« Il padre Cristoforo era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un'astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d'espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d'un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne' suoi ultim'anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell'unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore. Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. »
Figlio di un commerciante, prima di ricevere la vocazione e diventare frate cappuccino, si chiamava Lodovico; Manzoni non fornisce alcun cognome a questo personaggio. Grazie alla fortuna paterna cercava di introdursi negli ambienti della nobiltà ma rifiutato da questa come irrimediabilmente inferiore per nascita (il suo ultimo avversario lo definisce sprezzantemente vile meccanico), si immedesima nel ruolo di paladino dei più poveri.
Lodovico dopo essersi scontrato con un nobile e averlo ucciso in un duello, provocato da cause banali, in cui perde la vita anche Cristoforo, servitore cinquantenne da lui molto amato, si rifugia in un convento di Cappuccini. Le due tragiche morti (il nobile arrogante con cui aveva duellato si pente e perdona Lodovico tramite il cappuccino accorso ad assisterlo) avviano alla fine un processo già iniziato di conversione e decidono il giovane al cambiamento di vita cui aveva già altre volte pensato.
Chiede quindi di essere accolto come postulante al convento stesso dove si è rifugiato. La sua decisione permette ai Cappuccini di evitare il prevedibile imbarazzo di difendere il diritto di asilo di un nemico di una potente famiglia, e alla famiglia dell'ucciso, che lo scrittore mantiene anonima, l'imbarazzo di scontrarsi con la Chiesa per ottenere vendetta. Nella soddisfazione generale Lodovico viene quindi rivestito del saio.
Memore del suo vecchio e amato servitore, come nome religioso Lodovico sceglierà il nome di Cristoforo, nome peraltro con una forte valenza religiosa significante "portatore di Cristo". La scena del duello, provocato dalla discussione su chi avesse dovuto cedere il passo fra i due contendenti (cap. IV), ripropone una situazione tipica della tradizione cavalleresca, passata poi ai popolari romanzi di avventura, i romanzi di cappa e spada, tra i quali il celeberrimo I tre moschettieri di Alexandre Dumas.
Tuttavia la conversazione non crea in lui un nuovo carattere; indole, sentimento e volontà restano intatto, ma dopo la tragedia egli consacra tutte le sue forze ad espiare il suo fallo, e diventa, quindi, l'amico dei buoni, il sostegno dei deboli, la provvidenza dei perseguitati. Infatti dovunque compare è per far del bene; il suo dinamismo gli dà la consapevolezza della superiorità della propria anima, aperta alla luce della giustizia e della bontà, della comprensione umana e cristiana verso i deboli. Il suo mirabile ardore di carità è l'essenza, la caratteristica fondamentale della sua nuova vita. Egli diventa virtù operante profondamente umana, e tanto più attiva quanto più viene a contatto con le passioni che agitano questa nostra varia umanità, buona o malvagia, trista o sofferente, supina al male o eroica nel bene. In questa sua missione di bene, accettata con spirito altamente francescano, l'animo del frate si innalza sublime a toccare le vette dell'amore, fatto di pazienza e di carità, di forza e di sensibilità; quanto più aderisce al multiforme realismo della nostra vita, tanto più acquista una sua potenza interiore, che in ogni momento ei esprime in umiltà. Padre Cristoforo è la figurazione del Bene; benedetto sempre dalla folla che lo crede un santo; temuto dai malvagi a cui parla schietto e fiero il linguaggio dell'accusa e della minaccia in nome di Dio. tuttavia sempre memore dei suoi trascorsi giovanili, sa comprendere e compatire le miserie umane; capisce Renzo innamorato e vittima di un infame sopruso, le sue furie e cerca di soffocarne l'ira con gli argomenti della fede e con le verità del Vangelo. Allontanato da Pescarenico, comandato di recarsi a Rimini, affida alla Provvidenza i suoi protetti, che più tardi rivede nel lazzaretto a Milano con sua grande consolazione, e li benedice, confortato di vederli prossimi alle nozze. Nell'ultimo addio stringe la mano di Renzo, che è sempre il suo figliolo dopoché ha perdonato a don Rodrigo, colpito dalla peste e agonizzante su di un misero giaciglio. Consapevole di essere vicino alla grande ora del trapasso, questo eroe della carità, che tra gli appestati sta per chiudere gli occhi sulle miserie del mondo, spera di aprirli nella luce della beatitudine eterna. Di tutti i grandi personaggi del romanzo, nessuno può rappresentare con maggiore spirito e con più sublimità la rinunzia e il sacrificio, nessuno è così trasfigurato dalla carità. Solo padre Cristoforo poteva capire la bellezza dell'anima di Lucia; e il Manzoni accosta queste due creature nella visione di Renzo in fuga da Milano: una treccia nera e una barba bianca.
Le cronache di Pio la Croce del 1630 narrano del frate cappuccino padre Cristoforo Picenardi da Cremona morto di peste nel lazzaretto in quell'anno.
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