venerdì 3 luglio 2015

FILOSOFANDO



Nella propria vita la maggior parte di noi si sarà chiesta chi siamo perchè viviamo e dopo cosa succede. Penso che una risposta non ce l'abbia nessuno.

Quando si riflette sulla vita umana in generale è difficile non essere presi, prima o poi, da un senso di sgomento, il quale riunisce in sé contrastanti sentimenti di paura, delusione, mistero, inquietudine. 

.Si vuole sapere che cosa significa essere "uomini", sapere quale sarà il nostro "destino", e ciò vuol dire chiederci in fondo questo : riuscire a fare qualcosa che ci distinguerà da ogni altro essere che è vissuto su questa terra ? In altre parole, quando ci si chiede "chi sono io?", scopriamo l'unicità della nostra persona e cioè acquisiamo progressivamente la consapevolezza di essere persone singolari.

Qual è il significato della nostra vita e della vita in generale ? Essa ha un senso o non ne ha alcuno ? E' forse assurda o che altro ? Le difficoltà cominciano subito, appena tentiamo di definire un po' meglio che cosa intendiamo con l'espressione "senso della vita" o simili. Per cercare di superare l'impasse, potremmo partire da una constatazione : potremmo dire che, indipendentemente dal fatto di porci o no il problema del senso della vita, l'umanità nel suo complesso ha scelto la vita, ha scelto di continuare a vivere. Non sappiamo bene perché, però gli esseri umani continuano a scegliere la vita piuttosto che la morte (sempre parlando in generale). Sì, certo, ci sono le guerre, i morti ammazzati e i suicidi, la violenza ecc., però l'uomo continua ad esistere su questo pianeta, nonostante tutto .



L'espressione "senso della vita" potrebbe essere così trasformata dicendo che l'uomo, scegliendo di continuare a vivere, ha scelto di ritenere la vita "sensata", ha deciso che è meglio vivere che morire. Anche perché non abbiamo alcuna esperienza della morte ma solo di quel che vuol dire vivere, e visto che sappiamo che cosa implica vivere, abbiamo "deciso" che è meglio affidarci a qualcosa che conosciamo piuttosto che farci attrarre da qualcosa che ci è del tutto sconosciuto. Così non rispondiamo alla domanda "la vita ha senso?" con un semplice sì o con un no, ma diciamo, intanto, che preferiamo vivere, che continuiamo a vivere, che, visto che siamo qui, proseguiamo il nostro cammino. Che questo voglia dire "dare un senso alla vita" o considerarla "sensata" è, in fondo, secondario. Ci sembra però di capire che i cosiddetti "problemi esistenziali" - sui quali possiamo disquisire per ore e ore - non possono essere risolti o chiariti solo a parole, bensì con una scelta concreta nel comportamento quotidiano. Il "senso" è dunque il termine astratto e generico che noi usiamo per indicare l'insieme dei nostri comportamenti atti a promuovere la vita e il suo proseguimento. Tutto ciò che è in contrasto con esso, lo chiameremo "non senso" ed in genere non riscuote molto la nostra simpatia, visto che lo riferiamo ad atti malvagi del tutto contrari alle norme della convivenza pacifica.

La questione dell'identità personale – cioè, anzitutto, la risposta alla domanda “chi sono io?” – attraversa in senso trasversale tutta la Storia della filosofia, e più in generale della cultura dell'Occidente nelle sue molteplici manifestazioni intellettuali. Inoltre dal punto di vista storico essa non si è mai posta in maniera isolata, ma sempre in relazione alla moltitudine di esperienze che fanno percepire all'uomo di essere un sé, cioè di essere un'identità: la domanda “chi sono io” sorge infatti a partire da una serie di esperienze della vita quotidiana che mettono in evidenza la presenza di un'identità, di un io. La coscienza dell'identità personale, cioè la coscienza che c'è un io, ha senso soltanto nel momento in cui ci si scontra con qualcosa che io non-è: l'autocoscienza sorge alla vista  degli altri che mi si oppongono, del corpo degli altri, della voce degli altri che ci si palesa dinanzi. Se non ci fosse stato l'altro-da-me, non avrebbe avuto ragion d'essere alcuna domanda sull'io: chi è quell'altro che mi si oppone dinanzi? E dunque, chi sono io, a cui l'altro si oppone? Oppure: che cosa sono io, se l'altro non è uguale a me (è un animale, un sasso, un tuono) o se non è più come me (è un corpo morto, un cadavere)?

LA VITA E' :

La vita è un delicato equilibrio tra il prendere buone decisioni ed evitare i pericoli.

La vita è fidarci dei nostri sentimenti, affrontare i rischi, trovare la felicità, valorizzare i ricordi ed imparare dal passato.

La vita è così breve che se la sprechi, finirà ancora più in fretta.

La vita è come il divano dei Simpson: non sai mai cosa può succedere.

La vita è un’avventura: vivi, senti, ama, ridi, piangi, gioca, vinci, perdi, cadi, ma alzati sempre e continua.

La vita è vivere il momento e renderlo il migliore possibile, senza sapere cosa succederà dopo.

La vita è una camera della tortura, dalla quale usciremo morti.

