francesco De Sanctis. Il critico evidenzia l'essenza psicologica di don Rodrigo, che è tutto dominato dal motivo comico e pure altamente tragico del puntiglio, del falso punto d'onore, che lo spinge, di grado in grado, fino al delitto.

Nobilotto degenere di villaggio, egli non è il peggiore dei suoi pari ed anche se la fatalità della sua posizione morale, frutto dell'ambiente in cui vive e della classe cui appartiene, non gli dà il diritto di essere assolto, il giudizio negativo di Manzoni è temperato nei suoi confronti da una pensosità religiosa che, nella descrizione della sua morte, si fa addirittura grave e raccolta pietà. Don Rodrigo fa la sua ultima apparizione cosciente nel capitolo XXXIII. Lo scellerato protagonista del romanzo conferma la natura arida e turpe del suo animo, senza alcun segno di riscatto o ripensamento: cinico verso il cugino conte Attilio morto di peste, prepotente e violento anche nel sogno, pauroso e vigliacco di fronte alla malattia e al Griso, il capo dei suoi bravi.

Anche lui va incontro al momento più difficile della sua vita durante la notte, come già era successo a don Abbondio (capitolo II), a Renzo Tramaglino (capitolo XVII) e all'Innominato (capitolo XXI). L'episodio è strutturato in quattro momenti: il rientro a casa con le prime avvisaglie della malattia; la notte con il sonno e il sogno tormentati; il risveglio con la scoperta e il terrore della malattia; il tradimento del Griso con la crisi e l'annichilimento psicofisico. Secondo la recente interpretazione di Giovanni Macchia egli si può considerare un Don Giovanni mancato: desideroso di possedere Lucia, deve ricorrere alla violenza, poiché incapace di usare la seduzione.

Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco; in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal suo defunto parente.



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