Sta a noi decidere cosa è per noi la vita. Io la vedo come un punto interrogativo:???????????



E quando si muore cosa succede? Bo nessuno è tornato a dircelo. 
La morte è la cessazione di quelle funzioni biologiche che definiscono gli organismi viventi. Essa si riferisce sia a un evento specifico sia a una condizione permanente irreversibile. Con la morte, termina l'esistenza di un essere vivente o, più ampiamente, di un sistema funzionalmente organizzato. La morte non può essere definita se non in relazione alla definizione di vita, anch'essa piuttosto ambigua. Da una visione atea, in un punto spazio-temporale infinito, la morte non esisterebbe in quanto l'universo non perde comunque le proprie funzioni, essendo, quindi, una condizione relativa.

La difficoltà d'interpretare filosoficamente la morte rispetto alla vita è ben rappresentata dalla varietà di letture consentite da una locuzione latina come «omnes feriunt, ultima necat».

Le meditazioni umane riguardo al fenomeno della morte costituiscono storicamente uno dei fondamenti nello sviluppo delle religioni organizzate. Anche se i modi di definire e analizzare la morte variano diametralmente da cultura a cultura, la credenza in una vita dopo la morte - un aldilà - è assai diffusa e molto antica.

Molti antropologi ritengono che le sepolture degli uomini di Neanderthal in tombe scavate con cura e adorne di fiori siano la testimonianza di una primordiale fede in una sorta di aldilà. Alcuni considerano che il rispetto per i defunti e per la morte (più o meno allegorizzata) sia istintivo all'uomo. Altri, invece, ipotizzano che sia una forma per giustificare la ricomparsa dei morti durante i sogni.

A differenza che nell'Ebraismo, nella maggioranza delle religioni di matrice cristiana c'è la credenza nella risurrezione: dopo la morte, l'anima del defunto, unita al corpo alla fine dei tempi, trascorrerà l'eternità in continua contemplazione di Dio in paradiso. L'inferno, il limbo e il purgatorio costituiscono invece i luoghi a cui sono condannate le anime non pure, anche se chiese e teologi non sono concordi sull'esistenza e su cosa rappresentino questi luoghi. Dalla visione dell'anima immortale e dell'inferno si distaccano solo le chiese cristiane avventiste e i Testimoni di Geova, che insegnano con toni diversi che dopo il giudizio finale i peccatori saranno puniti con la distruzione eterna.

Presso l'Induismo, il Sikhismo e altre religioni orientali si crede nella reincarnazione; secondo questa filosofia, la morte rappresenta un passaggio naturale (tanto quanto la nascita) tramite il quale l'anima abbandona un involucro ormai vecchio per abitarne uno nuovo (il corpo fisico), fino all'estinzione del karma e alla conseguente liberazione definitiva. Per questo motivo l'idea della morte viene affrontata con minor struggimento interiore.

« Fui pervaso fin nel più profondo del cuore dal sentimento dell'impermanenza di tutte le cose che mi era stato trasmesso da mia madre. La vita umana era effimera come i petali avvizziti, spazzati via dal vento. La nozione buddhista dell'impermanenza (mujo) faceva parte del mio essere più intimo. Niente nell'universo intero può resistere al tempo. Tutto ne viene travolto, tutto è condannato a scomparire o a mutare. Anche lo spirito, come la materia, è chiamato a trasformarsi, senza mai poter raggiungere la permanenza. Per questo l'uomo è costretto ad avanzare in solitudine, senza alcun appoggio stabile. Come è detto nello Shodoka, neppure la morte, che lascia ciascuno solo nella sua bara, è definitiva. Soltanto l'impermanenza è reale »
(Taïsen Deshimaru, Autobiografia di un monaco zen, traduzione di Guido Alberti. Titolo originale: Autobiographie d'un Moine Zen)
Un chiaro riferimento al significato biologico della morte, inteso come legame tra amore e morte, è presente nell'opera di Sigmund Freud, e tale concetto viene ripreso e citato anche da altri autori.

La morte non ha mai cessato d'essere, oltre che un evento biologico connaturato al fatto stesso di vivere, uno dei più forti stimoli alla fantasia. A rigore si potrebbe persino dire che non c'è la morte "in sé", ma ci sono organismi viventi che muoiono. Di fatto nell'immaginario collettivo la morte è sempre stata oggettivista come un'entità esterna al vivente, qualcosa "che arriva", da ciò la sua mitizzazione. La morte è quindi anche una figura mitologica molto popolare, presente in forma più o meno differente in moltissime culture umane fin dall'inizio della tradizione orale.

L'iconografia occidentale rappresenta la morte in genere come un sinistro mietitore: uno scheletro vestito di un saio nero, che impugna una falce fienaia. Come tale, è ritratta anche in una carta dei tarocchi e appare sovente in letteratura e nelle arti figurative.

La realtà del morire e quella del soffrire costituiscono due aspetti topici dell'etica di tutti i tempi a partire dal concetto fondamentale di "chi" è l'agente determinante della prima e della seconda. Sia la sofferenza sia la morte, da un punto di vista biologico, hanno la loro causa nello stesso esistere dell'essere vivente.

Una domanda mi pongo spesso....cos'è la felicità? 




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